Su cosa ha mentito la Freedom Flotilla

Qualunque generalizzazione sull’identità dei componenti della Freedom Flotilla II è destinata a fallire: sono tanti e troppo diversi per racchiudere tutti sotto a una matrice: da giornalisti che lottano da tempo per i diritti dei palestinesi a personaggi chiaramente legati ad Hamas. Questo, anche, permette agli uni e agli altri di descrivere alternativamente come “pacifisti” o “estremisti” – quando non peggio – l’equipaggio della nave. È un gioco di propaganda che si ripete ogni volta che ci sono di mezzo Israele e Palestina, assieme alle squadre dei rispettivi ultrà.

C’è però un tipo di sintesi che si può fare, quella sugli intenti, ed è una questione su cui i membri della Flotilla hanno mentito. La Freedom Flotilla – al contrario di quello che dicono gli stessi attivisti, e di quello che riportano molti media – non è “un’iniziativa umanitaria”. Le tonnellate di aiuti umanitarî di cui sono cariche le dieci navi della Flotilla sono evidentemente un pretesto. Questo è molto facile da verificare: il governo israeliano ha, fin da subito, offerto agli attivisti la possibilità di attraccare a Ashdod – un porto israeliano una trentina di chilometri a nord della Striscia – dove scaricare gli aiuti per fare sì che questi fossero inviati a Gaza.

Un dato è perciò certo: se l’obiettivo della missione fosse stato la consegna di quegli aiuti, la risposta sarebbe stata affermativa fin da subito. Invece l’obiettivo era quello di violare il blocco militare delle acque di Gaza e per questo la Flotilla ha rifiutato l’offerta e ha provato a partire, prima di essere bloccata dalla guardia costiera greca. È probabile che, alla fine, la gran parte dei componenti della missione accetterà un compromesso simile a quello offerto dagli israeliani (i greci hanno proposto di farsi carico, assieme alle Nazioni Unite, del trasporto degli aiuti), contornato da qualche azione simbolica. Non c’è dubbio, però, che se non fosse stato per la decisione del governo greco di bloccare la prima nave della spedizione, e con essa le altre, ora saremmo a poche ore da un nuovo scontro – con chissà quali conseguenze.

C’era un modo per fare sì che quegli aiuti umanitarî arrivassero il più velocemente possibile a Gaza, e ce n’era uno che avrebbe chiaramente messo a repentaglio la possibilità che questi aiuti raggiungessero la popolazione di Gaza: la Flotilla ha scelto la seconda.

Naturalmente la scelta di preferire il tentativo di forzare il blocco rispetto alla consegna degli aiuti è del tutto legittima. È un’azione politica, per certi versi dimostrativa e per certi versi concreta. Ed è possibile che sul lungo raggio avrebbe prodotto più benefici che la consegna di quegli aiuti – io non lo credo, soprattutto per le esigue possibilità di riuscita, ma posso sbagliare e questa comunque è un’altra discussione.

La battaglia per la fine dell’occupazione a Gaza, e nel resto della Palestina, è una battaglia giusta. Ci sono molte vie per combatterla pacificamente, e le azioni simboliche sono probabilmente una di queste. Non bisogna, però, giocare sporco: caricare di aiuti umanitarî una spedizione che non ha quell’obiettivo è cercare, in maniera disonesta, di far passare mediaticamente un messaggio posticcio. Di quelli che inquinano il polarizzato dibattito su Israele e Palestina.

Il governo israeliano dice spesso che, dal ritiro del 2005, Gaza non sia sotto occupazione: è la stessa cosa, non è vero. Ma non si combatte l’ipocrisia con altra ipocrisia.

Giovanni Fontana

Dopo aver fatto 100 cose diverse, ha creato e gestisce Second Tree, ONG che opera nei campi profughi in Grecia. La centounesima è sempre quella buona. Il suo blog è Distanti saluti. Twitta, anche.