Lettera a Matteo Salvini, dal futuro

Non starò ad annoiarti su come ci sono riuscito o i materiali e i processi utilizzati, Matteo: sono sicuro che non ti interessi a queste cose, ma fidati di me, ci sono riuscito. Fidati di me e delle mie parole, come io mi fido delle tue.
Voglio solo dirti che non è stato facile, che mi sono veramente fatto un culo pazzesco. Ho lavorato tanto. Sono sicuro che questa fatica, questo lavorare, tu che sei di tradizione e convinzione padana, lo apprezzerai.

Insomma, alla fine ci sono riuscito.
Ho costruito la macchina del tempo.

Voglio essere sincero con te, Matteo, avevo paura ad usarla. Ho pensato anche di farla testare alla badante rumena che assiste mia mamma, ma poi (e tu mi capirai anche in questo) non mi sono fidato al cento per cento. Se qualcuno doveva provare la macchina del tempo, se volevo essere sicuro di avere un resoconto attento e scientificamente ineccepibile, doveva essere un italiano a farlo. Sono sicuro che mi capisci. Anche in questo, Matteo.

Ho fatto qualche telefonata. La maggior parte delle persone che conosco sono disoccupate e quindi pensavo che avrei trovato facilmente un volontario da spedire nel futuro e ritorno. Certo, la questione del ritorno non era del tutto sicura, però insomma, ho fatto delle offerte. Qualche centinaio di euro, in nero: ma nessuno ha accettato.
Così, ricordo, mi sono fatto un caffè, ho mangiato delle macine del Mulino Bianco e poi mi sono deciso. Lo avrei fatto io.

Se sono qui, adesso, a scriverti, Matteo, è perché tutto è andato molto bene. La macchina del tempo ha funzionato e sono anche riuscito a tornare indietro. Mia moglie non si è praticamente accorta di niente. Un attimo prima ero lì e un attimo dopo ero tornato. Nel nostro tempo tutto è avvenuto in un attimo, ma nel futuro mi sono fatto quasi una settimana.

E nel futuro, Matteo, ed è per questo che ti scrivo ora, ti ho cercato.
E ti ho trovato.
Come te la passavi?
Non ti piacerà.

Eri barricato – anziano, malaticcio e fragile – in un appartamentino al pianoterra di uno stabile di Borgosesia. Non eri solo, c’era anche un tuo collega, un certo Buonanno, che tra evidenti segni di demenza senile, blaterava di essere stato addirittura sindaco di quel paese. Borgosesia. Sul momento, sono sincero, Matteo, non gli ho creduto, ma una volta tornato a casa ho visto che sì, quel vecchietto rincoglionito aveva detto il vero. Era stato davvero sindaco di Borgosesia. Cioè oggi. Adesso, tornando, ho visto che ha recintato il paese con del filo spinato e messo dei recinti elettrificati per non far passare gli immigrati.
Ottima idea Matteo, neppure a me piacciono i negri e soprattutto i poveri. Però devo dirtelo: non ha funzionato.

Voglio dire, quando vi ho trovati, nella Borgosesia del futuro, eravate entrambi rintanati in casa. Spaventati e soli. Arrabbiatissimi, devo dirlo, uguale a ora. Ma con quella rabbia di chi è stato sconfitto e si consola e si consuma nel revocare bei tempi mai esistiti e brontolare di quanto il mondo sia andato in malora.
Perché a Borgosesia, nel futuro, più della metà della popolazione era costituita da immigrati, figli di immigrati, nipoti di immigrati. Ecco, lo so che ci resterai male, Matteo, ma è andata così.

Ci avete provato ma non ci siete riusciti.

Hai presente gli etruschi? Erano forti e estremamente convinti del loro essere etruschi, eppure… Aspetta… gli antichi romani: quanto erano convinti gli antichi romani di essere la società finale, il popolo finale, vincente, dominatore, con le loro case abbellite di schiavi asserviti?

Gli egizi! Sai, Matteo, che la civiltà egizia è rimasta praticamente immutata per duemila anni? Pensaci, duemila anni. Il loro sistema funzionava così bene, per loro, pur con tutte le implicazioni dell’avere come capo un faraone dio in terra e un sacco di schiavi, che per duemila anni non hanno cambiato niente. Pensa quanto sono stati convinti gli antichi egizi, di essere la società finale e definitiva.

