Le complicazioni dell’agricoltura reale, spiegate

Fame e malattie e carestie hanno rovinato, con sadico puntiglio, la vita ai nostri antenati. Gli storici dell’agricoltura insistono su alcuni problemi di natura tecnica/agronomica, durati millenni. Per esempio: a) persistenza del maggese. Se da una parte la coltivazione regolare accresce le produzioni dall’altra il terreno tende a esaurirsi rapidamente. Per risolvere il conflitto e ottenere racconti adeguati si doveva seminare su un nuovo pezzo di terra e lasciare incolto (a maggese) quello vecchio. Il maggese fu la soluzione trovata per rispondere al suddetto conflitto. Appunto, una soluzione durata millenni, almeno fino ai primi dell’ottocento.

Quanto terreno veniva lasciato a maggese (e dunque di quanto si abbassava la produzione) era una variabile che dipendeva dalla densità della popolazione e dalla disponibilità di terre. Giusto un esempio da Tim Blanning, L’età della gloria, storia d’Europa dal 1648 al 1815 (capitolo IV l’agricoltura e il mondo rurale): “In Finlandia la presenza di ampie foreste (e bassa densità demografica) permetteva un sorta di rotazione quadriennale (per tre anni i terreni erano a maggese e si raccoglieva solo in quarto anno). Il primo anno gli alberi venivano scortecciati e fatti seccare. Il secondo anno bruciati e lasciati sul posto così che le ceneri venissero assorbite dal terreno e fertilizzassero lo stesso durante il terzo anno e dunque, al quarto anno, si seminava, ottenendo una resa pari a 10/20 volte il seme (giusto per chiarire, oggi il rapporto è 80 a 1 per i cereali).

Chi di noi oggi approverebbe questa antica, tradizionale tecnica agronomica? Né i fanatici delle rese produttive né i fanatici dell’agricoltura di sussistenza. Altri fattori: b) assenza di agrofarmaci e concimi; c) blando miglioramento genetico e d) scarsa conoscenza della fisiologia vegetale. Altri problemi erano di carattere economico: i contadini erano soggetti a tassazioni e vessazioni varie e non trovavano conveniente produrre solo per il re o l’imperatore. E comunque, solo a partire dai primi anni del ‘900 la resa media comincia a crescere. Quello è il secolo meraviglioso, per dirla alla Fogel (premio Nobel per l’economia), il secolo durante il quale abbiamo sconfitto la fame e la malattia. Fuga dalla fame. Europa, America e Terzo Mondo (1700-2100) di Robert Fogel è un libro importante, racconta come, attraverso quali strumenti, scoperte e innovazioni, abbiamo sconfitto le tre parole che hanno funestato il mondo per gran parte della sua storia: fame, carestia e malattie.

