L’ineluttabilità del plagio?

Il caso del nuovo logo del Ministero dell’Interno e del sospetto plagio immediatamente denunciato in rete riporta d’attualità l’estrema difficoltà con la quale le istituzioni italiane si rapportano con la comunicazione visiva: vi ricordate i famigerati marchi It e Magic Italy?
L’argomento dell’originalità nel mondo della comunicazione, tuttavia, è quanto mai complesso e spinoso. Mi piace riproporre qui di seguitoil testo pubblicato qualche tempo fa su Socialdesignzine che presentava alcuni rimandi straordinariamente inerenti al caso di oggi.

“È come se ci fossimo improvvisamente risvegliati immersi in una cultura dell’imitazione, dopo aver vissuto per quasi un secolo nel culto dell’innovazione”, scriveva Giovanni Anceschi nel suo intervento dal titolo appunto “La cultura dell’imitazione”, apparso in quello storico numero di Alfabeta dedicato agli “Scenari della grafica”, anno di grazia 1986 [1]. Un ventennio e passa dopo le parole di Anceschi, e alcune rivoluzioni tecnologiche nel frattempo intervenute (digitalizzazione, internet), può essere utile richiamare qualche riflessione su un fenomeno che sempre più spesso adombra il mondo della comunicazione visiva.

Intanto forse può essere utile ricercare l’origine di quella positività che la società occidentale attribuisce all’originale nelle arti visive. Volendo individuare le origini della nostra (occidentale) cultura visiva potremmo risalire fino all’esito delle lotte contro l’iconoclastia bizantina che infuriarono tra l’VIII e il IX secolo e che videro le tesi contro le raffigurazioni definitivamente bollate come eresia nell’843 [2], prima cesura tra il mondo visivo orientale e quello occidentale.
Ma fu dal Quattrocento che nell’arte europea si venne affermando, attraverso la firma, il concetto di autore, di colui cioè che garantisce, attraverso una visione personale e originale, la diversità della propria opera d’arte da qualunque altra precedente. Questo passaggio non si registrò nella cultura araba e orientale.

“Lo stile è un difetto. Il disegno perfetto non ha bisogno di firma. La firma e lo stile non sono altro che una stupida e insolente vanità”, dichiara uno dei personaggi, miniaturista alla corte del Sultano, del magistrale romanzo di Orhan Pamuk Il mio nome è rosso. Un romanzo corale che fa rivivere la profonda impressione che l’evoluzione dell’arte italiana, siamo alla fine del Cinquecento, produsse sugli artisti orientali per i quali la perfezione artistica si realizzava invece con l’assoluta aderenza ai canoni secolari [3]. Un’arte simbolica, su cui influì la proscrizione islamica del figurativo, contro un’arte iperrealista e autoriale.
Nel tempo l’originalità — versione creativa dell’individualismo — ha assunto nella nostra cultura un valore di vero e proprio precetto sociale. Per contro il plagio ha sempre rivestito i panni di un’ingiustificabile appropriazione indebita e, in quanto tale anche legalmente perseguibile.

Fra l’originalità e il plagio, una larga zona sfumata in grigio contempla la citazione, la parodia, l’imitazione, la scuola, l’omaggio, il remake…

Azioni non necessariamente riprovevoli o illegali. Se, mettiamo caso, — parafraso dall’articolo di Gunnar Swanson, Generation Ex: Copies and Copying in Graphic Design [4] — pubblicassi a mio nome la Divina commedia commetterei un’azione deprecabile (a meno di non essere un novello Pierre Menard [5]), ma nessuna infrazione dal momento che l’opera del maestro della lingua italiana appartiene al pubblico dominio. Viceversa fotocopiandone un’edizione, completa di dati sull’autore e editore, non compirei reato di plagio ma potrei essere perseguito per aver infranto il copyright della pubblicazione.
La parodia e la satira, poi, sono un esempio in cui l’imitazione non solo è tollerata, ma costituisce spesso l’elemento essenziale dell’opera. Così, almeno per quanto attiene alla legislazione degli Stati Uniti, utilizzare il marchio di Starbucks sostituendone la scritta con “Consumer whore” per denunciare il consumismo della nostra società non può essere ritenuto (e non lo ha ritenuto il giudice cui si era rivolta la multinazionale) un’infrazione del copyright. L’utilizzo a fine politico delle immagini e dei marchi commerciali rappresenta d’altra parte una vera e propria tecnica comunicativa, di cui la rivista canadese AdBuster rappresenta l’esempio più noto, che va sotto il nome di subvertising, tecnica applicata, ad esempio, nel remake della pubblicità dell’iPod per una denuncia della politica militare americana.

