Lunga vita alla letteratura

La letteratura è un malato terminale che attende l’inevitabile pensando a quello che è stato, agli anni d’oro di inizio novecento e ai suoi figli che l’hanno esaltato e messo al centro della vita di tutti i giorni. I “medici” dicono che è questione di tempo. Non sanno essere precisi. Cinque o cinquant’anni. Sono certi solo sul decesso. È fisiologico. Arriverà.

I figli della letteratura si chiamano scrittori e sono ovunque nel mondo. Milioni di creativi, con cassetti pieni di romanzi, la testa tra le nuvole, bloc notes nelle tasche, computer zeppi di file punto doc da ordinare. Molti di loro vivono ai margini della società. Finanziano la scrittura lavorando in ristoranti, bar, negozi di scarpe, call center. Altri, più fortunati o più bravi, chi può dirlo?, scrivono per la televisione, riviste o giornali. Altri ancora, i più anziani, vivono dei libri che hanno dato alla luce quando lei, la letteratura, era ancora in salute. Ovviamente sono pochi e in via d’estinzione.

Io sono uno dei figli. Sono disoccupato e l’unica cosa che penso di saper fare è scrivere. Ma i romanzi o i racconti a cui sto lavorando probabilmente non interesseranno a nessuno.
La letteratura è prossima alla morte.
Tranne pochi pazzi, non legge più nessuno.

Patetico, banale e contraddittorio – dice il mio amico William – l’hai scritto poche settimane fa, proprio qui, che le librerie erano colme di persone. Vero, William – dico io, mentre indosso un lungo mantello nero, mi siedo sulla poltrona di fronte la finestra e accendo una pipa – Ma quel momento stonava con i dati catastrofici dell’editoria. E con quanto ho visto nei giorni a seguire. Dalla finestra il sole scompare dietro montagne dalle punte aguzze. Quel che rimane di questa domenica autunnale è un chiaro odore di pioggia.
La pipa mi fa tossire.

Senza tirarla per le lunghe, gli ultimi dati Nielsen dicono che la gente ha smesso di leggere e che gli editori, di conseguenza, hanno aumentato la produzione di libri. Non è uno scherzo. In Italia solo il 43 per cento della popolazione legge almeno un libro all’anno e contemporaneamente vengono pubblicati circa 60 mila titoli, cioè 7 all’ora. È come se un pazzo si mettesse a costruire barche a vela sulle Alpi e tentasse di venderle agli svizzeri.

Ma gli editori non sono pazzi. La loro strategia è semplice, prevedibile ma anche spavalda: ricerca del maggior numero di lettori possibile e soprattutto del best seller da migliaia di copie che possa, da solo, ripagare anche tutti gli altri libri invenduti. Il concetto di fondo è: lanciamo nella mischia 50 libri, di questi, ce ne sarà uno che ci farà vendere abbastanza per pagare le spese e portare guadagno. O no?

Non è importante la risposta, ma le conseguenze di tale strategia: aumento spasmodico dei libri che durano pochi giorni prima di finire nel dimenticatoio e lettori occasionali spaesati che optano per altri generi di intrattenimento.

Un editor di un’importante casa editrice italiana, tempo fa, chiacchierando a proposito, mi disse che mai come oggi era così facile pubblicare. Il problema, semmai, era il dopo, anche perché, aggiunse, nessuno legge più. E siamo arrivati al senso di questo post. Che non riguarda gli editori ma l’altra faccia della medaglia: i lettori. La domanda è: la letteratura può essere salvata da una morte che appare certa?

Sono tornato in libreria nei giorni successivi quella domenica in cui, con mia grande sorpresa, l’avevo vista piena. La libreria era vuota. Poche anime vaganti. Ho scambiato due chiacchiere con i commessi, ho chiesto loro della narrativa. Mi hanno risposto che la gente compra per lo più gialli, saggi, libri per bambini e che il reparto narrativa, soprattutto quello organizzato in ordine alfabetico vende pochissimo. Poi ho letto un’intervista a Martina Testa (editor storico di Minimum Fax) in cui diceva, tra le altre cose che «abbiamo perso i lettori che vanno dai 17 ai 25 anni. Perché un ragazzo dovrebbe leggere narrativa quando può giocare a giochi come “The Last of Us”?», oppure vedere serie tv come Breaking Bad o True Detective?

Giorni fa ho preso un aereo. Mi sono allacciato la cintura e mi sono messo a leggere. Il mio vicino di posto, un ragazzo sui 20 anni, mi ha dato del lei e sono fortemente convinto che lo abbia fatto perché ha visto il libro con me. Conosco persone che solo cinque anni fa, prima di andare a dormire, per esempio, erano abituate a leggere due pagine di un libro, ora preferiscono fare zapping su Facebook o esplorare le centinaia di fantastiche app dei loro Iphone.
Il mio vicino di posto in aereo ha passato il volo a guardare fisso nel vuoto, inquieto e annoiato. Ho pensato che alla lettura avesse preferito stare in quel modo.