C’è uno stretto rapporto tra buona qualità dell’alimentazione e generale prosperità di una società. Gli studi Fogel lo sottolineano più volte, l’innovazione tecnologia e la crescita demografia sono infatti fenomeni recentissimi, tutto inizia quando siamo passati da Pinocchio (il racconto della fame) a Masterchef (il racconto dell’abbondanza). Ma allo stesso tempo è da ingenui cantare vittoria. A parte che le diseguaglianze (economiche e alimentari), ci sono anche nel paese di bengodi. Giusto un inciso. Sembra incredibile ma a leggere gli studi dell’epistemologo Michael Marmot si apprende che a Londra chi abita nella zona di Oxford Circus può sperare di arrivare in media fino a 96 anni di età. Eppure a ogni fermata di metropolitana più in là, andando verso le aree suburbane, procedendo lungo la Jubilee line, da Westminster verso est, l’aspettativa di vita cala di un anno a ogni fermata. Gli studi di Sir Marmot sono tecnici, ma ciascuno di noi con un semplice sguardo empirico può confermali. Abito a Monteverde, un buon quartiere, ma in zona bassa, popolare. La mattina da via di Donna Olimpia (dove abito) vedo scendere di corsa il ceto medio/alto di Monteverde vecchio: corrono in direzione villa Doria Pamphilij, in buona salute, magri e tonici. Al bar sotto casa, invece, arrivano quelli delle case popolari, alcuni fortemente obesi. Tanto che l’immagine ricorrente è una donna obesa, con sigaretta in bocca seduta su una sedia, il figlio obeso sulla gambe, immobili guardano lo schermo su cui scorrono i numeri del lotto. Intanto i runner tonici sfilano accanto a lei. A parte questo aspetto (qualità dell’alimentazione e stili di vita) c’è da dire che la fuga dalla fame comporta nuovi costi che bisogna, con strumenti nuovi, imparare a gestire. Le soluzioni non si fanno attendere e tuttavia sarebbe importante prima di schierarsi per un’agricoltura o per un’altra, insomma, prima di parlare di schemi di calcio, capire come funziona l’agricoltura: quanto è grande il campo, quanti giocatori giocano ecc. Cose basilari e tecniche insomma. Altrove è difficile trattare le cose tecniche, ma qui siamo, per fortuna, sul post. Allora, è il turno di Alberto Guidorzi, agronomo con un ricco bagaglio tecnico maturato sul campo e una approfondita conoscenza dell’agricoltura reale, sia quella di una volta (a cui ha dedicato dei bei libri) sia quella odierna.

Secondo te quante agricolture esistono?

Ne esiste una sola ed è quella che – seppure con derive, man mano corrette per la verità – ha dato da mangiare a 4,5 miliardi di persone, quelle che si sono aggiunte ai 3 miliardi del 1950. Certo vi è ancora gente che ha fame, seppure meno (216 milioni dal 1990 a oggi e ora siamo sui 795 milioni secondo la FAO). Tuttavia vi è da aggiungere che questi hanno fame non perché manchi il cibo in assoluto, ma solo per ragioni geopolitiche di cattiva distribuzione…

Però aspe’… cominciamo bene, ha parlato subito parlato di derive, cioè?

Vi è stato un periodo in cui in agricoltura il rapporto costi/benefici era nettamente a vantaggio dei benefici.

Un periodo fortunato?

No, un periodo drogato. Sappiamo che all’inizio la CE ha impostato una PAC fondata su incentivi al fine di aumentare la produzione perché si voleva far raggiungere alla Comunità nel suo insieme l’autosufficienza alimentare. Solo che a quei tempi non era ancora intervenuta la crisi energetica e i costi in agricoltura erano molto più bassi e quindi l’intensificazione colturale poteva seguire altre regole economiche. La CE però non si è fermata all’autosufficienza, ma ha finanziato anche i surplus produttivi con la conseguenza poi di dover pagare ulteriormente per venderli sui mercati esteri, notoriamente con prezzi più bassi di quelli interni. Ecco, le derive ci sono state in questi anni perché la produzione delle unità marginali, cioè quelle in cui i costi eguagliavano o superavano i prezzi di vendita, non rappresentavano un limite in quanto comunque si riceveva l’aiuto PAC anche per queste unità produttive.

Gli aiuti alla produzione hanno drogato l’agricoltura?

Sì. L’agricoltura e anche l’opinione pubblica. L’agricoltura perché gli agronomi erano ubriacati dalle superproduzioni ottenibili e dai costi bassi (l’agronomo in campagna era diventato un taumaturgo). È da questa ebbrezza produttiva che sono derivati gli eccessi di concimazione, gli eccessi nell’uso di fitofarmaci non proprio rispettosi dell’ambiente e l’uso scriteriato della meccanizzazione (si comprava un nuovo trattore per non dover attaccare e staccare l’attrezzo operativo). Anche l’opinione pubblica viveva tempi acritici, prima di tutto perché non s’interessava a ciò che avveniva nelle campagne, ed in secondo luogo perché era obnubilata dall’abbondanza di cibo e da costi sempre più accessibili per l’aumento delle disponibilità economiche.

