Come far sì che i figli non si comportino da viziati

Tutti i bambini prima o poi frignano e fanno i capricci: il Washington Post ha messo insieme un po' di dritte per i genitori, prese da studi ed esperti

di Karen Weese – The Washington Post

Forse è stata quella volta che avete portato i vostri figli al parco divertimenti e tornando a casa – quando le loro adorabili facce erano ancora appiccicose per via dei frullati che gli avevate comprato e ai polsi avevano ancora attaccato il pass giornaliero per cui avevate speso un sacco di soldi – vi hanno chiesto di fermarsi a prendere un gelato. Al vostro rifiuto hanno iniziato a gridare: «Non possiamo mai fare niente!». O forse è stata quella volta in cui avete chiesto loro di dare una sistemata al soggiorno dopo che avevate passato l’aspirapolvere in tutta la casa, pulito il bagno, tagliato l’erba in giardino e fatto la spesa, e loro hanno iniziato a frignare: «Dobbiamo fare tutto noi?».

Quasi tutti hanno delle storie da-sbattere-la-testa-contro-il-muro su come i propri figli ogni tanto si comportino da viziati. Abbiamo provato qualsiasi cosa per farli smettere, ma ci sembra ancora di non fare le cose nel modo giusto. Esiste però un nuovo e affascinante campo di ricerca chiamato “economia comportamentale”, che studia i modi a volte irrazionali in cui prendiamo decisioni e vediamo il mondo. Se capissimo un po’ di più le fissazioni istintive e irrazionali nelle teste dei nostri figli, forse saremmo meglio attrezzati a educarli in modo che siano più gentili e meno viziati.

L’errore fondamentale

La macchina sportiva blu di fianco alla mia inizia a far rombare il motore, entra bruscamente nella mia corsia e schizza via, mentre io mormoro: «Idiota». Subito dopo gira a sinistra, in corrispondenza di un cartello che segnala l’entrata di un pronto soccorso di un ospedale. Quando qualcuno ci taglia la strada nel traffico, arriva in ritardo o ci offende in qualche altra maniera, spesso attribuiamo istintivamente il gesto a una caratteristica innata dell’altra persona. Quando però siamo noi a creare un disagio agli altri, di solito diamo la colpa a fattori esterni («Non l’ho visto»). È una tendenza così universale che gli scienziati comportamentali le hanno trovato un nome: errore fondamentale di attribuzione.

In che modo i genitori possono sfruttare a loro vantaggio la conoscenza di questa tendenza? La prossima volta che andate a mangiare in un ristorante e i vostri figli iniziano a lamentarsi perché il loro piatto non è ancora arrivato dando la colpa alla cameriera, potreste dir loro che forse in cucina sono pieni di ordinazioni, e la cameriera sta facendo del suo meglio. Forse sta servendo dei tavoli in più perché un suo collega è in malattia, o magari questo è il suo secondo lavoro ed è in piedi dalle quattro del mattino. «Fare mettere i nostri figli nei panni delle altre persone è molto importante», ha detto Amy McCready, che ha due figli e ha scritto il libro The ‘Me, Me, Me’ Epidemic: A Step-by-Step Guide to Raising Capable, Grateful Kids in an Over-Entitled World. «È un modo per togliere i nostri figli dal centro dell’universo e far sì che non pensino solo a loro stessi».

Adattamento edonico

È sabato mattina e siete andati a comprare delle brioche fresche per colazione. Dopo averle assaggiate, i vostri figli smettono subito di masticare: «Non sono al cioccolato», dicono con l’aria di chi ha appena subìto un affronto. Gli studi comportamentali mostrano come gli esseri umani siano in grado di abituarsi a qualsiasi cosa se vi sono esposti con frequenza. Si chiama “adattamento edonico” ed è il motivo per cui Justin Bieber continua a comprarsi auto assurde, per cui abbiamo l’impressione che la cucina che abbiamo appena ristrutturato abbia bisogno all’improvviso di un nuovo pannello sul muro e per cui chi vince alla lotteria, dopo l’emozione iniziale, è felice quanto prima. Cosa significa questo per genitori e figli? Qualsiasi cosa diamo o facciamo diventa velocemente la nuova regola, che si parli di un gelato dopo l’allenamento o una determinata marca di vestiti. Ma anche non fare delle cose può diventare la norma: se i nostri figli si sono abituati ad avere il letto fatto o trovare la cucina apparecchiata, impareranno ad aspettarsi che sia sempre così.

«Io penso in questo modo: “Quali sono le regole che sto impostando?”», ha detto Tess Thompson, che ha due figli e vive a Webster Groves, in Missouri. «Il campo estivo dove in settimana vanno i miei figli è fatto in modo che passino tutto il tempo a divertirsi e quindi loro pensavano che anche il sabato dovesse essere così». Thompson ha dovuto azzerare le loro aspettative: «Quando abbiamo smesso di farle tutti i sabati hanno iniziato a vedere le uscite speciali come un regalo».

