Grasso, il magro e il cattivo

Il «duello» Travaglio-Grasso, nel caso, sarebbe solo l’eco lontana di scontro vecchio e soprattutto risolto. L’ha già vinto Grasso, anni fa, ma non contro Travaglio che è solo un tardivo portavoce: contro le vedove caselliane che a partire dal 1999 sono state sconfessate nella politica e nei tribunali.

Si parla di un’area a cui Ottaviano Del Turco, da presidente dell’Antimafia, nel 2003, attribuì la velleità di «rileggere tutte le vicende del dopoguerra come un unico disegno criminale dentro a cui stanno bombe, terrorismo, brigate rosse, mafia, gladiatori, la Cia, e naturalmente, da ultimo, Berlusconi che si aggira con valigette piene di bombe al tritolo».
Pietro Grasso, invece, in un’intervista sempre del 2003, parlò di «persone identificabili in una determinata area culturale e politica che si è sempre distinta per l’aggressività e il cinismo con cui attacca chi non condivide una certa visione della giustizia e dei problemi connessi. Neppure Giovanni Falcone si salvò da questi schizzi di fango».

L’area culturale e politica, a Palermo e nei vari avamposti, è perlopiù quella di Magistratura democratica e della varia «antimafia piagnens». Di essa Marco Travaglio è divenuto notoriamente il doberman – non da solo – e perciò e ha sempre avversato colleghi più moderati come lo stesso Grasso o Giuseppe Pignatone, ora procuratore capo a Roma e altro nemico storico di Ingroia. Ora c’è un noto epilogo politico, diciamo: la scelta del Pd di respingere al mittente ogni avance politica di Antonio Ingroia, preferendogli Grasso, non è stata indolore; tantomeno lo è stata la decisione del Pd di difendere Giorgio Napolitano quando il contrasto procedurale tra la procura di Palermo e il Quirinale si fece dirompente. L’esito, per ora, è che Pietro Grasso (detto Piero) è stato eletto ed è già presidente del Senato, col rischio che diventasse addirittura premier; Ingroia, invece, non è neppure stato eletto, la sua Rivoluzione civile ha fatto un bagno, e lui rischia di trasferirsi ad Aosta a indagare sui clan della Fontina. Il veleno di Travaglio contro Grasso, dunque, è roba vecchia ma ridipinta di fresco rancore. È il fiele degli sconfitti, ma nondimeno – sprechiamo l’espressione – una resa dei conti culturale.

Pietro Grasso è di Licata. A 14 anni giocò nella Bagicalupo allenata dal 17enne Marcello Dell’Utri e questo è il tratto più malizioso che lo riguarda. Era già magistrato a 24 anni (un «plasmoniano», si diceva all’epoca) e si ritrovò subito a rischiare la pelle nel giudicare il maxiprocesso a Cosa Nostra: 400 boss in un dibattimento istruito dal pool di Falcone e Borsellino. Lui scrisse le motivazioni (8000 pagine) aiutato da uno stormo di giovani uditori tra i quali c’era Antonio Ingroia. Fu consulente della commissione Antimafia e vicecapo agli Affari penali ancora con Falcone. Poi, dopo anni alla Procura nazionale antimafia con Pierluigi Vigna – periodo in cui progettarono di ucciderlo – nel 1999 fu nominato Procuratore capo a Palermo e andò a rappresentare una netta discontinuità con Giancarlo Caselli e i vari Ingroia di complemento. Secondo Travaglio, ciò coincise con una «normalizzazione» della procura.

Il che è vero. Grasso, che era della corrente di Movimento per la giustizia (quella di Falcone) fece fuori i caselliani uno alla volta. Tra questi, fermandosi ai cognomi: Lo Forte, Scarpinato, Principato, Teresi, Imbergamo, Musso, Paci, Serra, Ingroia eccetera. Si parla di pm che gestirono processi anche fumosissimi (come il mitico «sistemi criminali», dedito a «massoneria, politica e imprenditoria deviate», affidato da Caselli a Scarpinato nel 1993, roba da far sembrare la «trattativa» un capolavoro di linearità) la maggior parte dei quali sarebbero tutti finiti in nulla. Grasso, in un’intervista dell’agosto 2000, parlò esplicitamente di processi caselliani «capaci di ottenere condanne solo sulla stampa». Altri, più di parte come il forzista Enzò Fragalà, citarono la «gestione strumentale dei pentiti, spese pazze e inutili, le enormi risorse pubbliche messe in campo al fine di costruire e portare avanti teoremi politico-giudiziari finiti come sappiamo, senza peraltro che i geometri abbiamo dovuto scontare alcunché per gli errori commessi». Ho citato un forzista ma è stata una visione condivisa anche a sinistra.