Ma in che anni, secondo te, si è andati in rehab, diciamo così?

Tra gli anni ‘70 e ‘80 Dopo si è cominciato a capire che i fitofarmaci (nonché il dosaggio) dovevano essere usati in base alla reale presenza del parassita (o a seconda del loro tasso di presenza) nell’ambiente circostante o delle condizioni ambientali che ne favorivano lo sviluppo. Iniziò la ricerca del dosaggio più ecocompatibile, nella scelta nell’uso del fitofarmaco di ultima generazione e studiato per avere meno derive. Interessantissimo sarebbe ripercorrere l’evoluzione positiva dei principi attivi dei fitofarmaci (negli anni 50 si usava arseniato di piombo e estratto di nicotina per uccidere i parassiti, l’aspirante suicida aveva in casa l’arma per suicidarsi….).

La riabilitazione interessa solo la chimica?

No, anche altre pratiche agronomiche. Si è cominciato a discutere sulla monocultura, si è detto che era insostenibile e che il ritorno alle rotazioni il più lunghe possibili era necessario. Ancora: la leguminosa non poteva essere esclusa dagli avvicendamenti, sebbene non fosse più necessaria per alimentare il bestiame (le stalle venivano dismesse). Le concimazioni poi: non potevano più seguire il principio: “se uno fa bene, due fa bene il doppio”. Si doveva ritornare al principio di reintegrare quello che era stato asportato realmente dalla coltura precedente. L’analisi chimica periodica dei terreni doveva essere la guida. Soprattutto per l’azoto, i cui effetti produttivi tanto avevano impressionato, doveva essere somministrato facendo un bilancio preventivo dei bisogni esterni dedotto ciò che era rimasto disponibile nel terreno, possibilmente distribuirli su una coltura in atto e nei limiti del possibile rateizzandolo lungo il ciclo biologico delle piante coltivate.

Quindi quando muoviamo delle critiche all’agricoltura odierna in realtà ci riferiamo a un’agricoltura vecchia di 30 anni?

È così. Per esempio nessuno oggi informa l’opinione pubblica di quali sono i traguardi raggiunti in fatto di livello di tossicità dei fitofarmaci sia verso l’uomo che verso la fauna non bersaglio, si tratta di progressi enormi. Oggi si grida ai residui dei fitofarmaci nel cibo, ma si sottace di dire che negli anni 60/70 non si misuravano, ma c’erano eccome, negli anni 80/90 si riusciva a svelare una parte per milione mentre attualmente siamo a livello di una parte per miliardo. Per forza che il numero di residui aumenta, ma non aumenta la quantità, anzi diminuisce. Sembra che Paracelso non sia mai nato… eppure le statistiche ci dicono che il 97% del campioni di alimenti analizzati hanno residui ben al di sotto della LMR (Limite Massimo, ampiamente cautelativo, dei Residui). Si conoscono i progressi fatti nelle medicine per l’uomo e si applaude, anzi si esagera nel farne uso, mentre si colpevolizza senza riflessione opportuna la fitofarmacia attuale e si tacciano gli agricoltori di essere degli avvelenatori del prossimo. Una riprova che ciò che si legge è falso? Gli agricoltori dovrebbero essere più a rischio in quanto manipolatori di fitofarmaci, ebbene, inchieste epidemiologiche ci dicono che gli agricoltori sono meno affetti da tumori degli inurbati.

Senti, una parentesi, a proposito di monocoltura, mi togli una curiosità, perché si parla male della monocoltura di mais e di soia, per esempio, e nessuno si lamenta della monocoltura degli olivi o della vite o del melo o del pero ecc. Siamo più propensi a parlare con orgoglio degli olivi secolari, delle colline coltivate a vite ecc.? C’è una monocoltura nobile e una meno nobile?

