La sfilata di Vivienne Westwood durante la settimana della moda di Londra, con i cartelloni di protesta per i tagli alla spesa del governo Cameron, i cambiamenti climatici e il fracking, 20 settembre 2015, (Tristan Fewings/Getty Images)

La moda può essere impegnata?

È un lungo dibattito, che torna fuori ogni volta che stilisti e fotografi fanno entrare il mondo reale nei loro lavori, provocando proteste e polemiche

Vanessa Friedman, fashion editor del New York Times, ha affrontato in un recente articolo il lungo dibattito sull’opportunità che la moda sia impegnata e cerchi di incidere sul mondo reale. La questione è tornata d’attualità dopo che alcuni stilisti e fotografi hanno alluso alla crisi dei migranti nelle loro collezioni e nei loro servizi fotografici. Friedman spiega che la moda è spesso vista come “fuga dalla realtà” e ogni volta che chi lavora nel settore cerca di rifarsi all’attualità viene accusato di oltrepassarne i confini. L’opinione diffusa è anche che la moda sia puro svago e frivolezza e non sia in grado di capire e gestire le conseguenze mediatiche di un servizio fotografico impegnato o della presa di posizione su un dibattito in corso.

Nell’ultimo mese diversi episodi hanno attirato l’attenzione sull’argomento. Alla settimana della moda di Pargi gli stilisti di Valentino, Maria Grazia Chiuri e Pierpaolo Piccioli, e lo stilista giapponese Junya Watanabe hanno fatto sfilare collezioni chiaramente ispirate all’Africa mentre nel mondo migliaia di migranti partivano dall’Africa e dal Medio Oriente per arrivare in Europa. Per marcare ulteriormente il messaggio, Watanabe ha organizzato la sua sfilata nel museo dell’immigrazione di Parigi. Gli stilisti hanno ricevuto critiche per non aver usato abbastanza modelle nere, e Chiuri e Piccioli sono stati accusati di aver semplificato eccessivamente la cultura africana, facendo sfilare le modelle con le treccine tra i capelli, come nei più diffusi stereotipi.

Nello stesso periodo, il fotografo ungherese Norbert Baksa ha utilizzato la crisi dei migranti nell’Europa orientale come contesto di un servizio fotografico di vestiti di lusso, facendo posare una modella dietro il filo spinato e durante un confronto con la polizia. In questo caso Baksa è stato accusato, soprattutto sui social network, di sfruttare una crisi globale e di rendere patinata una situazione grave. Il fotografo ha spiegato che il suo obiettivo era di far riflettere su quel che stava accadendo anche attraverso il suo lavoro.

Friedman si chiede quanto il mondo della moda possa permettersi di prendere posizione su temi cosiddetti impegnati:

«Quando si sforza di farlo, o quando qualsiasi cosa che la riguardi tocca materie politiche o sociali, sembra finire male, scatenando un’ondata di sdegno sui social network – a volte legittimo, a volte meno – che diventa di per sé una notizia. Ma qual è l’alternativa? Non esporsi affatto?»

Friedman racconta che in un’intervista per il Financial Times di qualche anno fa Franca Sozzani, direttrice di Vogue Italia, le spiegò la decisione di pubblicare sul numero di luglio del 2008 servizi fotografici con sole modelle nere dicendo che «La moda non riguarda i vestiti. Ma la vita. Non possiamo scrivere sempre di fiori, merletti e acquamarina». Quella di Sozzani era una risposta alle polemiche dell’anno prima, quando Bethann Hardison – ex modella afroamericana e fondatrice di Diversity Coalition, associazione che combatte le discriminazioni razziali nel mondo della moda – aveva accusato, in una conferenza stampa a New York, l’industria della moda di discriminare le minoranze.

Com’è facile immaginare, non è certo la prima volta che la moda si inserisce, in modo spesso provocatorio, su temi politici o sociali d’attualità. Nel 1993 Jean Paul Gaultier organizzò una sfilata ispirata agli ebrei chassidici, una setta ultra-ortodossa; nel 1996 Vogue America fotografò Kate Moss in vestito da sera tra le povere risaie del Vietnam; nel 1997 lo stilista turco Hussein Chalayan introdusse il chador nella sua collezione; nel 2000 sempre Galliano fece sfilare per Dior modelle che impersonavano i senzatetto.

Più recentemente, nel 2010 l’edizione americana di Vogue uscì con l’editoriale Water & Oil e il servizio del fotografo statunitense Steven Meisel ambientato in una spiaggia inquinata dal petrolio fuoriuscito nel disastro ambientale della Deepwater Horizon, nel Golfo del Messico (fu la più grande perdita di petrolio della storia degli Stati Uniti: si riversarono in mare circa 780 milioni di litri di petrolio). Nel 2014 sempre Steven Meisel realizzò per Vogue una copertina sul tema della violenza domestica.

Il backstage di Water & Oil a cura di Steven Meisel:

Alcuni esempi di moda impegnata:

Alcuni stilisti poi hanno sempre utilizzato il loro lavoro per far passare un messaggio sociale. Tra loro Vivienne Westwood, che il mese scorso durante la settimana della moda di Londra, ha sfilato insieme a modelle e modelli che reggevano cartelli contro i tagli alla spesa del governo Cameron, i cambiamenti climatici e il fracking, una tecnica usata per l’estrazione del gas naturale.

Friedman riassume chiedendosi se:

«È una risposta frivola a problemi seri, un’appropriazione culturale della peggior specie? O è il tentativo legittimo di un’industria di affrontare i problemi del mondo reale nell’ambito delle sue competenze? Probabilmente entrambe le cose, ma ogni volta c’è qualcuno che protesta. E ogni volta i vestiti hanno spostato più in là l’ago della comprensione».

Non bisogna dimenticare che la moda non è un mondo a parte: riflette la società in cui nasce e la modifica, sfidando le convenzioni per la sua natura trasgressiva. Riflettere sulle conseguenze dei suoi messaggi è ancora più importante nel mondo d’oggi, quando foto di modelle, sfilate e copertine vengono condivise e commentate sui social network da milioni di persone: le immagini decontestualizzate possono risultare offensive e venire fraintese ma allo stesso contribuire a far conoscere e parlare di un argomento. È normale, dice Friedman, che qualche stilista sia interessato soltanto all’aspetto provocatorio e a far parlare di sé, ma ce ne sono anche molti che vogliono realmente contribuire al dibattito e incidere sul mondo reale attraverso le loro opere.

«Senza assolvere stilisti, designer, fotografi e critici dalla colpevolezza delle loro scelte: tutti noi dobbiamo essere consci della nuova realtà globale in cui operiamo. Gli interessati devono essere considerati. Tutti devono rispondere dei loro sbagli. Ma uno dei vantaggi di una industria for-profit è proprio che può farlo».

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