In Territorio Nemico

Approfitto dell’uscita di In territorio nemico, il romanzo scritto da più di 115 autori grazie al metodo della Scrittura Industriale Collettiva (SIC) per riproporre un mio articolo sulla creatività collettiva uscito tempo fa per Orwell – l’inserto culturale diretto da Christian Raimo per una testata morta in circostanze irritanti.

Ripubblico questo articolo perché questo progetto, ideato e coordinato da Gregorio Magini e Vanni Santoni (e a cui ho partecipato anch’io tra i tanti, non come autore ma come editor) fa discutere da tempo e mi vede molto interessato al tema, tant’è che l’ho copiato e applicato alle arti visive. Quale che siano le prospettive, i meriti, i demeriti, le innovazioni e i limiti di questa nuova prassi credo che si tratti di un esperimento importante e coraggioso, che si inserisce in un dibattito che è forse il più fecondo e drammatico per tutti gli artisti che usano internet (dunque quasi chiunque).

La copertina del libro, per non confondervi con l'omonimo disco di Milva

Trovate il romanzo, edito per Minimum Fax, in tutte le librerie e online (o in e-book).  Lo consiglio perché al di là di tutta la teoria che ci sta dietro è di piacevole e interessante lettura: parla della resistenza in Italia, e grazie alla poderosa raccolta di materiale dei 115 autori, lo fa in modo preciso e appassionato. Questo libro però merita più di una recensione, e per rendere giustizia alle sue caratteristiche tecniche ma soprattutto poetiche, nei prossimi tempi ne farò due: una che lo considera scritto da un singolo autore, e una che lo considera un’opera collettiva.

Il seguente articolo “I geni copiano” è uscito per Orwell un giorno che non ricordo più.

Lo scrittore Wilbur Smith, celebre autore di bestsellers, ha firmato recentemente un contratto da milioni di sterline per NON scrivere libri. A farlo infatti sarà qualcun altro, probabilmente più d’uno; lui si limiterà a creare trama e personaggi. Quest’operazione, indubbiamente commerciale, tira in ballo questioni complesse, come l’idea di “autore” e di “creatività”. Certo, il conto sul quale verranno versati i milioni suggerisce una risposta alla prima domanda, ma dal punto di vista poetico non è sufficiente: per risolvere l’enigma sarà necessario addentrarci nel secondo concetto, la “creatività”.

Henri Poincaré, che non a caso scoprì il determinismo del caos, ne diede una definizione elegante: “…unire elementi esistenti con connessioni nuove, che siano utili”. Unica pecca del fisico fu il tentativo di risolvere un problema sollevandone due: la “novità” e l’“utilità”. Se s’interroga la neuropsicologia invece, Sarnoff Mednick pone l’accento sull’aspetto combinatorio della creatività: secondo il professore californiano, il cervello contiene informazioni isolate, che determinati stati mentali associano in modo inusuale. Questo capiterebbe sia agli schizofrenici (che in un certo senso soccombono alle proprie visioni) sia agli artisti e scienziati, considerati – forse a torto – degli schizofrenici «capaci di cogliere associazioni infrequenti senza sentirsi disturbati dalla loro stranezza» (Albert Rothenberg).

Se l’invenzione è dunque uno “strano assemblaggio”, dopo duecentomila anni di strani assemblaggi da parte dell’umanità, è diventata “uno strano assemblaggio di strani assemblaggi”. Non è possibile ignorare, qualora ci si lasci sedurre dalla statistica, che nel 1804 la Terra ospitava un miliardo di abitanti, mentre nel 2011 circa sette volte tanto. Il numero dei creativi aumenta di conseguenza; se si considera l’ammontare degli esseri umani vissuti fino a oggi (la cui stima è addirittura di centosei miliardi) il numero degli “strani assemblaggi” si fa necessariamente spropositato.