Prima di tutto gli alberi dei frutteti in generale sono più radi e le radici esplorano strati molto più profondi, mentre una monocoltura di mais o di soia esplora un piccolo strato di terreno. Altro aspetto è la concorrenza con le infestanti che è molto più sentita dalle piante erbacee che non dalle piante arboree. Inoltre le malattie crittogamiche o gli insetti parassiti immobili hanno più capacità di espandersi in seminativi fitti che in seminativi radi. Tuttavia anche nelle coltivazioni arboree si sta assistendo a fenomeni di intensificazione, si pensi alla coltura superintensiva dell’olivo (160.00 piante per ettaro) e dei frutteti. Sicuramente quelle piante di olivo non diverranno secolari….

Ne approfitto, altra parentesi, a proposito di agricoltura intensiva, si sente dire spesso: i concimi impoveriscono il terreno. Tra l’altro, una piccola nota tecnica, spesso in questi discorsi noto che si confonde il (preciso) fenomeno della stanchezza del terreno con un vago concetto di sterilità dovuta all’agricoltura intensiva e industriale. Che ne pensi?

Qualcosa di vero poteva esserci quando i terreni avevano di per sé pH anomali, condizione che poteva essere aggravate da concimi fisiologicamente acidi o alcalini. Ora questo non capita più perché si usano concimi neutri e quindi l’accusa è scientificamente infondata. Anzi, al contrario, i concimi arricchiscono i terreni. Diverso è il fenomeno di salinizzazione dei suoli, ma qui è l’irrigazione chiamata in causa la quale apporta sali e fa rimontare in superficie altri sali. Si può correggere il fenomeno usando acque meno saline e applicando sistemi di irrigazione meno impattanti (goccia a goccia) che comportano il risparmio d’acqua o limitano gli apporti di sali. Sul pianeta nei paesi più popolati e con poca terra la superficie di questi terreni aumenta. Per questo si pensa di usare le biotecnologie genetiche per rimettere in produzione queste terre! Esistono piante alofite (es. orzo, la bietola stessa ed altre come la salsola e la salicornia) si tratta di prelevare questi geni e trasferirli nelle piante coltivate con i mezzi che ci sono consentiti (incroci, cisgenesi, transgenesi e biotecnologie di ultima generazione) . Ambientalisti permettendo!

Comunque, tornando a noi, l’agricoltura dopo la riabilitazione ha dei nuovi orientamenti tecnici/agronomici?

Si, diciamo che si concorda su tre punti, ma come spesso accade l’attuazione dei singoli punti presenta complicazioni tecniche varie…

Vediamo dai…siamo sul Post, le questione tecniche sono ben accette.

Punto 1°: occorre fare delle rotazioni lunghe. Per farlo è necessario introdurre coltivazioni che non hanno lo stesso reddito di altre e così facendo però si incide sul reddito agricolo immediato. Conclusione? La rotazione lunga è sopportabile solo da chi a) ha un’adeguata superficie da coltivare, non certo gli otto ettari della media aziendale italiana; b) da chi ha un bagaglio tecnico per far produrre al massimo delle potenzialità tutte le specie in rotazione.

Ok, due e tre?