Se poi prendiamo la storia dell’arte, gli esempi di imitazioni, rimandi, citazioni e copie di opere altrui sono innumeri. Fino ad arrivare, con i ready-made di Marcel Duchamp, alla programmatica acquisizione di un oggetto già esistente, elevandolo ad arte solo grazie alla firma di colui che se n’è appropriato.
Ma torniamo al nostro tema, il plagio nel graphic design, ché il design non è, si sa, la stessa cosa dell’arte.

Il designer, per la natura stessa del progetto grafico, tesse i propri lavori a partire da materiali disegnati o realizzati da altri. A cominciare dalle griglie di impaginazione. Nessun professionista ritiene di commettere plagio, naturalmente, utilizzando una griglia modulare ripresa da Müller-Brockmann o un’impostazione di pagina secondo i criteri delle proporzioni auree descritti da Luca Pacioli.
Pensiamo poi alle font, utilizzate per la composizione del testo, e che, generalmente, non trovano posto nei crediti del progetto: un tentativo promosso nel 1997 dai fondatori di Emigre, Zuzanna Licko e Rudy VanderLans, con la petizione Bad Credits [6], per ottenere il riconoscimento dei type designer, almeno nei crediti degli annual di grafica, non ha sortito alcun risultato.
D’altra parte l’uso di una specifica font o di un elemento grafico basico può costituire un tratto determinante di riconoscibilità di un autore. Chiunque usi una composizione in Futura Extrabold rosso [7] può essere accusato di plagiare Barbara Kruger? Chiunque metta una fascetta nera in testa al proprio lavoro imita Massimo Vignelli?
In molti casi, pensiamo al decostruttivismo tipografico di David Carson che ha dato la stura ad una miriade di progetti grafici di genere, possiamo piuttosto considerare la somiglianza tra lavori direttamente collegata alla capacità che hanno certi designer di influenzare l’immagine del proprio tempo. Essere oggetto di imitazione, dar vita ad uno stile, ad una scuola, in questo caso, non fa altro che confermare l’originalità dell’autore.

Ma oggi c’è qualcosa che va oltre. Come sottolinea Manlio Brusatin nel suo Il prototipo e il falso, “ora però il plagio diventa una pratica diffusa, ma altrettanto immorale, rispetto alla ‘capacità inventiva’ di alcuni artisti e alla ‘capacità comunicativa’ di altri, assolutamente meno inventivi, che prendono dai primi spunti e idee riproducendole nella copiatura e nella pubblicità”[8].
Una pratica diffusa, dunque che non risparmia di colpire neanche a livello scandalosamente elevato. Per certi versi clamoroso può essere considerato il caso dell’immagine istituzionale del governo spagnolo che sembra ricalcare, oltre il limite dell’ammissibile, il coordinato grafico realizzato alcuni anni prima da MetaDesign per un altro governo, quello federale tedesco.

L’originalità, ci fa notare Brusatin, non risiede più in chi ha avuto l’idea, quanto piuttosto in colui che è riuscito a meglio diffonderla: “oggi qualsiasi fenomeno artistico tende alla divulgazione e alla moltiplicazione e la sua originalità diventa sempre meno accertabile, in questo senso azione autenticamente iconoclasta verso l’arte. Anche l’immenso catalogo delle immagini di Internet non va verso il riconoscimento dell’inventore ma verso l’abilità di chi se ne serve, e l’autore finale è chi adopera l’immagine e non chi ha avuto l’idea di costruirla e non è riuscito a proteggerla da imitatori o concorrenti”.

