Il dolo di Travaglio

Scusate, se l’argomento vi annoia vi basta non leggere. Ma è per completezza: perché Marco Travaglio, vedete, è tornato sul tema a lui tanto caro (economicamente) delle sue condanne per diffamazione. L’ha fatto a Servizio Pubblico, ovviamente, parlando da solo, ovviamente. L’ha fatto per via dei lettori e teleutenti che chiedevano chiarimenti: segno che non ne aveva mai dati.
Il presunto collega ha mostrato il suo casellario giudiziale – è il quarto anno di fila che lo fa – dove «c’è scritto nulla», quindi ha gongolato come se stringesse in mano un’indulgenza per l’altro mondo. Penalmente, è incensurato: esattamente come Silvio Berlusconi. Però Berlusconi è prescritto: anche Travaglio, visto che l’ultima sua condanna penale è andata in prescrizione il 4 gennaio 2011.
Nei sette minuti supplettivi da lui sequestrati a Servizio Pubblico, in sostanza, Travaglio ha spiegato di essere il migliore come sempre: migliore dei colleghi e direttori berlusconiani «condannati per diffamazione» – loro sì – e migliore dei giudici che «non hanno capito» in quanto l’hanno condannato, migliore dell’intera stampa italiana che dopo Servizio Pubblico, badateci, «la differenza tra penale e civile non l’hanno capita neanche loro».
A meno che a questa differenza, più semplicemente, i giornali italiani non abbiano dato l’importanza che Travaglio le attribuisce. Il presunto collega, infatti, continua a parlare (da solo) come se le condanne civili non nascessero comunque da un illecito e da un cattivo giornalismo, e come se il primo a mischiare e pubblicare le condanne penali e civili dei colleghi, a suo tempo, non fosse stato lui.
Qui tocca aprire una parentesi.

Il presunto collega, su l’Unità del 21 ottobre 2008, pubblicò il casellario giudiziale dello scrivente là dove compariva soltanto l’esito di una querela dell’avvocato Giuseppe Lucibello (che in un libro avevo sbeffeggiato per via del suo abbigliamento) e cioè una condanna a 500mila lire di multa più 10 milioni di provvisionale. Poi il presunto collega passò alle cause civili: tutte di magistrati amici suoi più una di Enzo Biagi. E poi, ancora, siccome il bottino era oggettivamente scarso, ecco la carognata: pubblicò anche estratti di condanne non definitive per querele che nel frattempo erano state ritirate, in quanto le parti (gli studi legali, cioè) avevano raggiunto accordi in via transattiva. Cioè: quei procedimenti non esistevano più (nel casellario non ci sono mai stati) ma lui li pubblicò lo stesso. E ora, quattro anni dopo, si lagna che mischiare il civile e il penale «è scorretto».
Ora che la sua stessa arma gli si ritorce contro, cioè, ecco fiorire distinguo su distinguo: e così giovedì sera ha cercato di separarsi dai «direttori berlusconiani, loro condannati più e più volte, loro sì diffamatori professionali», gente diversa da «noi, che non abbiamo nessuna condanna per diffamazione». Interessante. Noi chi? Una risposta a tono, purtroppo, implicherebbe l’elenco dei suoi amici e colleghi che sono incappati pure loro in condanne per diffamazione, magari con la specifica che anche il grande Indro Montanelli me ha collezionate a bizzeffe, di condanne. E così pure tutti i grandi del giornalismo. Rispondere a tono, cioè, imlicherebbe il dare corda al gioco prediletto da Travaglio in tutti questi anni: sostituire la fedina penale alla carta d’identità, spiegare ai più beoti tra i suoi fans che un giornalista condannato per diffamazione sia tutta ‘sta cosa. Meglio di no. Meglio lasciare a Travaglio il suo certificato di purezza, da esibire in cento altre trasmissioni.

1) Solo, ecco: si difenda un po’ meglio. Giovedì sera ha detto d’aver perso una querela con Previti, parole sue, «perché l’avvocato non è andato a presentare le mie prove». Colpa dell’avvocato.

2) Poi ha detto che una causa – persa col magistrato Filippo Verde – gli è andata male «perché il giudice ha capito» una cosa sbagliata. Colpa del giudice. Il quale, a dire il vero, nella sentenza ha scritto che Travaglio si era espresso «in maniera incompleta e sostanzialmente alterata». Ma questo non c’era bisogno di dirlo a Servizio Pubblico.

3) Però ha detto, Travaglio: «Avevo scritto che Confalonieri doveva vergognarsi di accusare la sinistra di voler espropriare Mediaset come a Piazzale Loreto», e questa semplicemente è stata ritenuta dal giudice «una critica eccessiva». Tutto qui. Agli amici di Servizio Pubblico non ha detto altre cose, però. Non ha detto che, secondo il giudice, lui – Travaglio – aveva dato per certe «ipotesi d’accusa non ancora accertate», che aveva riferito «illeciti non veritieri», che le notizie riferite da Travaglio «devono ritenersi non conformi al principio della verità e pertanto devono ritenersi sussistenti gli estremi del reato di diffamazione». Ops, scandalo, il giudice ha scritto «reato» nonostante fosse una causa civile. Un altro ignorante da segnare sul quadernino, Marco.

4) Poi Travaglio ha detto: «Ho scritto che Confaloinieri era imputato assieme a Berlusconi nel processo mediaset, ma non che era imputato per un altro reato. Il giudice ha capito che gli avessi detto che era imputato per lo stesso reato». Colpa del giudice.

5) Travaglio ha spiegato, poi, d’esser stato condannato per aver evocato «la metafora della muffa e del lombrico» riferita al presidente del Senato, Renato Schifani. Una metafora, ha detto il presunto collega, che era riferita eventualmente al successore di Schifani, non a Schifani. E però – ha detto agli amici di Servizio Pubblico – «il giudice o non ha capito o non ha apprezzato la battuta». Colpa del giudice. Non ha capito.

6) Travaglio ha poi riassunto nel seguente modo la condanna civile per causa della collega Susanna Petruni: «Una giornalista della Rai, berlusconiana di ferro, mi ha denunciato perché ho detto che è una berlusconiana di ferro. Dodicimila euro m’è costata». Eh no. Travaglio l’aveva definita «non obiettiva e asservita al potere della maggioranza di governo…», con episodi specifici di cronaca politica «narrati con evidente parzialità». Poteva dirlo.

7) Infine: Travaglio ha parlato di una condanna (penale, ma prescritta) elargita «perché avevo riassunto troppo un verbale di ottanta pagine in una pagina dell’Espresso… bastava che Previti mi mandasse una rettifica… ». Fine. E così non ha sentito il bisogno di riferire, ai gonzi di Servizio Pubblico, le parole utilizzate dal giudice: «Accostamento insinuante», «omissione evidente», «significato stravolto», «distorta rappresentazione del fatto… al precipuo scopo di insinuare sospetti sull’effettivo ruolo svolto da Previti». Questo in primo grado. In Appello: «È appena il caso di ribadire la portata diffamatoria!, «vi è prova del dolo da parte del Travaglio». Prova. Dolo. Travaglio.

Filippo Facci

Giornalista e scrittore, lavora a Libero, ha collaborato con il Foglio, il Riformista e Grazia. È autore di Di Pietro, La storia vera