Bene, converrai con me che adesso l’Egitto è una merda. Primo: è pieno di egiziani. Secondo, c’è solo sabbia del cazzo e pietroni ammucchiati. Insomma, bella fine del cazzo che hanno fatto gli egizi. Non so neanche se esiste una nazionale di calcio egiziana, e se esiste, sicuramente sono delle schiappe.
Ecco, nel futuro, tu e Buonanno eravate come gli ultimi egizi. Vecchi e soli. Intorno a voi c’era un mondo che non riconoscevate più e che vi faceva una gran paura.

Aspetta, ti racconto questa: a un certo punto Buonanno si è alzato, inveiva contro tutti questi immigrati che passavano per strada, si è messo a sbirciare da una finestra mezza chiusa, attraverso le tapparelle e poi gli è preso un moto d’ira irrefrenabile, ha cominciato a gridare “ora ci penso io!“, “ora gliene dico quattro!” e si è diretto di corsa verso la porta, indossando una mimetica, ringhiando di rabbia e agitando un bastone.
O meglio, questo probabilmente è avvenuto nella sua immaginazione: nella realtà ci sono stati alcuni minuti in cui questo pover’uomo, farfugliando frasi sconnesse e borbottando, si è trascinato per i pochi metri che lo separavano dalla porta d’ingresso, spingendo un deambulatore con una zampa storta, alla quale qualcuno aveva cercato di porre rimedio con una sbarra di ferro e un po’ di nastro adesivo. La mimetica era una coperta di lana a quadroni.

Fuori, il mondo, Matteo, era cambiato davvero. E ti dirò, un po’ avevate ragione ad avere tanta paura, perché parlando in giro con le persone, con i figli di quegli immigrati che avete cercato in tutti i modi di respingere, ho sentito tanta rabbia e tanto risentimento. Forse, così a occhio, se foste stati meno cattivi, o semplicemente più lungimiranti, avreste dovuto provare a trattare queste persone con maggiore umanità, perché vedi, nel futuro, dal quale sono appena tornato, Borgosesia è veramente piena di questi negri e figli di negri e tanti, ma ti dico, proprio tanti di loro, sono incazzati neri.

La cosa che mi ha fatto un po’ paura e un po’ incazzare, Matteo, e che mi ha spinto a scriverti ora, raccontandoti in breve di questo mio piccolo viaggio nel tempo, è che ce l’avevano pure con me che sono distante milioni di anni luce dalle cose che dite tu e Buonanno. Con me. Però cazzo, dico, come facevo a dargli torto? Molti di loro avevano perduto amici o parenti, nel viaggio per arrivare qui. Morivano di fame o di guerra nei posti dai quali sono partiti, lo capisci, vero? Ecco, e quando sono arrivati qui hanno trovato odio e filo spinato. Gli è presa male. Io li capisco.

Però, sai Matteo, il loro venire era inevitabile, perché il mondo cambia, e cambiano i popoli. Hai presente gli egizi?

Se così non fosse, (questo non ti piacerà) adesso saresti un negro discendente dei primi negri, lo capisci? Invece a Borgosesia, nel futuro, c’erano tante persone di diversi colori, figli di uomini venuti dall’Africa e dal Medio Oriente e di donne italiane e viceversa. E, intendiamoci, c’erano un sacco di giovani italiani e giovani figli e nipoti di immigrati che erano amici e stavano benone insieme. L’unico problema è che proprio ce l’avevano a morte con questi vecchi che nel passato si erano mostrati tanto ostili e duri.

Ecco, tu eri lì Matteo. Chiuso in quel cazzo di appartamentino al buio dove mi sono trovato, col tuo collega incattivito, claudicante e debole. Una scena triste. Per fortuna, verso le 17, hanno suonato alla porta. Era una ragazza figlia di immigrati siriani. Lei, vedi Matteo, tutti i pomeriggi passa da casa tua per farti assistenza. Ha un bel sorriso anche se, secondo me, le state parecchio sui coglioni. Quando gliel’ho chiesto, però, quando le ho chiesto se davvero le stavate sui coglioni, lei ha detto: “ma no, son due vecchietti, mi fanno pena”. Ha sorriso e vi ha preparato un brodino.

Quando la rivedrai, Matteo, trattala bene. è una brava persona e si prende cura di te con tanta gentilezza. È lei che ha messo il nastro adesivo al deambulatore. Quando la vedrai (e la vedrai, te lo garantisco) portale i miei saluti.

Gipi Pacinotti

Disegnatore e regista, collabora con la Repubblica e Internazionale. Con il suo graphic novel Appunti per una storia di guerra ha vinto il premio Goscinny al festival del fumetto di Angoulême. Il suo primo film si chiama L'Ultimo terrestre.