E abili, in questo riutilizzo, sono le agenzie pubblicitarie (un mondo invero nel quale la citazione, il remake, la parodia e il plagio vero e proprio hanno sempre goduto di piena cittadinanza come si può arguire dai tanti siti che prolificano sul tema, uno per tutti: Coloribus AdMirror). Una pratica, quella dell’appropriazione programmatica, elevata a metodo di lavoro del reparto creativo di una grande agenzia, segnatamente la Ogilvy&Mather, dal suo creative director a proposito della campagna italiana realizzata pro bono per l’Amref. Quella immagine fu, per sua stessa ammissione, ricostruita a partire dalla copertina di un disco di Manu Dibango di qualche anno fa: “abbiamo usato l’immagine che apprendo essere la copertina di un cd, scaricandola come molte altre suggestioni dal web. E l’abbiamo usata per fare il nostro layout perché era la visualizzazione più felice della nostra idea di campagna. L’abbiamo quindi — con parecchio studio, credimi — fatta diventare l’immagine dell’Africa giovane, impegnata ed efficiente che è il ritratto di Amref oggi”[9].

Internet dunque come un’immensa terra di nessuno da cui cogliere liberamente le migliori ispirazioni senza dover neanche pagare il fio dei pochi euro di diritti per un’immagine di stock. E dire che già i cataloghi di photo stock hanno rappresentato, in molti casi, una forma di saccheggio legalizzato della creatività altrui, giustificata attraverso la fragile foglia di fico del remake [10].

Il plagio colposo non lascia immune, naturalmente, neanche il mondo del graphic design. E spesso è solo grazie all’insipienza del plagiatore che certi casi vengono alla luce. Lo stemma del comune di Tarragona, in Spagna, era sembrato molto simile a quello del comune di San Sebastián de los Reyes, ma la prova del misfatto si è avuta soltanto allorché ci si è accorti che nel manuale di stile fornito risultava citato, in alcuni punti, il nome dell’altro comune. Evidentemente lo studio copista non si era neanche preso la briga di correggere con attenzione il testo scaricato da internet.

Tuttavia non è nei comportamenti pirateschi di agenzie o singoli professionisti che possiamo relegare il problema dell’imitazione.
La stessa rete che permette di accedere ad uno sconfinato materiale di ispirazione contiene, sì, in sé un antidoto — quell’altrettanto sconfinata schiera di navigatori in grado di individuare la sospetta acquisizione (vedi quanto avvenuto nel concorso per il marchio di “Madrid 2016”, con grande eco sulla stampa) —, ma allo stesso tempo contribuisce ad alimentare all’infinito le polemiche su sospetti e retropensieri basati su interpretazioni soggettive di vaghe — e inevitabili — somiglianze.

La comunicazione visiva esprime la sua efficacia con il sapiente incrocio di elementi rassicuranti (conosciuti, visti) e condivisi, rivitalizzati da una dose, più o meno omeopatica, di originalità. E nell’utilizzo degli elementi di linguaggio condiviso non potranno mancare riferimenti e rimandi a quanto attiene alla nostra personale storia visiva. “Siamo nani sulle spalle di giganti”: difficile trovare una definizione migliore del vecchio aforisma filosofico per descrivere quanto attiene il mestiere di grafico.
Per chi si vuol divertire a seguire, attraverso un secolo di graphic design, alcuni dei fili rossi che concorrono a costituire il codice genetico di una cinquantina di opere di grafica di grandi designer, in una selezione sentimentale di Steven Heller e Mirko Ilic, consigliamo il loro ottimo (e originale, per rimanere in tema) The Anatomy of Design: Uncovering the Influences and Inspirations in Modern Graphic Design [11]. Non mancheranno delle sorprese e sarà, forse, un ottimo esercizio di umiltà per molti.

