Papà, sei vecchio

E dire che stavo pure con due zaini a tracolla, pesantissimi (c’erano i pattini), nientemeno Marianna, che passeggiava davanti a me con una sua amica, libera dai pesi (al suo zaino ci pensavo io) si gira e mi dice: papà sei vecchio. Così, d’amblè. Macchè, ho risposto, se lo fossi, non porterei due zaini sulla schiena, per due chilometri, nemmeno un marine. Lei ha risposto che c’entra, poi lei e la sua amica hanno ripreso a confabulare, sui padri vecchi, evidentemente.

Mica ci rimango male? Ma no, tanto si sa che i ragazzini hanno un concetto molto particolare di età. Con gli amici ce lo diciamo sempre. Quindi, perché dar retta alle parole di mia figlia? Che poi è sempre Marianna che me lo dice. Brando no, anche perché se ci prova ci meniamo, vinco io, e gli passa la voglia.

Però poi, stranamente, a casa, mi sono messo a leggere un libro di Carlo Rovelli, Cos’è il tempo, cos’è lo spazio e ho cercato di studiare l’equazione di Bryce DeWitt che descrive uno spazio quantistico senza tempo, e ancora più stranamente, verso le 21, accampando una giustificazione del tipo: è bello correre per Monteverde la notte, mi sono fatto 6 chilometri, in 35 minuti circa, sfiorando 180 di pulsazioni al minuto. Con tutta la musica in cuffia sentivo distintamente il fiatone.

Almeno dormirò, mi sono detto, crollerò e sarà un bene, così mi dicevo, anche perché l’indomani dovevo prendere un aereo per Brindisi, 9.15, avevo già fatto 24 ore prima il web check-in, ma tanto sempre due ore prima sarei arrivato in aeroporto, è una questione di nevrosi – anche se dà una certa soddisfazione star seduto e guardare le persone che corrono per imbarcarsi.

E invece, sono sì crollato, ma ho sognato che le Brigate Rosse mi volevano rapire perché parlavo bene degli ogm e che quindi dovevo scappare, ma il cellulare segnava rosso, non c’era benzina. I classici sogni, il super io ti dice: attento, svegliati, perdi l’aereo. Ha funzionato, il mio super io, dico. Mi sarò svegliato dieci volte, tanto che alla fine alle cinque ero già in cucina. Caffè e alle sei prontissimo per uscire. Dormivano tutti, ho guardato Marianna: incredibile, dorme esattamente nella mia stessa posizione. Ma chissà perché nemmeno le ho dato un bacio per salutarla – di quelli mattutini, leggeri, così belli che ti restano tutto il giorno in mente e ti rendono più dolce, sensibile. E fragile anche.

In aeroporto, comodamente seduto, con il  terzo caffè in mano, ho osservato quelli che arrivavano in ritardo, tutti sbilenchi, si tiravano dietro il trolley, ah che soddisfazione! e mi sono venuti in mente vari pensieri sull’Italia: noi italiani non sappiamo anticipare gli eventi, non li prevediamo, sempre sull’onda del momento, ed eccoci qui, che corriamo per aggiustare le cose all’ultimo momento. Poi è arrivato  Roberto, mio collega, anche lui ispettore di calamità naturali in agricoltura (in due siamo, al Ministero), ma laziale però, quindi nervosissimo per il 4 a 0 con il Sien,a e i pensieri sull’Italia sono terminati. Partita perfetta, gli ho detto, per il Siena, intendo. Si è innervosito (sono permalosi i laziali) abbiamo discusso di calcio, quindi l’orizzonte si è, per così dire, ristretto. Inesorabilmente. Nel frattempo che si restringeva ho anche preso appuntamento con Claudio, un regista porno con il quale devo mettere su un progetto.

E ci siamo imbarcati. Calamità naturali. Piogge in Puglia. Poco prima di spegnere mi è arrivato un sms di Marianna: papo, nemmeno mi hai salutato. Ah ah, ho pensato, lo vedi le donne? Prendi una donna trattala male, ecc ecc. Al che – non so perché, d’altronde mica m’ero offeso – ho risposto: non potevo chinarmi per un bacio, sono troppo vecchio e ho la schiena a pezzi, mi dispiace. E lei, velocissimamente, una cosa incredibile, sarà per il cellulare touch scren: papo ti offendi? sei proprio vecchio, allora. Ho spento. E che cazzo.

La legge che regola le calamità naturali in agricoltura è ben fatta, segno che quando ci mettiamo e ci concentriamo con competenza, le cose le sappiamo fare. In sintesi, si sostiene che possiamo dichiarare lo stato di calamità (le Regioni stimano il danno, il superiore Ministero approva) se viene dimostrato che le opere danneggiate (per esempio, strade interpoderali, opere di bonifica) erano in buono stato di salute. E per essere in buono ed efficiente stato vuol dire quelle opere erano ben mantenute. Incredibile – per noi italiani, così teatrali e creativi, così made in Italy – ma il legislatore ha ritenuto opportuno inserire e insistere su un concetto veramente banale e poco romantico: la manutenzione. Se, infatti, un’opera è ben mantenuta, senza crepe, avvallamenti, buche e altro, allora una pioggia, anche intensa non può provocare danni. La strada resiste, la canaletta tiene. Solo se la pioggia è eccezionale, solo se supera ogni limite, solo allora interveniamo noi, noi, nel senso del superiore Ministero, e concediamo i contribuiti. Non fa una crepa, cioè una piega.

