• Libri
  • Giovedì 3 aprile 2014

Rompere i denti a un santo

Le indagini scientifiche per capire se le reliquie di San Luca a Padova sono davvero di San Luca, raccontate nel nuovo libro di Guido Barbujani

È uscito per Einaudi Lascia stare i santi. Una storia di reliquie e scienziati, di Guido Barbujani, genetista e scrittore. Il libro racconta la ricognizione delle reliquie di san Luca evangelista, conservate nella basilica di Santa Giustina a Padova, affidata nel 1999 dal vescovo di Padova a un gruppo di studiosi composto da storici, archeologi, biochimici, radiologi, per determinare se le reliquie fossero effettivamente quelle del santo. Barbujani, docente di genetica all’università di Ferrara, racconta dal suo punto di vista le attività di studio delle reliquie e il viaggio in Siria per ottenere campioni genetici da confrontare con quelli ottenuti dai denti di san Luca per verificarne la compatibilità con le presunte origini del santo.

***

Giuro che è tutto vero. Aleppo, lunedì 4 ottobre 1999. Siamo nel centro di analisi cliniche dove il giorno prima Fabio e io abbiamo trascorso una domenica diversa dal solito, ma stavolta ai piani alti, nello studio del direttore, che però è soprattutto un colonnello dell’esercito siriano. È quasi ora di cena, ma fa ancora caldo; tutti sudano; il rumore del traffico sale dalla finestra aperta e riempie le pause fra una frase e l’altra. E ce ne sono, di pause. La conversazione è priva di cordialità: il colonnello fa inutili domande in arabo a Pascal e mi fissa senza espressione mentre Pascal traduce in italiano e dò la mia risposta, che Pascal traduce in arabo. Come sempre quando le cose si fanno complicate, Fabio si guarda intorno con l’aria di uno che non c’entra, fra l’assente e il seccato. A un certo punto sembra che il colonnello si ricordi all’improvviso di una cosa: batte la mano sul tavolo, si alza e si dirige verso la porta. È un uomo corpulento sui cinquanta, in abiti borghesi di buon taglio, i capelli forse tinti pettinati all’indietro e tenuti in posizione da uno strato di brillantina. Pascal, nervoso, mi fa segno: è il momento, devo sbrigarmi a seguirlo.

Attraversiamo un paio di stanze fino a fermarci davanti a una porticina dipinta con lo stesso intonaco bianco del muro. Il colonnello fruga nella tasca dei pantaloni, tira fuori un mazzo di chiavi, apre e mi precede attraverso un corridoio in penombra. Lo occupa quasi per intero, ci saranno due centimetri fra i muri e le sue braccia che oscillano appena mentre cammina. In uno slargo illuminato da un neon c’è un ascensore di servizio. Il colonnello entra per primo, si assicura che la porta sia ben chiusa alle mie spalle, preme un pulsante e subito dopo, fra un piano e l’altro, il pulsante di stop. È molto serio; lo era anche prima, ma adesso di più. – Allora, sono quattrocentocinquanta dollari, – dice, rivelando una discreta pronuncia inglese. È difficile non guardarsi in faccia, nei pochi centimetri quadrati dell’abitacolo, ma lui ci riesce. Deglutisco. – Veramente, – rispondo, – eravamo d’accordo per tre dollari. Cento campioni per tre dollari l’uno, trecento dollari –. Silenzio. Adesso posso anche ammettere che sarà durato pochi secondi, ma allora mi sono sembrati tanti. Il colonnello non insiste: – Ah sì? Allora trecento –. C’è spazio appena per respirare e devo contorcermi per estrarre il denaro dalla sacchetta che porto al collo, sotto la camicia. Il colonnello intasca le banconote senza contarle, senza neanche guardarle. Fa ripartire l’ascensore, mentre andiamo si pizzica la pappagorgia.

