Cinque stelle, un bilancino

È parziale, è sbrigativo, è mio: ma ecco un rendiconto della rivoluzione a Cinque Stelle un paio di mesi dopo le elezioni.

– Appena insediati, hanno eletto un presidente del Senato per sbaglio, aprendo processi interni dilanianti a una decina di inconsapevoli franchi tiratori: una riunione-rissa con urla e lacrime, un auto-denunciato, una scomunica dall’alto, uno scontro tra capigruppo e incidenti vari.

– Dopo il «casino» e i «passi malfermi» (definizioni loro) hanno esordito due commissari per la comunicazione nominati in fretta e furia da Casaleggio – e incorsi subito in un paio di gaffe – ma questo non ha impedito che i parlamentari grillini si facessero nuovamente infinocchiare dai giornalisti in molteplici occasioni: i capigruppo Crimi e Lombardi finivano definitivamente macchiettizzati come è stranoto a tutti, e su questo non incediamo.

– Nel tentativo di ovviare ai citati problemi, hanno inventato le conferenze stampa senza domande.

– Vari parlamentari sono stati ripresi perché giravano per il transatlantico senza giacca e con bicchieri di Coca Cola, una deputata si è vantata di non aver stretto la mano a Rosi Bindi, un altro è stato fotografato ai tavoli del ristorante della Camera in allegra compagnia: in generale i grillini sono incorsi in grandi e piccole cantonate (lapsus, magre, figuracce) di cui è andata persa la contabilità. Un deputato è giunto a dire «Lei non mi può interrompere» al presidente di turno della Camera.

– Rimane agli atti lo psicodramma del capogruppo Lombardi coi suoi 250 euro di scontrini andati persi, stesso personaggio che aveva dato del «nonno» a Napolitano.

– La celebre diretta streaming delle consultazioni Pd-Cinque Stelle, con uscite tipo «sembra di essere a Ballarò» e «siamo noi le parti sociali», ha indubbiamente messo in imbarazzo e restituito un’immagine di arroganza. La successiva consultazione con Enrico Letta non l’ho vista, ma non ho sentito nessuno sostenere che non abbia prevalso lui.

– Alla fine delle consultazioni è risultato, almeno secondo qualche sondaggio, che i grillini avevano fatto perdere un sacco di tempo a tutti: complici la testardaggine di Bersani e della stampa, arrovellati nel tentar di comprendere se i «no» di Grillo fossero strategici o significassero «no» e basta.

– Intanto Grillo contestava l’articolo 67 della Costituzione e la libertà di voto degli eletti, il tutto in implicita contestazione della democrazia «rappresentativa» a cui si predilige quella «diretta». Di passaggio si sosteneva che il Parlamento, anche senza un governo, potesse iniziare comunque a lavorare istituendo le commissioni che – altra vittoria – alla fine non sono state istituite, facendo fallire, per ora, l’idea di un assemblearismo spinto a propulsione elettronica.

– Si tralasciano i dettagli sulla mancanza di trasparenza: dalle nomine sempre decise da Grillo & Casaleggio, al fantasma di «hacker» durante le votazioni interne, alla decisione di non rendere noti i nomi dei finanziatori del Movimento: senza contare gli innumerevoli interventi e commenti rimossi o censurati dal blog di Grillo in tutto questo periodo.

– La proclamata occupazione della Camera è finita piuttosto ingloriosamente, con discussioni persino sull’accresciuto consumo di energia elettrica. Stesso genere di polemica che ha riguardato la decisione di alcuni parlamentari grillini di viaggiare con treni ad alta velocità.

– Le «quirinarie» sono state un altro grandissimo punto interrogativo. Esclusa la candidatura di Dario Fo (stessa età di Napolitano) e pure quella di Gino Strada, le votazioni si sono dovute rifare per colpa di hacker misteriosi di cui nessuno ha spiegato nulla, ma la vincente Milena Gabanelli alla fine ha detto di no. Eccoti allora Stefano Rodotà che, pure, in un’intervista aveva definito Grillo come «estremamente pericoloso» e «populista del terzo millennio»: è diventato il candidato «proposto dai cittadini italiani» in virtù di 4667 voti telematici su 28 mila totali, resi noti da Casaleggio dopo giorni di polemiche sempre in virtù della scarsa trasparenza. Il risultato della candidatura di Rodotà è stato bruciare Rodotà col Pd, sintesi un po’ grezza ma innegabile.

– Eletto Napolitano, Grillo ha gridato al golpe, ha invitato a una marcia su Roma («dobbiamo essere milioni») e poi a non c’è neppure andato, mentre una folla tuttavia provocava tafferugli e spintonamenti davanti alla Camera. Il giorno dopo, la marcia su Roma è diventata una conferenza stampa e poi un micro-corteo interrotto al Colosseo. Grillo ha chiarito, a una giornalista cilena, che «golpe» era un modo di dire.

– Un paio di giorni dopo, hanno espulso un senatore perché andava troppo in tv – decisione ancora non definitiva, pare – tralasciando l’eventuale errore di averlo fatto eleggere.

– Elezioni regionali in Friuli Venezia Giulia: due mesi dopo, il 27 per cento delle politiche diventa il 20 (scarso) preso dal candidato grillini, che nel caso della lista diventa addirittura il 13; alle comunali di Udine il candidato sindaco grillino ha beccato circa il 14.

– Intanto Grillo ha continuato col refrain («è finita», «a casa», «siete morti», «l’Italia fallirà in autunno») ma è andato a cantarlo anche in Germania.

– Intanto i parlamentari hanno litigato seriamente sul primo stipendio: chi lo vuole tutto, chi no. Padri di famiglia e single si sono accapigliati.

– Il governo di larghe intese alla fine c’è, ciò che anche Grillo voleva e prevedeva: ma a esser sfibrato, sfilacciato e disorientato è forse il movimento Cinque Stelle. Viceversa, il nuovo governo guidato da Enrico Letta si profila come una soluzione che tutto sommato restituisce un senso di sollievo e denota una composizione di un volto cosiddetto «presentabile» in un periodo in cui la politica italiana, tutta, non lo sembrava praticamente più. E come se Grillo avesse restituito immagine e credibilità alla politica: ma a quella altrui.

– Il Movimento Cinque Stelle, nel non dare la fiducia al nuovo governo, alla Camera l’ha definito «il governo della trattativa stato-mafia».

– Il giorno dopo, la capogruppo Lombardi dichiara che «quando Letta vuole, siamo pronti a sederci a un tavolo». Ma l’impressione è che nessuno ne abbia più voglia.

Filippo Facci

Giornalista e scrittore, lavora a Libero, ha collaborato con il Foglio, il Riformista e Grazia. È autore di Di Pietro, La storia vera