Punto 2° Occorre limitare le lavorazioni dei terreni per salvaguardare la sostanza organica, non si può andare a girare “in mezzo alla terra” solo perché si ha un trattore con una cabina climatizzata e dotata di musica stereo (certo a questo riguardo sono ben conscio della diversa pedologia dei terreni e quindi il principio suindicato deve essere valutato a priori). Punto 3° legato al punto 2 (cioè salvaguardare la sostanza organica): occorre produrre biomassa da interrare per rifare la sostanza organica visto che ormai le aziende agro zootecniche sono una rarità e la zootecnia specializzata ha contatti con il terreno agricolo solo per spandere liquami. Detto questo la complicazione maggiore è fare in modo che i suddetti punti siano praticabili e per essere praticabili è necessario avere agricoltori di nuova generazione. Significa non solo accedere al poderino del nonno, ma devono potere utilizzare le terre in proprietà di chi per campare non fa l’agricoltore. Certo non intendo promuovere l’esproprio, si tratta solo di rendere accessibile l’affitto al coltivatore e assicurare il proprietario che il diritto alla proprietà è assicurato. Perché non posso fare il notaio se non sono iscritto all’albo, mentre il notaio può anche fare l’agricoltore, nel senso di far condurre a suo nome il terreno da un contoterzista? Quello che preoccupa è che le capacità professionali di chi è rimasto in agricoltura o perché è vecchio o perché ha un concetto non imprenditoriale dell’agricoltura. Ecco questi sono refrattari alle innovazioni o ne cercano di strane e soprattutto non si sono resi conto che con la moneta unica l’agricoltura non è più nazionale ma europea quest’ultima deve confrontarsi con mercati globalizzati.

Ok, altra curiosità: tu dici che esiste una sola agricoltura, che se fatta bene, con i crismi tecnici/economici/ agronomici è attenta all’ambiente, sostenibile e soprattutto fornisce buon cibo: del resto siamo nel paese di Masterchef. Mi chiedo allora cosa sono queste nuove tipologie di agricoltura, bio, biodinamica, permacultura ecc.?

Il consumatore non ha più nessun rapporto con l’agricoltura e ha perso le radici contadine, si è convinto che il cibo lo avveleni, ma nello stesso tempo non segue i principi dietetici. In questo è spinto anche dai numerosi venditori di paure che popolano i media perché tanto fanno ascolto. Il ciarlatano è ascoltato mentre il ricercatore serio no, è il risultato di 70 anni di bengodi che, però potrebbe anche non durare. È inconcepibile oggi che gli scaffali dei supermercati alimentari posano restare vuoti. Queste idee sbagliate il consumatore le ha trasformate in domanda e quindi vi è stato qualcuno che ha pensato bene di rispondere sì alla domanda, ma anche di affibbiare ai suoi prodotti dei plus valori “narrativi”. Infatti il consumatore si sta nutrendo più di ideologia (visto che è rimasto orfano di alcune) che di scienza applicata all’alimentazione. Alla politica l’ideologia ha sempre fatto comodo, anzi ha capito che assecondandola si guadagnano voti e allora si incentivano forme di agricoltura che producono di meno senza offrire nessun vantaggio al consumatore. Oppure diventano esoteriche come la biodinamica. La permacoltura è un ritorno all’autoconsumo perché più di tanto non produce, oppure si inventa che la musica scelta “oculatamente” scaccia i parassiti e quindi i fitofarmaci sono inutili e la si chiama “agricoltura genodica”.

La genodica mi è nuova…ma a proposito, tu hai scritto molto su alcune contraddizioni in campo agricolo, soprattutto sul bio.

Soffermiamoci solo sull’agricoltura biologica o organica che dir si voglia (ambedue i termini, però, sono impropri). Uno dei pilastri è la concimazione organica e non di sintesi. Purtroppo la prevista autoproduzione non sempre è possibile, spesso il letame si acquista fuori, si chiama compost. Se si prende un vecchio manuale di coltivazione erbacee si può leggere che al mais si deve dare dai 200/400 q di letame, sulla bietola 200/250, alla canapa quando si coltivava 400/450, mentre sui cereali non si distribuiva letame, ma approfittavano della cosiddetta “forza vecchia” delle letamazioni fatte alle coltivazioni suddette, appunto: da rinnovo. Senza dimenticare che l’erba medica era in rotazione e durava almeno 3/4 anni. Ebbene negli stessi manuali però si legge che occorreva integrare con concimi (allora semplici) se si volevano produrre 30 q/ha di granoturco, 300 q/ha di bietole e ricavare 25/30 q/ha di frumento. Ebbene ora si vuol far credere che senza arrivare ai quantitativi di letame predetti e senza integrazioni di concimi di sintesi il biologico riuscirà a sfamare il mondo. L’affermazione è destituita di ogni fondamento! Poi ci sarebbe la questione degli agrofarmaci naturali che naturali non sono.

