In difesa dell’astensione

Io non sono un grande astensionista, ho votato quasi sempre, e voterò anche a queste elezioni; però ho sempre trovato fastidioso l’atteggiamento assiomatico con il quale, a ogni elezione, c’è chi fa proclami – spesso aggressivi, quasi insultanti – contro le persone che decidono di astenersi. Colpisce la mancanza di argomenti di chi sostiene la necessità di votare sempre: chi argomenta qualcosa di diverso non riceve una risposta alle proprie posizioni, ma la reiterazione dell’assioma iniziale (e così mi aspetto che le obiezioni a questo post conterranno argomenti a cui viene risposto già nel testo: scommettiamo?), segno che “bisogna votare sempre” è solamente una massima insegnataci da bambini.

Certamente ci sono persone che si astengono per ragioni irrazionali, come preservare la propria coscienza: votare è uno strumento, non ci si “sporca” a votare un partito che non veicoli precisamente le nostre idee. Ma anche le ragioni di chi sostiene che bisogni votare sempre appaiono altrettanto irrazionali.

Chi vota senza sapere
Non c’è dubbio che astenendosi si delega agli altri elettori. Questa, in alcuni casi, è una scelta sensata: per persone che non seguono la politica, non conoscono gli schieramenti e i programmi, i candidati e le idee in campo, quella dell’astensione è semplicemente una scelta di onestà. Possiamo decidere che sbaglino a non sapere cosa succede nel loro Paese, ma dal momento che le cose stanno così perché dovrebbero esprimere un voto – che vale quanto quello delle persone più consapevoli e informate – su un argomento di cui non hanno alcuna competenza? Fa ridere, poi, che a criticare gli astensionisti siano spesso le stesse persone che si lamentano dell’ignoranza degli elettori di altri partiti (se l’unica cosa che sai dire è “i politici rubano tutti” forse è meglio non votare, no?).

Chi vota per convenienza
Ci sono poi due grandi categorie di persone che votano con una certa consapevolezza: chi vota per convenienza e chi vota per ideologia, e infinite commistioni delle due cose. I primi votano un partito perché pensano che le istanze portate avanti siano più convenienti per loro: meno tasse, più difesa di una certa categoria, più diritti a questa o quella minoranza. Il colmo è che votare non è un’operazione conveniente (è un paradosso abbastanza noto): qualunque sia lo sforzo profuso, in termini di convenienza non ne vale la pena. Non parlo di fare campagna elettorale o allestire banchetti, ma anche il solo prendere la macchina o perdere mezzora del proprio tempo ha meno efficacia, “costa di più”, dell’importanza che ha il proprio minuscolo voto su diverse decine di milioni nell’avanzare questa o quella politica.

Chi vota per ideologia
Ideologia, qui, non ha alcun senso spregiativo. Tutti abbiamo le nostre idee e pensiamo che siano le migliori (altrimenti ne avremmo delle altre). Tuttavia, anche chi vota per ideologia dovrebbe tenere presente l’irrilevanza che l’operazione ha a livello macroscopico: verosimilmente, nel corso della nostra vita, il nostro voto non deciderà mai, neppure una volta, un’elezione. In realtà uno dei motivi per i quali io vado a votare è, candidamente, narcisista: mi piace seguire le elezioni, mi piacerebbe vedere dei dibattiti (fatti davvero), mi piace il giorno delle elezioni, mi piace andare nel seggio e sorridere allo scrutatore, mi piace la suspense delle ore successive, mi piace seguire i risultati, mi piace sentirmi importante.

Ma se tutti facessero così
L’argomento “se tutti facessero così” è, come sappiamo, logicamente instabile (se tutti facessero il medico, moriremmo di fame: è immorale fare il medico?): le scelte che facciamo sono ragionate e articolate sui dati di realtà, se cambiano questi dati, cambiano anche le scelte. È chiaro che se tanti facessero così, le cose cambierebbero: al diminuire dei votanti aumenta l’importanza del proprio voto. In realtà, poi, pochi fanno così: l’Italia è un delle democrazie con l’affluenza elettorale più alta (in alcuni posti è metà della nostra), e non diremmo che questo ci renda un Paese più civile.