Non sto dividendo il mondo in due categorie. Chi legge è figo chi non legge è uno sfigato. Ascoltate:

La gente mi dice: «Sei uno dei pochi che finanzia ancora le librerie».
Oppure: «Stai scrivendo un libro?» Io rispondo di sì e loro si burlano di me. Mi sento come un soldato che va a fare la guerra con arco e frecce mentre intorno a lui tutti gli altri sono armati con fucili di precisione e bombe a mano.

– «In tempi di crisi – dice William – serve genio e follia».
– «Steve Jobs»
– «Il buon vecchio Steve. C’è un articolo – continua William – che spiega perché Steve Jobs indossava sempre gli stessi vestiti».
– «Cioè?»
– «Maglione a girocollo su un paio di jeans».

Di seguito due idee folli o geniali che sarà il tempo a definire:

1 – Amazon ha dato via a unlimited. Con un abbonamento mensile scarichi tutti gli ebook che vuoi sul tuo Kindle. Ma il giorno in cui disdici l’abbonamento, gli ebook scompaiono come per magia.

2 – Il critico Harold Bloom, un personaggio niente male, sostiene che il destino della letteratura e delle facoltà di letteratura è quello delle facoltà di greco e latino. Esisteranno ma saranno per pochi e non porteranno a nulla se non a una inutile cultura.

L’articolo che spiega la storia dei vestiti di Steve Jobs si può leggere qui.

Tutta questa situazione mette addosso una grande tristezza. Forse la letteratura, per posticipare la fine, sarà soggetta a una cura dimagrante. Romanzi non più lunghi di 40-50 pagine (non racconti, quelli sono un’altra cosa). Prezzi ridotti. Maggior selezione delle opere da pubblicare. Prodotto rivolto a quel 4 per cento di lettori forti. Sono ipotesi.

La letteratura comunque è spacciata. Perché le nuove generazioni esaudiscono il bisogno primordiale di storie che ha l’uomo alimentandosi di altro. Le vecchie generazioni sono destinate ad essere sovvertite. È la storia che lo insegna, processo inevitabile. I libri di narrativa saranno un prodotto ancora più di nicchia. Fornire una visione di una parte di mondo attraverso un’opera di letteratura sarà cosa per pochi.

– «Sembri Nostradamus», dice William.
Avvolgo il mantello nero attorno alle spalle e penso che ci sono a disposizione, oggi, dozzine di strumenti tecnologici diversi per narrare una storia e non oso immaginare a quanti ce ne saranno tra 50 anni. Poi a William dico di stare zitto, perché in fondo, non è altro che il frutto della mia immaginazione. E lui scompare.

La lettura di un libro è un atto di solitudine in una società che vede la solitudine come un male da cui stare alla larga o come un bisogno esistenziale di un essere umano a cui somministrare farmaci e strizza-cervelli. Leggere è impegnarsi e penso che da questo non si sfugga.

Considerate le premesse chiedo: siamo davvero pronti per fare a meno della letteratura, archiviarla in storia della letteratura e proiettarci su altre forme di narrazione? Oppure rischiamo di essere presuntuosi?

Non so voi ma io ho bisogno di un Coetzee che ti viene a dire che possiamo passare la nostra intera vita ad aspettare e temere l’arrivo dei barbari e che quei barbari non arriveranno mai perché sono già in mezzo a noi, anzi sono noi; ho bisogno di un Foster Wallace che ti mostra le ipocrisie e le contraddizioni della società di consumo attraverso un reportage su una nave da crociera; di un Gabriel Garcia Marquez che ti fa vedere che sotto l’oceano c’è una città che odora di rose rosse o ha una frase così: “Nella furia del suo tormento cercava inutilmente di provocare i presagi che avevano guidato la sua gioventù lungo sentieri di pericolo fino al desolato ermo della gloria”; ho bisogno di seguire un Céline tra i vicoli di Parigi e di chiedermi dove stai andando?; di un Camus che mi mostra come quello straniero che al funerale di sua madre si è acceso la sigaretta, non è diverso di me; di altri incipit come questo: “Qualcuno doveva aver diffamato Josef K. perché, senza che avesse fatto nulla di male, una mattina venne arrestato”.

Siamo pronti a lasciar morire la letteratura oppure no? E se qualcuno di voi non si è mai posto la domanda o non apre un libro da anni, allora io gli chiedo come fai?

E, badate bene, non lo faccio perché mi ritengo migliore, perché ritengo migliore chi legge, sarei uno stupido a pensare così, lo chiedo perché lo invidio. Come fa a bastarti tutto il resto che non è letteratura, che non è domanda, che non è esistenza?

E poi, è una problematica solo italiana il prezzo che continuiamo a pagare per una cultura dove avere è più importante di essere, oppure è un discorso che può essere esteso a livello globale?

Dico: – lunga vita alla letteratura. Continuando a leggere e scrivere fino al giorno in cui tutto diventerà solo storia.

– Francesco Aquino –

Host

Nata nel 1994 a Torino la Scuola Holden è una scuola di Scrittura e Storytelling dove si insegna a produrre oggetti di narrazione per il cinema, il teatro, il fumetto, il web e tutti i campi in cui si può sviluppare la narrazione. Tra i fondatori della scuola Alessandro Baricco, attuale preside.