Grasso, come suo vice, ripescò Giuseppe Pignatone, che a suo tempo aveva lasciato la procura all’arrivo di Caselli; un moderato anche lui (corrente Unicost) che tra i cronisti era popolare come poteva esserlo uno che aveva mandato ad arrestare i giornalisti Attilio Bolzoni e Saverio Lodato, con l’accusa di peculato. Due pentiti come Brusca e Cancemi lo chiamarono in causa tre volte, ma altrettante la sua posizione fu archiviata. Tuttavia per Travaglio (e Ingroia) ancor oggi è come nominare il demonio: e al tentativo di «mascariarlo», il vice-Ingroia ha dedicato pagine intere. Una grave colpa di Pignatone fu certamente quella di diventare vice di Grasso al posto dei vari caselliani Alfredo Morvillo, Anna Palma o Sergio Lari.

Normalizzazione: nel senso che normale, prima, non era niente. Grasso lavorò con avocazioni, redistribuzioni, monitoraggi, non volle la responsabilità degli insuccessi di Caselli (Andreotti, Musotto, Canale, Di Caprio, Mori, Rostagno, Carnevale, Mannino, stragi, ecc.) e prese di mira certe toghe superstar: ma piano, sinuosamente, alla democristiana. Fece un fondo così ai magistrati che si lagnavano perché la scorta gli era stata ridotta, ad altri tolse la seconda auto o i piantoni fuori casa (roba che in Sicilia fa status) e alcuni li fece addirittura lavorare, fottendosene di gerarchie non scritte come quelle che volevano Lo Forte e Scarpinato come grandi pensatori. Torna in mente una proposta di Ingroia e Scarpinato da loro messa nero su bianco su Micromega del 2003: «Sospendere autoritativamente la democrazia aritmetica al fine di salvare la democrazia sostanziale… Nella nuova Costituzione europea bisogna porre il problema degli interventi politici e istituzionali, compreso, come estrema ratio, il commissariamento europeo nei confronti degli Stati membri». Ora saranno contenti, data l’aria che tira.

Una circolare del Csm del 1993, comunque, prevedeva che i pm dalla Dda (Direzione Distrettuale Antimafia) scadessero dopo otto anni, ma Lo Forte e Scarpinato pretendevano che la faccenda non li riguardasse perché loro erano procuratori aggiunti. L’ebbe vinta Grasso. Anche Ingroia e Gioacchino Natoli, estromessi allo scadere degli otto anni, riformularono domanda dopo tre: ma Grasso, appigliandosi a un parere del Csm, riuscì a prolungare la loro esclusione per sei lunghi anni. Grasso ebbe la meglio su Scarpinato e Lo Forte – più Ingroia – anche nel suggerire che a Totò Cuffaro, anziché il solito concorso esterno in associazione mafiosa, fosse contestato il favoreggiamento: ed ebbe ragione lui, com’è noto.

Si può immaginare, insomma, quanto Ingroia e company amassero e amino Grasso. I caselliani, già ai tempi, scatenarono l’apocalisse e Ingroia lo fece nel suo modo consueto: «Non è una lite tra primedonne», disse, «come non lo furono quelle tra Falcone e i suoi avversari negli anni Ottanta». Mentre Scarpinato, su Micromega, lamentava che stavano estromettendo «quei magistrati che nella procura di Caselli avevano condotto le inchieste più delicate su mafia e politica». Il problema è che Pietro Grasso aveva le regole dalla sua e poco gli importava della sacralità antimafia di questo o quello. Quando tolse a Lo Forte e Scarpinato le inchieste che stavano seguendo, nel luglio 2003, la decisione era già stata avallata dal Csm: ma i due sostituti, secondo Grasso, pretendevano che lui aggirasse la decisione: lo raccontò in un’intervista alla Stampa.

Per il resto è vero: Grasso, nel 2000, non controfirmò l’Appello contro Andreotti, che era stato assolto: e non mise neppure il visto di presa visione. Lui naturalmente ha sempre spiegato di non aver sottoscritto il ricorso come conseguenza della «piena autonomia dei sostituti di udienza», e ha detto che la vera ragione è che lui sarebbe stato testimone nel processo d’Appello: ma sa di paraculata. Non ne voleva la responsabilità. Anche perché, in effetti, non era sua.