Il vero problema è che è sempre più difficile essere del tutto originali.
Storicamente la verifica dell’originalità riguardava il confronto tra gli autori — e “l’autore non può esistere senza la produzione di almeno un capolavoro” ci dice ancora Brusatin —, ma oggi questo confronto comprende l’universo mondo.
La tecnologia ha permesso una democratizzazione e un’espansione esponenziale e dei progettisti e dei progetti nonché la loro distribuzione contemporanea e globale. Nessun rimpianto, sia chiaro, i processi innescati non sono invertibili e, probabilmente, neanche controllabili. È solo una necessaria constatazione che, al di là del nostro ristretto campo d’interesse del design, ha già pesantemente investito, per motivi analoghi, le creazioni letterarie e musicali.

In questo scenario è ormai molto difficile per gli stessi esperti di settore individuare sospette somiglianze prima che queste vengano additate, sempre con grande scandalo, alla pubblica opinione. È quanto successo per i due marchi, basati su un ombrello e un codice a barre, praticamente identici, premiati rispettivamente, a due anni di distanza, come miglior progetto in Giappone (Good Design Award) e in Europa (Best of Europe EULDA).
È difficile per gli esperti, ma lo è anche per gli stessi grafici. Michael Bierut, partner di Pentagram New York, si è preso il gusto, fra il serio e il faceto, di fare outing a proposito di un proprio manifesto realizzato per la Yale University e che ha riconosciuto simile (ma certo non uguale!) a quello che, trent’anni prima, aveva disegnato un suo maestro, Willi Kunz [12]. Un’immagine che sicuramente Bierut aveva visto, ma che non ricordava coscientemente (esiste, per chi ama l’approfondimento scientifico, un preciso termine psicoanalitico che definisce questa caratteristica della memoria, peraltro molto diffusa: criptoamnesia).

Per un grafico che vive di immagini e che manipola, come abbiamo detto, elementi visivi generici — un po’ come le note per un musicista — è ormai virtualmente impossibile essere certo della primogenitura di una propria idea.
È un ben curioso paradosso dover prendere atto che la ricerca dell’originalità che ha sempre caratterizzato la nostra cultura visiva — per riprendere il nostro discorso storico iniziale — sotto l’effetto della democratizzazione e della globalizzazione del design ci porta, infine, in dote l’ineluttabilità del plagio.

Note

1. Giovanni Anceschi, La cultura dell’imitazione, in “Alfabeta” n. 83, 1986, Suppl. Gli scenari della grafica, pp. III-V.
2. Flavio Caroli, Arte d’Oriente. Arte d’Occidente. Per una storia delle immagini nell’era della globalità, Electa Mondadori 2006.
3. Orhan Pamuk, Il mio nome è rosso, Einaudi 2001.
4. Gunnar Swanson, Generation Ex: Copies and Copying in Graphic Design, in Stepinsidedesign
5. Jorge Luis Borges, Pierre Menard, autore del “Chisciotte”, in Finzioni, Einaudi 1955.
6. Zuzanna Licko, Rudy VanderLans, Bad Credits, in Text on type. Critical Writings on Typography, a cura di Steven Heller e Philip B. Meggs, Allworth Press, 2001.
7. Michael Bierut, Designing Under the Influence in Design Observer, 26.02.05.
8. Manlio Brusatin, Il prototipo e il falso, in Arte come design. Storia di due storie, Einaudi 2007.
9. Opps!, in Spotanatomy, 14.03.07.
10. William Drenttel, Bird in Hand: When Does A Copy Become Plagiarism? in Design Observer, 06.01.05
11. Steven Heller e Mirko Ilic,The Anatomy of Design: Uncovering the Influences and Inspirations in Modern Graphic Design, Rockport Publishers 2007.
12. Michael Bierut, I am a plagiarist, in Design Observer.

Gianni Sinni

Grafico, si occupa di comunicazione responsabile