Ora io e Roberto siamo gli unici due ispettori ministeriali su tutto il territorio, dunque giriamo l’Italia (potrei scrivere una dettagliatissima e onesta guida sugli alberghi a tre stelle e suoi ristoranti italiani, non slow food, si intende, di questi ne parlano tutti. Quasi quasi se il blocco romanzesco dovesse continuare ci faccio un pensiero) e, per questo, possiamo affermare che in Italia nessuno pratica l’elementare opera di manutenzione. Non per incuria, no:  non ci sono soldi. Non rientra nelle priorità. Quando incontriamo i tecnici regionali si instaura un meccanismo del tipo lo so che tu sai che io so. Lo so che tu adesso mi dici che le opere erano in buona manutenzione, ma tu sai che io so che non ci credo. Però me lo devi dire lo stesso: e facciamo ‘sto giochetto. Mica è colpa dei tecnici. Al contrario, sono tutti bravissimi, molto competenti, ma del resto se i soldi non ci sono… come la fanno questa manutenzione ordinaria?

Che cosa succede? Oltre al meccanismo suddetto l’evoluzione culturale ha reso adattativa un’altra dinamica: i tecnici sono portati a usare la retorica narrativa per convincerci che la pioggia è stata eccezionale. Dottò, cadeva tanta di quell’acqua che i vecchi non si ricordavano una pioggia così. Naturalmente torni dopo un mese su quel territorio, per un’altra calamità, e quelli ti dicono: dottò, cadeva tanta di quell’acqua… che i vecchi…Anche se ci sono i dati meteo che testimoniano che so l’ordinarietà della pioggia, si gioca a interpretare: è vero, dai dati meteo sembra una pioggia non abbondante, ma l’orografia del territorio, la concomitanza di più fattori, le aggravanti ecc, insomma, nemmeno i vecchi si ricordavano una pioggia così,  oppure, secondo Roberto, più prosaico, la super cazzola…

È un gioco retorico, capito come? Melodrammatico. Ci viene pure bene. La colpa è sempre di un nemico esterno, in questo caso la pioggia, il cambiamento climatico, un ciclone imprevedibile, così forte e subdolo da lasciarci spauriti e indifesi. E invece, a volte basterebbe sistemare una canaletta di bonifica. Ma non ci sono soldi, e allora.

Fatto sta che a forza di giocare e alzare il tono, il meccanismo si deve essere incancrenito e diffuso organicamente, quindi, e non solo per la ristretta questione calamità in agricoltura, in Italia, assistiamo di continuo a un ragionamento complottistico, vittimistico e con quelle tipiche dinamiche dei fautori del complotto: salti associativi e imprecisioni costanti, insomma fallace argomentative. E a forza di giocare, chi più, chi meno, abbiamo assunto l’abito della vittima o del carnefice, quindi, con vari gradi di responsabilità, questo modo di ragionare è diventato un pilastro italiano, un’altra forma di made in Italy.

Bene, girando e rigirando per il Salento, per controllare i danni, discutendo con i tecnici del quantitativo di pioggia che nemmeno i vecchi si ricordavano così, sono capitato in uno di quei bellissimi oliveti, tipicamente salentini. Ce n’era uno commovente. Gli alberi erano decennali, alti, nodosi. Ci si poteva stare sotto, comodamente seduti. Per non parlare dei muretti a secco, quale migliore sintonia, bianco e verde, fusto nodoso e roccia calcarea. Una commozione.

Ah, e ora viene la parte infame: quegli olivi non servivano a produrre olive. La nostra olivicoltura è in crisi, mi ha detto Bruno, un collega. E ci credo, ho risposto. Lo so che è un argomento tecnico, però stavo in campagna, con colleghi, quindi di cosa si può parlare in Salento? Di olivicoltura, no?  Non è così ristretto, l’argomento. Del resto, pochi giorni prima, il 23 dicembre, Repubblica, aveva messo su un’inchiesta sull’olio di oliva. Paolo Berizzi, basandosi su dati Coldiretti e Unaprol, denunciava una truffa, come dire, olio taroccato che viene da fuori, di cattiva qualità e miscelato alla men peggio. L’80% delle bottiglie vendute in Italia contiene olio di diversa origine.