Con l’avvento di un ulteriore moltiplicatore, internet, che da pochi decenni amplifica smisuratamente le connessioni tra individui, è naturale che il processo creativo subisca una furiosa accelerazione, cui è sottesa un’immancabile rivoluzione poetica. In un oceano sterminato e accessibile, gli elementi con cui creare diventano a tal punto numerosi da rischiare di trasformarsi in rumore; di conseguenza aumenta sempre più  l’importanza di una delle fasi dell’invenzione: la scelta. Viene in mente la celebre citazione di Picasso, ultima risorsa per sedicenti creatori accusati di plagio: «I mediocri imitano, i geni copiano». In questo contesto, l’autore, lontano dall’essere il genio solitario postulato dal romanticismo, lavora su materiali già “pronti”, e assume la forma del demone biblico che alla domanda «Qual è il tuo nome?» non può che rispondere: «Il mio nome è Legione, perché siamo molti». La creazione, come e più che in passato, si fa un’operazione collettiva.

Non è difficile trovare degli esempi: Wikipedia su tutti. In ambito scientifico, come testimonia il fatto che il Web sia nato presso i laboratori del CERN, la creatività collettiva è da tempo una prassi; nelle arti, legate da secoli all’individualità della poetica, si procede con più lentezza. Non si tratta però di una regola assoluta; già Michel Foucault sottolineava come in passato accadesse l’inverso, e fosse proprio l’autorità di chi parla a garantirne la verità. La letteratura, così come l’arte visiva, è piena di opere collaborative, dai cadavre exquis surrealisti alle opere di Wu Ming; quel che manca in tutti questi casi però, è la presenza di un metodo abbastanza “forte” da evitare l’anarchia creativa, soprattutto qualora ci si apra a un gran numero di partecipanti. Il recente caso del metodo SIC (scrittura industriale collettiva) di Gregorio Magini e Vanni Santoni rappresenta una novità in questo panorama, e si avvicina all’arte in cui la creazione collettiva assume una forma stilisticamente riconosciuta e riconoscibile: il cinema. Il termine “industriale” della SIC raccoglie in sé due dei principali caratteri di una creazione organica, che infatti appartengono alle cellule degli stessi organismi da cui deriva il termine: la divisione dei compiti e la struttura gerarchica. Quel che è spesso criticabile in ambito sociale, può risultare proficuo nelle arti, e a garantire l’omogeneità dell’opera sarà proprio la tirannia della regia.

Per stabilire delle «associazioni inusuali» bisogna essere rivoluzionari, non democratici – non a caso si dice di alcuni dittatori che siano “artisti mancati”. Si deve lasciare che la propria mente divenga il filtro attraverso il quale il materiale del mondo si riorganizza, in un processo formativo reciproco. In questo senso, una comunità di menti “al servizio” di poetiche private sembra un modello destinato a evolversi e proliferare, tanto da destabilizzare persino l’idea che la mente dei singoli sia di per sé chiusa, e, per l’appunto, “singola”.

La questione in ballo è spinosa, e ha risvolti dal sapore fantascientifico: ci si potrebbe addirittura domandare se un metodo possa un giorno sostituire l’autore, e divenire il mezzo attraverso il quale milioni di menti si coordinano per la creazione di «associazioni inusuali»,  con l’inconsapevole alacrità con cui i globuli rossi trasportano l’ossigeno. È questa un’utopia (o un incubo) che quasi coincide con un’altra: la creazione di un’intelligenza artificiale. L’autore collettivo ricorda un personaggio del manga “Ghost in the Shell”: il “Puppet Master” (Burattinaio), ovvero un software di analisi della rete che, a forza di navigare e assemblare informazioni, acquisisce l’autocoscienza – se non addirittura un’ “anima”. Può sembrare assurdo, ma se si pensa ai tormentoni (detti “meme”) generati, sviluppati e uccisi dalle creatività di massa prive di controllo che abitano internet, è difficile negare un sapore di verosimiglianza a tali ipotesi.

Tornando a Picasso, il suo «I mediocri imitano, i geni copiano» suona meno ermetico: chi imita scimmiotta il “metodo” di un altro, senza creare qualcosa che non sia già visto; chi copia, prende qualunque cosa senza scrupoli né limiti, e la usa per assemblare una nuova opera, consapevole che non si deve scambiare il ciclo vitale della creatività con la morte dell’arte. Ne emerge l’invito: Autori, copiate e moltiplicatevi.

Francesco D'Isa

Artista e scrittore. Da quando è nato, nel settembre del 1980 a Firenze, Francesco D'Isa ama la sintesi e odia la biografia.