È pure vero che nel 2002, Grasso, nascose ai caselliani la gestione del pentito Nino Giuffrè. Ne aveva diritto. Ascoltò il pentito per tre mesi e ciò portò ad arresti che stroncarono una malavita fattiva e reale nella zona delle Madonie: questo anziché accreditare, da subito, oscuri scenari sulla storia d’Italia. Grasso lo fece anche perché aveva bisogno di verificare l’affidabilità di Giuffrè e di garantire per la sua sicurezza familiare. La vicenda finì al Csm che deliberò così: «Come ha spiegato il dottor Grasso, si è verificata un’incomprensione dovuta alla mancata comunicazione al dott. Lo Forte delle ragioni di prudenza per le possibili fughe di notizie a causa delle costante e pressante presenza di giornalisti negli uffici della procura». In lingua italiana: i verbali di Giuffrè non erano stati mostrati a Lo Forte per evitare fughe di notizie. Un’accusa indiretta e beffarda. Grasso ribadì il concetto sul Corriere della Sera: se non ci sono state fughe di notizie – disse – è perché non ho mostrato i verbali ai pm né a nessuno. Travaglio invece la metterà così: «Muoiono così la filosofia e la prassi del pool, fondate sulla libera circolazione delle informazioni e sulla fiducia reciproca… cala una pietra tombale sulle conquiste di Falcone e Borselino». Erano calate solo le fughe di notizie.

Dopodiché certo: Pietro Grasso, detto Piero, fu nominato procuratore nazionale antimafia. E Caselli no. Il terzo governo Berlusconi, con un emendamento, mise fuori gioco Caselli per sopraggiunti limiti di età. Non fece una legge apposita, ne fece tre: una delle quali – dopo che Grasso era già stato eletto – fu giudicata illegittima dalla Corte costituzionale. Tuttavia nessuno può dire che Caselli, senza quella legge, avrebbe vinto: in ogni caso gli sarebbe servito l’appoggio del Csm, che avrebbe potuto benissimo preferirgli Grasso. È quello che ha sostenuto in un’intervista all’Ansa, lunedì, il pm palermitano Giuseppe Fici, che all’epoca era al Csm e visse i fatti in prima persona: «Confermo il convincimento, mio e di tutto il consiglio, che Grasso avrebbe prevalso su Caselli anche senza l’intervento della maggioranza parlamentare. Convincimento fondato sulla proiezione dei voti espressi in Commissione: in favore di Grasso si erano pronunciati il laico di centrodestra e i togati di Unicost e Magistratura Indipendente, con una prospettiva di almeno 14 voti sicuri». Grasso peraltro ne ebbe 18, di voti, con cinque astensioni.

Sull’ambiguità di Grasso come personaggio «politico», detto questo, si potrebbero scrivere pagine intere. Nel maggio 2010 dichiarò che la mafia aveva «inteso agevolare l’avvento di nuove realtà politiche che potessero poi esaudire le sue richieste»: e in molti vi lessero un riferimento a Forza Italia. Poco tempo dopo dichiarò che il centrodestra aveva introdotto leggi eccellenti sulla mafia e che il governo Berlusconi era da premio. Aggiunse pure che Ingroia «fa politica utilizzando la sua funzione. È sbagliato, ma per la politica è tagliato». Aveva ragione, ma figurarsi il Travaglio del giorno dopo: «Ingroia è uno dei pm che indagano sulle trattative Stato-mafia, che quando Grasso era procuratore a Palermo erano tabù, e che coinvolsero anche la Banda Berlusconi». Subdolo come suo solito. Persino Massimo Ciancimino, ex cocco di Ingroia e Travaglio, tentò di sputtanare Grasso: e in effetti mancava. Non c’è riuscito Ciancimino e non c’è riuscito nessuno. Non ci riuscirà Travaglio.

Resta divertente è che un tratto di Grasso ritenuto imperdonabile, secondo quanto ha scritto Travaglio, è una sua sostanziale impunità nel dire le stesse cose di Ingroia senza suscitare vespai; si trovano dichiarazioni di Grasso contro le leggi governative in tema di giustizia, contro la riforma dei pentiti, contro ogni ipotesi di riforma giudiziaria e antimafia. «Grasso», ha scritto Travaglio, «gode di una straordinaria libertà di parola, può dire ciò che vuole senza che gli piova addosso non solo un’azione disciplinare, ma nemmeno un attacco dei pasdaran berlusconiani… ha il raro privilegio di potersi permettere qualsiasi critica alla politica, senza che nessuno batta ciglio». È vero. Si chiama autorevolezza, o qualcosa del genere. Se da magistrato non ce l’hai, tuttavia, puoi lagnartene in televisione a mezzo Travaglio.

Filippo Facci

Giornalista e scrittore, lavora a Libero, ha collaborato con il Foglio, il Riformista e Grazia. È autore di Di Pietro, La storia vera