Rientrati nel suo studio, la tensione si scioglie come per incanto: e professore di qua e professore di là, e risate, e offerte di sigarette. Il nostro ospite si rivela uomo di mondo, adesso in grado di sostenere agevolmente una conversazione in inglese, e Fabio mi interroga con lo sguardo, stupito (ma lo sono anch’io) per il repentino cambiamento di registro. Quindi partiamo per Palmira l’indomani? Ma bene, benissimo: posto magnifico; ma non dobbiamo perderci Doura Europos, un gioiello. Ah, non abbiamo tempo? Il colonnello scuote il capo, poi allarga le braccia, solidale: peccato, eh sì, ma il lavoro, si sa. Però allora dobbiamo per forza tornare un’altra volta, avvisarlo prima così ci pensa lui, e fermarci più a lungo: due, meglio ancora tre settimane! E l’albergo, l’abbiamo già prenotato l’albergo? Il colonnello consiglia vivamente l’hotel Zenobia, socchiudendo gli occhi a chissà quali piacevoli ricordi: se uno va a Palmira deve assolutamente («ab-so-lu-tely») dormire all’hotel Zenobia, a due passi dagli scavi, e intanto si gira a polemizzare con Pascal che, ormai superfluo nel ruolo di interprete, si agita per non restare escluso dalla conversazione. Poi, con un gesto d’imperio tipico del suo grado, addirittura tira su il telefono e in quattro e quattr’otto si fa passare lo Zenobia e ci prenota lui una stanza doppia per due notti. Ci si accomiata molto amichevolmente, con prolungate strette di mano e nuove promesse: per qualsiasi problema, e intanto mi circonda le spalle con il braccio, basta telefonargli. Però non ci dà il suo numero, e io non glielo chiedo.

Cosa non si fa per un evangelista.

Era lunedì sera. L’indomani alle otto una macchina ci avrebbe prelevato in albergo per condurci all’interno del paese: Krak des Chevaliers, Homs, Palmira, Apamea. Un viaggio entusiasmante, ma presumibilmente scomodo; abbiamo pensato bene di congedarci da Aleppo con una cena coi fiocchi. La guida Lonely Planet segnalava un ristorante nel quartiere armeno: Beit Sissi, la casa di Sissi. E di una vecchia casa si trattava, molto ben restaurata. Sono andato a controllare su internet e vedo che adesso lo descrivono (sempre che non sia andato distrutto nei bombardamenti della guerra civile) come un posto turistico, senza personalità. Sarà cambiato, o magari non sono tanto bravo a cogliere queste sfumature, o non lo ero allora. Non lo so. A me era piaciuto. Ricordo il senso di sollievo mentre ci si allontanava dall’affollamento dei viali, le piccole attività quotidiane nella pace delle strade strette in cui non passavano macchine, il battere di un martello dietro una porta socchiusa; alla fine, l’insegna poco luminosa del ristorante in un vicolo dai colori chiari illuminato dalla luna, e, all’interno, commovente, il gorgoglio dell’acqua della fontana, al centro del cortile. Intorno, ai quattro lati, si affacciavano tanti balconcini, su più piani come palchi dell’opera, ognuno col suo tavolo, e uno era per noi. Mentre aspettavamo di ordinare ci hanno offerto un’insalata con l’origano fresco. Non ne avevo mai mangiato, e sapevo che è meglio evitare la verdura cruda, in Siria. Ma era ottima, l’insalata, e fresca la birra; il posto sembrava pulitissimo, la temperatura era perfetta, il servizio cortese e rilassato: abbiamo dimenticato ogni precauzione. La fontana cinguettava mentre Fabio e io chiacchieravamo spensierati, pescando con la forchetta nel grande piatto ovale d’insalata, più io di lui. Questa differenza avrebbe determinato i nostri diversi destini nel corso della notte.

Quando, ormai rientrato da tempo in Italia, ho letto di alcune transazioni estero su estero servite a scopi criminosi, mi sono chiesto se anch’io ad Aleppo avessi commesso lo stesso reato. Non credo, ma non ne sono sicuro. Per difendermi da questo sospetto infamante, forse basta dire che in Siria c’ero andato su incarico del vescovo di Padova, Francesco Mattiazzo: praticamente in missione per conto di Dio, dunque, come John Belushi nei Blues Brothers. Per capire cosa sperasse di ottenere in quel modo la diocesi di Padova da un genetista e dal suo amico geografo bisogna però prenderla un po’ alla larga.