Votare è un messaggio positivo
Nella storia italiana le elezioni dove l’affluenza è salita sono state quelle dove la campagna elettorale è stata peggiore, dove c’è stato più scontro e si è alimentata la paura dell’avversario. Del resto è chiaro che più ci si sente in emergenza, in pericolo, più si è portati a votare: non è un caso che, nelle grandi democrazie occidentali – dove si vive relativamente bene, le istituzioni sono forti, e un cambio di maggioranza non è una questione di vita o di morte – l’affluenza sia costantemente calata negli ultimi quarant’anni. L’argomento per il voto come necessità è quindi opinabile, l’importanza che ciascuno di noi dà al proprio singolo voto è una questione culturale, che ci è stata insegnata e che abbiamo recepito senza domandarcene il perché. Magari pensiamo che una società che insegna questa bugia sia una società migliore, ma certamente non corrisponde alla realtà.

Il meno peggio
Anche trascurando le considerazioni precedenti e volendo assumere l’importanza del proprio voto rispetto ai grandi numeri, l’argomento di chi sostiene la necessità del voto sempre e comunque è tortuoso. L’argomento è molto simile a quello sul voto utile: bisogna votare il meno peggio, perché c’è sempre una scelta migliore fra due opzioni e quello che conta è l’influenza che il proprio voto ha. Questa considerazione sottovaluta proprio la nulla influenza sulla politica che si ha votando così. Non c’è dubbio che chi vota per, letteralmente, “partito preso” non influenzerà mai le decisioni del partito in questione: se lo voto qualunque cosa faccia, un partito potrà spostarsi trascurando completamente le mie idee (quelle che motivavano il mio voto).

Il quadro politico è uno spazio geometrico nel quale votiamo il partito che ci è meno lontano. Un grado di compromesso è necessario e ragionevole. Tuttavia, in una situazione nel quale il partito meno lontano è molto più vicino agli altri partiti che alle nostre posizioni, votarlo è illogico: ciò che rende quel partito migliore degli altri ci interessa molto meno di quello che lo rende diverso da noi (e più simile agli altri partiti). Se io penso 2 e i partiti che posso votare esprimono 7, 8 e 9, non ha senso votare 7, perché con il mio voto esprimerò la volontà del 7. Astenersi significa manifestare la necessità che quel partito si sposti verso il 2 o che un altro partito (anche uno nuovo) ne raccolga le istanze.

È una banale questione di teoria dei giochi, se c’è un ente che vincola una ricompensa alla soddisfazione di un requisito e uno che garantisce la ricompensa indipendentemente, l’attore in questione seguirà i requisiti – vincolanti – del primo per ottenere due ricompense anziché una. Del resto tutti noi, anche i più ultrà del voto a tutti i costi, abbiamo una soglia di accettabilità oltre la quale ci asterremmo: se tutti i partiti sostenessero la schiavitù per i neri, ne voteremmo comunque uno sulla base di quanto taglia l’Irap?

Quindi
Certo: le circostanze in cui i partiti sono così lontani da noi da rendere le loro differenze insignificanti sono rare. Nella maggior parte dei casi c’è un meno peggio che vale la pena votare. Ma questa è una considerazione personale e politica, non strutturale. Perciò se vi imbarcate nel lodevole impegno di cercare di convincere qualcuno a votare, evitate di dire la sciocchezza che “bisogna votare sempre” o che “astenersi è sempre una scelta idiota”.

(In difesa dell’astensionismo, di Luca Sofri, 2008)

Giovanni Fontana

Dopo aver fatto 100 cose diverse, ha creato e gestisce Second Tree, ONG che opera nei campi profughi in Grecia. La centounesima è sempre quella buona. Il suo blog è Distanti saluti. Twitta, anche.