Una riflessione per Matteo Renzi

Si precipitano a gettare sulle spalle di Matteo Renzi, del suo governo e del Pd il fardello del voto in Emilia Romagna e in Calabria. Per qualcuno, perfino “grande firma”, saremmo addirittura all’inizio della fine dell’epoca Renzi. Bizzarria che tradisce una grande fretta di liberarsi dell’anomalia che ci governa peraltro da appena nove mesi. Troppa fretta. C’è rischio di uscirne ciechi, com’è noto.

È evidente che la massiccia astensione è il dato macroscopico di questa tornata elettorale, già quasi invernale e particolare per i motivi giudiziari che l’hanno causata sia in Emilia Romagna che in Calabria (particolare da non trascurare nell’analisi del voto). Ma che cosa lascia sul campo, questa diserzione dalle urne? Il governo Renzi, davvero? Vediamo un po’.

Innanzi tutto, lascia sul campo due Regioni governate dal Pd, e in attesa del Veneto siamo al record di diciassette amministrazioni su diciannove, escludendo la Val d’Aosta. Mai stata così vicina all’en plein, la sinistra.
Poi lascia sul campo le macerie di ogni possibile alternativa al Pd e a Renzi. Precipita Cinquestelle, si estingue Forza Italia, quasi sparisce Sel, numeri imbarazzanti per Ncd e Fratelli d’Italia, l’unica forza che in Emilia Romagna si impone dietro Stefano Bonaccini è la Lega nord, che cannibalizza tutti i suoi alleati e risucchia un bel po’ di voti che M5S a sua volta le aveva tolto. Ovviamente è un dato interessante, e preoccupante, che conferma una leadership di Matteo Salvini sulla destra che avevamo già visto avanzare da tempo. Ma pur prendendolo molto sul serio, il risultato leghista segna anche il limite dell’opposizione di centrodestra: perché lì dentro crea più problemi di quanti ne risolva; e perché finora serie chances di espansione territoriale non se ne sono viste (oltre il Po la Lega era già sbarcata, anzi prima dell’avvento di Grillo era lei che agitava i sonni del partitone della sinistra emiliana).

Ecco, appunto, il Pd.
Se Renzi può dichiararsi vincitore, è però impossibile sostenere che il partito stia in salute, nella sua patria-regione. Si era dato due soglie da superare, sia pur di poco: il 50 per cento dei partecipanti al voto, il 50 per cento per Bonaccini presidente. Le ha mancate entrambe. Di quel milione di elettori emiliano-romagnoli rimasti a casa rispetto a un anno fa, la gran parte in effetti avevano votato Pd. Paradossalmente, ma neanche tanto, i dati clamorosi di questa domenica danno materia e tempo per ragionare e correggere. Perché non c’è alcuna pressione sul Pd, dopo questo voto. Emerge clamorosa l’assenza di ogni alternativa politica, elettorale, di governo. Renzi è addirittura più “solo al comando” di quanto fosse prima. Perfino coloro che sono delusi da lui (o dal Pd, o dai suoi candidati) preferiscono non votare piuttosto che votare qualcun altro.
Il record di astensionismo colpisce duro qui, e dovrebbero esserne storditi – più dei democratici – coloro che a destra, a sinistra, al centro, o magari dentro lo stesso Pd, sognano la rivincita sulle Europee: essa è più lontana e difficile dell’altroieri.

Proprio perché ha il tempo e lo spazio per farlo, però, il gruppo dirigente del Nazareno deve ragionare su ciò che sta accadendo. Nell’ultimo anno Renzi ha fermato l’ondata che stava abbattendosi sul sistema politico quando Grillo lambiva il 30 per cento. Ha lavorato per l’autoriforma della politica e delle istituzioni. Ha cercato misure forti per dare un segnale di sostegno a famiglie e imprese in difficoltà. Gode ancora di un consenso ampio. Ma tutto ciò non ha affatto invertito la tendenza alla sfiducia nel corpo malato della società italiana, fra i cittadini in carne e ossa. Al massimo, quelli che prima erano arrabbiati si stanno rassegnando alla passività. E può perfino essere peggio.

È importante, anzi vitale, che il Pd rimanga in piedi, vivo e forte, in questo campo di macerie. È l’unico riferimento possibile. Ma non sarà a lungo così, se la democrazia continuerà a svuotarsi di credibilità, partecipazione, fiducia.
E allora Renzi deve porsi due domande, per poi magari se crede rispondere con un’alzata di spalle.
Certo, sulla strada delle riforme bisogna correre anche più di prima, con più determinazione, senza paura del conflitto. Ma non sarà che questa corsa sembra troppo spesso la corsa di uno solo, o al massimo del suo gruppo, e non la corsa di una grande collettività di persone? Di una intera generazione? Di una società finora esclusa? Stiamo dentro questo rivolgimento tanto atteso da protagonisti, o da spettatori tifosi? Stiamo mollando l’idea peraltro ingannevole del partito di massa, il partito delle tessere, ma non abbiamo bisogno di sostituirla con altri momenti di coinvolgimento, perché se non tutti almeno in tanti avvertano di far parte del cambiamento, di contribuire a definirlo e a farlo vincere?

C’è il tema di dare un po’ di nutrimento alla democrazia, ora che i vecchi partiti e i vecchi sindacati sono arrivati al capolinea. E c’è il tema del clima del paese. La piazza, la protesta, questi sono fenomeni in queste settimane largamente sovradimensionati dai media, che in assenza di conflitto nel Palazzo hanno bisogno di raccontarne uno di strada, enfatizzando ciò che c’è e puntando su figure che si prestano, anche per giusto calcolo, come Maurizio Landini. Nessuno però può negare che, in attesa di segnali di inversione nella condizione materiale delle persone, l’ansia cominci a pesare sul sentimento collettivo. Questa ansia, Renzi la scioglie con i propri messaggi, o la acuisce? Fretta, energia, veemenza, impeto nell’attacco: sono tutti fattori decisivi e indispensabili nella politica renziana. Indispensabili tanto più nel paese delle melme e dei rinvii. Ma chi fa la parte della rassicurazione? E quando gli italiani saranno autorizzati a pensare che la politica non è solo il luogo dello rissa e della divisione, dopo vent’anni di contrapposizione sterile, e quindi è tale da potersi di nuovo avvicinare, con la partecipazione e con il voto?

Del clima del paese Renzi non è certo l’unico responsabile, neanche il principale. Contro di lui, da quando s’è capito che è arrivato a palazzo Chigi per rimanere, e per fare, è cresciuta una campagna di delegittimazione personale, politica e recentemente perfino morale, con gli strumenti già conosciuti e praticati. Ma a chi veleggia su questi umori non abbiamo niente da chiedere. Vanno solo battuti, e oggi lasciati a contemplare il nulla politico che anche le elezioni regionali consegnano loro. Invece a Matteo Renzi si può e si deve chiedere. Che faccia ciò che può, che faccia di più, per rendere evidente che la sua avventura è l’avventura di una Nazione, non solo di un pezzo di essa. Poi gli italiani voteranno a favore, o contro, o rimarranno a casa (che resta sempre una scelta legittima). L’importante è che non scompaiano nel nulla, nell’indistinto, nell’abulia.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.