Lungo il basso corso del Brenta c’è la massima concentrazione mondiale di evangelisti: due su quattro, Luca a Padova e Marco a Venezia. Un momento, avrei dovuto usare il condizionale. Ci sono infatti pochi evangelisti, molte comunità desiderose di rivendicarne le spoglie, cioè i corpi santi della tradizione cristiana, e ne nascono comprensibili controversie. È stato detto che con i pezzi della vera croce sparsi per l’Europa si potrebbe costruire un piccolo naviglio. Qualcosa del genere vale anche per i corpi dei santi: mettendo insieme i resti attribuiti a ciascuno di loro ci si ritrova con parecchio materiale in eccesso.

La moltiplicazione dei santi tramite dispersione delle reliquie inizia nell’Alto Medioevo, e non sembra incidesse sulla capacità dei santi stessi di operare miracoli. Gente pragmatica, i fedeli avevano un metodo sicuro per valutare l’autenticità delle reliquie: se funzionavano, cioè se emanavano profumi fragranti, risanavano malati o sventavano naufragi, erano autentiche, se no, no; e spesso funzionavano. Ma Patrick Geary, che ne ha tratto un libro molto serio e molto divertente, spiega che il loro valore non si limitava a questo. Come ai giorni nostri le collezioni d’arte o le orchestre stabili, le reliquie erano un ottimo investimento, e per parecchi motivi. Prima di tutto contribuivano in maniera decisiva al prestigio della comunità a cui appartenevano, il che voleva dire affari e quindi soldi; poi attiravano pellegrini, cioè altri soldi. Inoltre, con Carlo Magno erano diventate obbligatorie per i giuramenti, prestati con la formula «Possano Dio e i santi, a cui queste reliquie appartengono, giudicarmi». Dunque i corpi santi erano entrati a far parte dell’ordinamento giuridico, costituivano un anello indispensabile della catena che teneva insieme la società feudale, oltre che una fonte di miracoli, di visibilità e in definitiva di reddito. Come se non bastasse, nel Basso Medioevo la curva demografica comincia a salire: le città si ripopolano, ne vengono fondate nuove, si costruiscono nuove cattedrali e conventi, e ogni cattedrale o convento reclama il suo corpo santo, o almeno un pezzetto. Da questi presupposti non poteva che nascere un vasto commercio; carovane attraversavano le Alpi e scendevano in Italia per riportare ai monasteri francesi e tedeschi, e al re d’Inghilterra che ne era appassionato collezionista, le preziose reliquie; a loro volta, mercanti italiani si rivolgevano a est, ai Balcani e al Medio Oriente. In un solo viaggio in Italia, nell’838, un chierico franco di nome Felice portò al monastero benedettino di Fulda, in Germania, le spoglie di undici santi: Agapito; Callisto, Cecilia; Colombana, Cornelio, Digna; Emerita, Eugenia, Giorgio, Massimo e Vincenzo. È ovvio che con i certificati d’autenticità non si andava troppo per il sottile; in sostanza, ci si doveva fidare: della serietà del mercante, o di documenti che, quando non disponibili, si potevano sempre fabbricare. Le difficoltà di comunicazione fra città e conventi e la limitata e lenta circolazione delle notizie rendevano tutto più agevole, perché consentivano di rivendere a più clienti un santo già venduto. Il risultato fu un vero boom delle reliquie, un incremento che, se il termine non fosse oggi usato a casaccio, si potrebbe correttamente definire esponenziale. È celebre la vicenda del prepuzio di Gesù Cristo, derivante dalla sua circoncisione: nel Medioevo in Europa se ne contavano diciotto, il più celebre dei quali a Calcata, in provincia di Viterbo (altri erano rivendicati da Santiago di Compostela, Chartres, Besançon, Hildesheim, Conques, Langres e Anversa); di uno era entrata in possesso santa Caterina da Siena, che lo portava all’anulare come segno di fidanzamento mistico col Cristo.