Non è normale

Un giorno Allison McElroy, una bambina di sei anni, ha invitato un’amica a casa sua per giocare. La sua amica, però, ha continuato a sbirciare intorno alla casa finché alla fine le ha chiesto perplessa: «È una mini casa?». La mamma di Allison, Cheryl, ha cercato di controllare il suo tono di voce: «No, è una casa vera: è qui che viviamo». «Aveva un tono come per dire: “Tutto qui?”», ha ricordato Cheryl ridendo. La nuova amica di sua figlia viveva in un quartiere in cui le case hanno atri altissimi e stanze enormi, molto diverse dalla piccola ma deliziosa villetta a un piano dove vivono i McElroy. «Credo fosse la prima volta che entrava in una casa a un piano», ha raccontato Cheryl. La piccola ospite stava facendo quello che gli scienziati comportamentali chiamano “errore della disponibilità”, che ci porta a sovrastimare la prevalenza di una cosa di cui vediamo molti esempi. Se nella loro scuola tutti i bambini hanno scarpe da 100 euro, i nostri figli penseranno che sia una cosa normale: non perché siano dei mostriciattoli viziati, ma perché è quello che vedono tutti i giorni.

«È molto difficile: abbiamo scelto di mandare i nostri figli in scuole private e quando gli altri bambini tornano dalla vacanze di Natale raccontano di essere andati a sciare in località rinomate, e così i nostri figli hanno l’impressione che sia la norma», ha detto Josh Wright, che vive con i suoi tre figli a Takoma Park, in Maryland, ed è il direttore esecutivo della società di consulenza comportamentale Ideas42. «Ai nostri figli diciamo sempre: “Lo sapete che non è una cosa normale, no? È solo una piccola fetta di mondo”». Per dare a suoi figli un’idea del mondo più ampia, Wright li fa lavorare regolarmente come volontari in una mensa per i poveri, e ha scelto di vivere in un quartiere eterogeneo dal punto di vista socioeconomico in modo che fossero esposti a diverse esperienze.

Effetto della vittima identificabile

Nel bigliettino nella mano di mia figlia si leggeva: «Femmina. 6 anni. Vuole una canottiera», in quello che teneva mio figlio invece c’era scritto: «Maschio. 7 anni. Vuole dei dinosauri». Le prediche che avevo fatto ai miei figli sui bambini che muoiono di fame in paesi lontani erano ovviamente passate da un orecchio all’altro. Ma quel giorno di dicembre i miei figli, che all’epoca avevano 5 e 8 anni, correvano in giro per il negozio smaniosi di trovare i regali giusti: «Penso che le piaceranno! Ci sono disegnate sopra le principesse!»; «Posso comprare una canottiera anche per lui? Non voglio che abbia freddo!». Ovviamente i miei figli non hanno iniziato a pensare ai bambini meno fortunati grazie al mio favoloso lavoro di genitore. È stato quello che gli scienziati comportamentali chiamano “effetto della vittima identificabile”, la tendenza degli esseri umani a reagire in modo più empatico alle difficoltà di una singola persona rispetto a quelle di un gruppo numeroso.

L’economista comportamentale Dan Ariely, per esempio, spiega nel suo libro The Upside of Irrationality che mentre per la vittima di uno tsunami in un paese lontano siamo forse disposti a prendere in considerazione l’ipotesi di donare qualche euro, se invece attraversando un parco dovessimo vedere una bambina che affoga nel laghetto davanti a noi, non avremmo esitazioni nel tuffarci per salvarla. L’immagine vivida di una persona vicino a noi è sempre più forte di quella vaga di molte persone lontane. La consapevolezza di questa tendenza può aiutarci a scegliere metodi più efficaci per far interessare i nostri figli alle persone bisognose. «Per far sì che i bambini assimilino questo concetto bisogna concentrarsi sulle singole persone», ha detto Wright.

Niente per niente

«Forza, solleviamolo!», con un ultimo sforzo tu e i tuoi nuovi vicini siete riusciti a portare il pianoforte dentro la loro casa. Il marito va in cucina, dove pensi sia andato per offrirti una birra, e invece torna con in mano il portafoglio. «Ecco», dice, allungandoti venti euro, «grazie mille per l’aiuto». All’improvviso tutto il tuo cameratismo scompare, e con lui anche la voglia di invitare i tuoi vicini da te a cena per una pizza. Perché? Alcuni studi mostrano che siamo più motivati a fare qualcosa per un’altra persona come parte di un’interazione sociale rispetto a un tornaconto economico.

Quando Ariely chiese ai suoi studenti di spostare un divano per dieci dollari o come favore, i ragazzi disposti a farlo come cortesia sono stati di più di quelli che l’hanno fatto per denaro. Quando c’erano di mezzo i soldi, scrive Ariely, gli studenti hanno iniziato a pensare se valesse la pena perdere tempo per farlo, se dieci dollari fossero abbastanza o se Ariely non li stesse fregando. Questi esempi mostrano come pagare i nostri figli perché facciano le faccende di casa potrebbe non dare i risultati sperati. Probabilmente all’inizio funzionerà, racconta McCready, e pagarli occasionalmente per fare compiti più grandi va bene. Ma per quanto riguarda le faccende quotidiane, «a un certo punto chiederai loro di svuotare la lavastoviglie e ti sentirai rispondere: “Sono a posto. Oggi non ho bisogno di soldi”», ha detto McCready. O magari i vostri figli inizieranno a trattare: «Quanto mi dai se porto dentro la spesa?». McCready suggerisce invece di presentare le faccende come contributi necessari al funzionamento della famiglia. «Lo so che pulire il bagno non è divertente, ma se tutti facciamo qualcosa, per pranzo la casa sarà pulita. Grazie per l’aiuto!». Casa pulita, cuori caldi e figli generosi.

© 2016 – The Washington Post