Vuoi dire che non si tiene conto di come vengono prodotti gli agrofarmaci naturali?
Sì, il rame e lo zolfo sono prodotti con sintesi chimica in stabilimenti appositi (solfato di rame) o sono il prodotto di scarto della raffinazione del petrolio (zolfo). I “carusi” che nell’800 lavoravano nelle solfatare ed estraevano zolfo “naturalmente” non esistono più, per fortuna. Il mondo del biologico poi vende la presunta innocuità dei fitofarmaci biologici come un assioma, tanto è vero che ritiene inutile valutare i residui chimici presenti sulle loro derrate, sottacendo quindi che il rame è un metallo pesante che incide sulla floro-fauna del terreno, che l’olio di Neem è un potente perturbatore endocrino usato fino al 2012 e ancora sulla base di deroghe. Per dire, dalla pianta che lo contiene gli indiani ne ricavano un contraccettivo maschile.

Per fare il bio ci vuole la chimica…Però, scusa, c’è il piretro, cosa c’è di più naturale di quelle belle composite coltivate nei campi da cui si ricava il principio attivo?

Ecco, quello è il colmo. In effetti sì, le piretrine naturali sono ricavate da un crisantemo. Ma prendiamo il caso Kenia, uno dei paesi dove si coltiva il crisantemo. Capita che per proteggere la coltura (perché anche le colture bio si ammalano) si usano con metodi non biologici: agrofarmaci da noi proibiti da tempo per il loro grave impatto ambientale.

Fammi capire.
Il diserbo Spinosad usato in biologico è esattamente uguale al Calipso bandito dall’agricoltura biologica, il primo è un decotto delle pianta che produce il principio diserbante, mentre nel secondo vi è lo stesso principio attivo che era presente nell’essudato radicale solo copiato e prodotto per sintesi. In generale, il principio è sempre lo stesso, in natura esistono tante molecole più o meno efficaci (appunto, vedi il piretro) e tuttavia non tutte sono testate. Mentre nell’agricoltura convenzionale lo scopo è copiare dalla natura le molecole più efficaci, produrle per sintesi e dopo testarle: più sicuro. Se questo metodo di lavoro non piace, allora gli hard bio per coerenza dovrebbero eliminare tutte le medicine di sintesi: anche quelle sono copiate da molecole naturali (che ricordiamo hanno un riconosciuto ma blando effetto medicamentoso).

Visto che siamo in tema, ma per la pratica del diserbo? Se non si zappa diserbare è più complicato…

Ma chi l’ha detto che con il diserbo chimico si deve mettere in soffitta la zappa? Occorre usare l’uno e l’altro e a livello di diserbo chimico ruotare i diserbi. Ogni azione genera una reazione si dice in fisica, mentre in agronomia si dice che ogni pressione selettiva selezione piante resistenti alla pressione esercitata. Al diserbo chimico fatto con un principio attivo possono sfuggire certe erbe infestanti e ciò rientra nella norma e quindi è d’obbligo usare anche la zappa meccanica per eliminare proprio queste erbe sfuggenti ed anche per diminuire il numero di interventi chimici

Ma le superfici bio sono in aumento, o no?

Diciamo che le percentuali sbandierate del 5% e più di superficie, si riducono ad un 1% o 2% di superfici effettive producenti cibo biologico.

Non producono vero cibo?

Per la maggior parte si tratta di colture foraggere, i prati pascoli, i pascoli magri e gli incolti tra i quali superfici di oliveti, vigneti e aranceti. Solo in Italia le suddette superfici coprono più del 50% delle superfici certificate. Insomma, messa così, il 5 o 7% della superficie Europea incassa contributi suppletivi di denaro pubblico e solo un 1 o 2% risponde alla domanda dei consumatori di biologico. E poi non sappiamo ancora (perché non sono pubblicate le statistiche) a quanto effettivamente ammontano le rese per ettaro delle superfici bio.

