I teatrini di Ai Weiwei

Il critico d'arte Francesco Bonami stronca la nuova opera dell'artista cinese (e sgrida tutti noi)

L'installazione "reframe" dell'artista cinese Ai Weiwei, composta di 22 gommoni arancioni, appesa alle finestre di Palazzo Strozzi, a Firenze, per la mostra "Ai Weiwei Libero", il 21 settembre 2016 (Alvise Armellini/picture-alliance/dpa/AP Images)
L'installazione "reframe" dell'artista cinese Ai Weiwei, composta di 22 gommoni arancioni, appesa alle finestre di Palazzo Strozzi, a Firenze, per la mostra "Ai Weiwei Libero", il 21 settembre 2016 (Alvise Armellini/picture-alliance/dpa/AP Images)

Il 23 settembre a Palazzo Strozzi a Firenze aprirà una mostra dell’artista cinese Ai Weiwei Ai Weiwei. Libero, che durerà fino al 22 gennaio 2017. La prima opera della mostra, che si vede anche dall’esterno di Palazzo Strozzi, sono 22 gommoni appesi alle finestre del primo piano del palazzo. Sulla Stampa il critico d’arte Francesco Bonami, che in passato aveva già definito Ai «un arrampicatore stratega furbissimo che pur di diventare famoso avrebbe fatto di tutto», ha criticato duramente la mostra e l’artista che secondo lui è diventato un dissidente politico – nel 2011 ha passato quasi tre mesi in carcere, ufficialmente per evasione fiscale – solo per poter avere successo internazionale come artista.

Secondo Bonami, Ai sfrutta temi che interessano molto alle persone, prima la libertà di pensiero e parola in Cina, poi la questione della sorveglianza delle autorità sui cittadini, ora le morti dei migranti nel Mar Mediterraneo (Bonami sottolinea che i gommoni di Palazzo Strozzi, ordinati, belli e puliti, non hanno nulla a che vedere con quelli su cui i migranti tentano di raggiungere l’Europa dalla Turchia), per avere più visibilità, ma non compie alcuna operazione artistica: si limita a comunicare ciò che tutti già sanno.

Qualche anno fa dichiarai pubblicamente che Ai Weiwei non doveva essere incarcerato per le sue idee ma per la sua arte. Scherzavo. Nessuno dovrebbe mai essere messo in carcere né per le proprie idee né per la propria arte. Oggi, visti i gommoni arancioni appesi davanti alle finestre di Palazzo Strozzi, se mi fosse chiesta nuovamente la mia opinione la confermerei aggiungendo però di inasprire la sentenza. Ai Weiwei più che un artista è stato un architetto affascinato dal successo di tanti artisti contemporanei. Per ottenerlo ha usato la scorciatoia della dissidenza politica. Cosa non difficile da praticare in Cina. Ha iniziato quindi il gioco del gatto e del topo con le autorità cinesi. Anche se prima aveva però collaborato con loro contribuendo al famoso stadio olimpico di Pechino degli architetti svizzeri Herzog e De Meuron come consulente artistico.

Ha poi pianto lacrime di coccodrillo dichiarando che era stato un errore, essendo le Olimpiadi un mezzo di propaganda politica. Bella scoperta. A Palazzo Strozzi, grandi installazioni e sculture raccontano le inefficienze del potere in Cina. Ora con un serpente fatto con zainetti simili a quelli dei bambini morti in una scuola crollata per il terremoto. Ora usando pannelli solari per denunciare la repressione in Tibet. Ora con una stanza piena di telai e ruote di biciclette rimpiangendo la Cina che non c’è più. Lavori tirati a lucido, trasformati in oggetti di design, cancellando ogni traccia di quella umanità bistrattata dagli inefficienti politici cinesi della quale Ai Weiwei si fa paladino. Noi occidentali, con sensi di colpa e memorie sessantottine, all’esca di Ai Weiwei abbiamo abboccato subito. In Cina artisti e curatori lo vedono con sospetto, disagio e a volte disprezzo per il cinismo con il quale utilizza temi sociali e tragedie umane per far propaganda a se stesso.

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