Sei ragioni per cui era meglio non ammazzarlo

Penso che l’uccisione di Bin Laden sia stata un errore, e questo per ragioni che mi paiono molto razionali e poco morali.

Primo. Essere contrari alla pena di morte non c’entra nulla, il blitz è stata un’azione di guerra come lo fu l’attacco dell’11 settembre; in guerra vale perciò la legge marziale, ma catturare prigionieri è ampiamente previsto e non soltanto per rispettare qualche convenzione umanitaria, ma per cinico calcolo. Nulla avrebbe impedito di poter comminare un’esecuzione in un secondo momento, voglio dire.

Secondo. Un bin Laden annichilito, e come tale esibito al mondo, nel tempo avrebbe spazzato via ogni velleitaria leggenda circa la sua effettiva cattura: ogni video o immagine di cadavere potrà sempre essere spacciata come falsa – soprattutto da gente disposta a credere che l’11 settembre sia stato un bluff – mentre l’esposizione di un corpo vivo, e vivido nello sguardo, lascia spazio a meno interpretazioni e rappresenta un certo contraccolpo psicologico. Vero è che in pochi protestarono quando fu umpiccato Saddam Hussein, nessuno tuttavia ebbe dubbi sul fatto che quel tiranno trasfigurato fosse comunque lui.

Terzo. L’evenienza che una sepoltura ordinaria potesse trasformare la tomba di bin Laden in un santuario, possibile meta di pellegrinaggi e martirologi, mi pare un falso problema. Qualsiasi genere di esequia avrebbe sollevato polemiche: ergo, tanto valeva, la sepoltura in mare, differirla. Nulla avrebbe impedito di poter tumulare bin Laden – sempre in mare, all’occorrenza – in una data successiva. Senza contare l’opportunità di spargere le sue ceneri nel vento, come gli israeliani hanno fatto coi criminali nazisti.

Quarto. Gli Stati Uniti avrebbero potuto processare bin Laden con una corte marziale, non incorrendo così nei rischi mediatici di un tribunale internazionale tipo quello per i crimini contro l’umanità. Un processo è comunque un processo, e la nazione uscita macchiata dagli scandali di Guantanamo di Abu Ghraib ne avrebbe comunque guadagnato in immagine, assieme a tutto l’Occidente.

Quinto. L’11 settembre è quello delle Twin towers, chiaro, ma ci sono anche i morti di Londra e di Madrid, oltre al terrore e alle conseguenze pratiche che tutto il mondo ha patito per anni: l’impressione che gli Stati Uniti al dunque facciano tutto ciò che vogliono, prima agendo e solo dopo informandoci – nonostante si abbia, anche noi, il nostro esercito coi nostri morti – resta difficile da scacciare.

Sesto, e volutamente ultimo. La pietas non c’entra, e della morte altrui, a quanto pare, fior di cristiani si possono rallegrare eccome. Resta che «noi» non siamo come loro – come i fondamentalisti islamici – e indubbiamente abbiamo perso un’occasione per dimostrarlo. L’espressione «vendetta» la lascerei ai fondamentalisti o ai film di Sergio Leone, e anche la «giustizia» di cui si parla non pare richiamarsi tanto a una giustizia retributiva, all’americana, laddove il male richiama il male, ma alla legge del taglione. In tal senso resta da spiegare perché siano state fatte fuori senza indugio – se ho capito bene – anche il figlio di bin Laden e forse la moglie, o una compagna.

In sintesi: bin Laden è morto, ma c’era gente che nel 2011 non sapeva più neppure che fosse vivo. Sette o otto anni fa la sua uccisione avrebbe avuto tutt’altro impatto e giustificazione, perché c’era una buona fetta di mondo che era infiammata e dalla sua parte. Oggi le cose sono indubbiamente cambiate, e per uccidere Bin Laden, per qualche giorno o per qualche mese, mediaticamente parlando, era necessario farlo rivivere. Almeno per un po’.

Filippo Facci

Giornalista e scrittore, lavora a Libero, ha collaborato con il Foglio, il Riformista e Grazia. È autore di Di Pietro, La storia vera