E che ne dici del nuovo regolamento bio?

Con il nuovo regolamento si certificheranno come biologiche le coltivazioni fuori suolo, e anche quelle che arriveranno da quei paesi che hanno solo abbozzato un legge sul biologico. Quindi ciò che certificheranno questi paesi è automaticamente certificato anche da noi (equivalenza ope legis insomma). Poi cambierà anche l’obbligo dei controlli nelle aziende agricole biologiche: da una volta all’anno ad una volta ogni due anni. Domanda: cosa capita in queste aziende tra due controlli? Insomma il nuovo regolamento sembra fatto su misura per mettere a disposizione più merce certificata biologica ad unico vantaggio di chi è venditore, mentre il consumatore sembra diventare una variabile indipendente.

Senti, in conclusione, questa agricoltura del terzo millennio?

In conclusone alla base dell’agricoltura del terzo millennio il palmares spetta alla ricerca. Senza la ricerca non ci potrà essere agricoltura sostenibile.

Dove e su cosa si può lavorare?

Occorre fare più chiarezza nella fisiologia delle piante soprattutto a livello di assunzione degli elementi nutritivi. Si sa che le piante ne hanno bisogno di meno di quanto è a loro disposizione, e molti dei suddetti elementi non vengono assimilati: non conosciamo bene il perché. Il mondo delle simbiosi e delle micorrizie è tutto da svelare. Poi vi è il contributo delle genetica. Purtroppo i tempi del miglioramento vegetale non sono più consoni al ritmo demografico ed alle aspettative delle popolazioni sottosviluppate.

Cioè?

Ci vogliono molti anni prima di coltivare una pianta ottenuta da tecniche di miglioramento tradizionale (incrocio per esempio). E appunto, se fra 30/40 anni saremo in 10 miliardi sulla terra non si potrà attendere 10 anni per sfruttare una nuova varietà nata da un incrocio di 10 anni prima. E poi nelle piante coltivate la variabilità fenotipica è già stata usata tutta. Tuttavia, le scienze genomiche ci stanno svelando una variabilità nascosta o latente. Per sfruttarla occorre accettare nuovi sistemi di trasmissione dei geni, insomma dai, di smetterla con questa paura delle tecniche biotecnologiche. Ricerca pubblica e ricerca privata devono andare di pari passo, l’una deve aiutare e controllare l’altra e viceversa.

Ti piace l’agricoltura di precisione?

Sì, e spero si sviluppi ovunque. È necessario concimare e disinfestare solo le parti di un campo che ne hanno effettivo bisogno. L’occhio dell’uomo non è preciso, ma incrociando i dati di un satellite o di un drone possiamo vedere cose che sfuggono a occhio umano. Certo resta il problema di applicare l’agricoltura di precisione a un campo di soli 1000 o 10.000 metri quadrati! Comunque, non dimentichiamo che coltivare piante è fondamentale, oltre al cibo, l’agricoltura capta energia che andrebbe persa, ossia di notte si stocca CO2 e di giorno si produce ossigeno. Non c’è ettaro di foresta che capti altrettanta CO2 ed emetta altrettanto ossigeno di un ettaro coltivato, anzi un ettaro di bietola vale ormai tre ettari di foresta. L’agricoltura professionale non inquina e se non è professionale non è adottando agricolture che si affidano alle forze cosmiche che si risolve il problema, meglio promuovere la professionalità che sperare in quelli che fanno il mestiere di agricoltore senza saperlo fare.

Antonio Pascale

Antonio Pascale fa il giornalista e lo scrittore, vive a Roma. Scrive per il teatro e la radio. Collabora con il Mattino, lo Straniero e Limes. I suoi libri su IBS.