Il film della mia vita
È di una noia mortale, dice Riccardo Staglianò, che ha provato la videocamera che documenta ogni minuto del nostro tempo
Il giornalista Riccardo Staglianò ha testato per un giorno intero Narrative Clip – una piccolissima macchina fotografica, pesante 20 grammi, che si appende ai vestiti e scatta in automatico due fotografie al minuto – e ne ha scritto in un articolo su Repubblica che è a metà tra una recensione del prodotto e un commento alla crescente tendenza a conservare tracce digitali della nostra vita (il cosiddetto lifelogging, “inquietante o rassicurante, a seconda dei punti di vista”).
A proposito della sua, rivedendo le foto scattate durante la giornata, Staglianò scrive che “la schermata di Repubblica.it se la batte con Gmail nella classifica delle inquadrature”, e alla fine si chiede anche quali ripercussioni questo genere di prodotti potrebbe avere sulla privacy (che “già citarla ti attribuisce un’età, come dire “Sip” o fare ancora i conti in lire”).
Il film della mia vita è di una noia mortale. La parete della cucina. Il manubrio della bici. La solita strada, bianca come il sale. Il computer appoggiato su una pila di riviste ingiallite. La schermata di Repubblica. it se la batte con Gmail nella classifica delle inquadrature. Il tavolo di un ristorante, con un amico che si intravede. Poi di nuovo lo schermo, da ogni angolo possibile. Una cena a casa. La parete della cucina. L’indomani si riparte. Sognavo Indiana Jones, mi sono risvegliato in Ricomincio da capo. Il tutto documentato da un occhio inesorabile. Che si apre e si chiude automaticamente due volte al minuto. Millequattrocentoquaranta foto al giorno. Scattate, con bersagli casuali, da una macchinetta che pesa venti grammi, è più piccola di un pacchetto di cerini e si attacca ai vostri abiti con una clip piuttosto versatile. Promettendo una “memoria fotografica consultabile e condivisibile”. Benvenuti nel mondo di Narrative, ultima incarnazione del lifelogging, la tendenza (inquietante o rassicurante, a seconda dei punti di vista) di tenere costanti tracce digitali della propria esistenza.
A giudicare dal numero di nuovi modelli, si tratta di un fenomeno esplosivo. Un mese fa si è chiusa la campagna di finanziamento su Kickstarter di meMini, una telecamerina che registra in continuzione ciò che sta davanti ai vostri occhi. I neozelandesi che l’hanno concepita avevano chiesto alla rete 50mila dollari, ne hanno ottenuti il doppio e ora cominceranno a produrla. Nel presentarla puntano sul “dono del giudizio retrospettivo”, nel senso che quando succede qualcosa di notevole non hai che da pigiare su un tasto replay e la macchina lo salva, scartando tutto il resto. In questi giorni sono partite anche le consegne di Narrative, nata un anno fa sotto altro nome (Memoto) dall’idea di ingegneri svedesi passati anche loro attraverso la stessa trafila di crowdfunding. Per non dire di Autographer, Looxcie, le varie Muvi, GoPro e la capostipite Vicon Revue, originariamente concepita come un progetto di ricerca dei laboratori Microsoft che, da 100 a 300 euro, con sottili differenze, forniscono un servizio analogo: documentare in modalità automatica le vostre giornate. Suggerendo il medesimo, lancinante interrogativo: a che pro?
Gli scienziati sociali ci vedono un’inedita opportunità. Aiden Doherty, che studia la salute della popolazione a Oxford, ad esempio. Spiega che le “wearable cameras offrono un gran potenziale a quelli come me per capire meglio gli stili di vita delle persone e i contesti in cui si svolgono. Una conoscenza utile a suggerire politiche su come modificarli”. Insomma cavie volontarie di un grande esperimento tra epidemiologia e antropologia. Oltre a quelli per la collettività, vede però vantaggi anche per i singoli: “Studi clinici hanno dimostrato promettenti miglioramenti nella memoria autobiografica in pazienti con certe forme di demenza dopo aver ripassato visivamente la giornata”. Su un altro fronte Steve Mann, che insegna ingegneria elettronica all’università di Toronto, le considera strumenti di resistenza. Lui, che da una dozzina d’anni va in giro con un prototipo di fotocamera al collo e ha inventato un precursore dei Google Glass, ha anche coniato il termine “subveglianza”. Che, dalla folta letteratura che ci manda, significa l’opposto di sorveglianza, l’unica risposta possibile dal basso allo strapotere delle telecamere a circuito chiuso. Loro controllano noi, noi controlliamo loro. Per questo, se di leggi nuove abbiamo bisogno, devono “restringere le restrizioni agli occhiali digitali” o ad altri apparecchi simili, perché colmano la sproporzione tra l’autorità e i cittadini.
(continua a leggere su Repubblica.it)
Foto: una selezione degli scatti della giornata di Staglianò (da Repubblica)