Però i non addetti ai lavori, che leggono come me Repubblica, non sanno che ogni volta che il giornale parla di questioni legate all’agroalimentare e al settore energetico, i tecnici e gli specialisti dei rispettivi settori reagiscono molto male. Anzi, si fanno afferrare per pazzi. Nei siti specializzati alzano la voce contro Repubblica, accusano gli editorialisti di incompetenza. Ma come è possibile che un giornale progressista, ecc. ecc.? Anche questa volta stessa storia. Sul Fatto alimentare, Roberto la Pira, incuriosito, aveva chiesto a Unaprol Coldiretti i documenti originali, così per poterli esaminare nello specifico e le due associazioni si erano rifiutati di darglieli: “analisi riservate oggetto di indagine da non divulgare”. Ma allora? Se non possono essere rivisti alla pari, che valore scientifico hanno questi dati? La Pira nel suo contro articolo faceva un sacco di precisazioni e di distinguo, da tecnico naturalmente, e concludeva “il giornalismo investigativo è uno strumento importante ne nostro mestiere ma bisogna imparare a distinguere la grandi inchieste dalle piccole bufale”.

Ora, come è e come non è, truffa o bufala, una cosa pensavo sotto questi meravigliosi olivi salentini: siamo vecchi  e per questo siamo in crisi. A forza di parlare delle calamità in arrivo il futuro ci deve essere apparso una calamità. Così, siamo deboli e fragili e accusiamo qualcun altro della nostra sventura: il gioco della calamità. Qualcuno o qualcosa rovina il nostro territorio, per difenderci è necessario gridare con forza la nostra purezza e condannare le impurità altrui, stringiamci a coorte. Con quale scopo? Una richiesta, naturalmente: dateci contributi o strumenti legislativi per difendere il nostro territorio (puro e tradizionale) contro i nemici esterni. Perché mai a memoria d’uomo si ricordano nemici esterni così virulenti.

Però mi sono molto rilassato, per un attimo, lontano dalle nevrosi, non dico che ho appoggiato le teoria sulla decrescita felice o sull’abbondanza frugale, ma ci stavo vicino.  Mi sono dimenticato delle calamità. Sono belli questi oliveti, che pace tra una chioma e un’altra. Le piante hanno un sesto di impianto così ampio che ci si poteva passeggiare. In effetti non sarebbe una cattiva idea, per esempio fare una lezione, stile peripatetici, sulla storia dell’olivo dalla Grecia alla Roma antica, belli comodi, sistemati sotto gli olivi. Ma comodamente seduto un pensiero tira l’altro e insomma, il relax è durato poco: la verità è sempre quella: con queste piante si può far tutto, tranne l’olio. È impossibile, non possiamo competere con la Spagna, la California, il Sud Africa, la Nuova Zelanda. Un paradosso: olivi che non producono olio, ma l’immagine dell’olio. Allora a che servono questi oliveti? Quali interessi coprono? Non certo quelli produttivi, quelli turistici: ecco quelli sì. O quelli del marketing: meglio ancora. Qui vengono tutti a girare le pubblicità, contadini con il cappello di paglia e donne con i vestiti a fiori che raccolgono le olive. Tutto virtuale, peccato. Perché a raccogliere le poche olive ci pensano gli extracomunitari. Li puoi pagare bene? Gli puoi garantire i diritti elementari? Nemmeno per idea. Anzi scatta nei loro confronti un gioco più crudele. Siccome dei fantomaci altri hanno rovinato le nostre produzioni, ora noi roviniamo loro. Quindi lavorate, obbedite e non protestate, e godetevi gli spiccioli che vi elargiamo.

Soluzione? Visto che questi oliveti sono improduttivi, togliamoli di mezzo e impiantiamone altri più produttivi. Ebbene, non si può. Ci sono delle norme che a tutela del paesaggio vietano l’espianto delle colture tradizionali, come gli oliveti. Ma se non producono? E se non producono diamo la colpa agli agenti atmosferici esterni, tanto il gioco lo sappiamo fare bene. Tra l’altro questa legge serviva a tutelare l’investimento non il paesaggio. Allora, aveva un sacco di buone ragioni dalla propria. Siccome ai vecchi tempi per entrare stabilmente in produzione una pianta di olivo aveva bisogno di 10/15 anni, quella norma serviva a preservare l’investimento dei padri da eventuali dinamiche speculative sui prezzi dell’olio. Calava il prezzo e l’agricoltore era soggetto a tentazioni: taglio la pianta. Si rischiava così un danno economico sul lungo periodo. Mica scemo il legislatore, quando noi italiani ci mettiamo con competenza, beh, ci sappiamo fare. Ma ora che grazie ai potenti mezzi messi a disposizione dall’ingegno umano, dopo tre anni un olivo va in produzione? A che serve più quella legge? Olivicoltura paesaggistica, questa è la riposta. Ma costa: se in Toscana il prezzo dell’olio scende sotto i 6-7 euro al Kg l’agricoltore ci rimette. Non gli conviene più, deve abbassare i costi, non concima, non pota, niente difesa fitosanitaria. e paga pochissimo quelli che raccolgono.

Così sotto gli olivi la questione della vecchiaia portata avanti da quella simpaticona allegrona di mia figlia, mi è tornata in mente: ma mica, comodamente seduti nei paesaggi tradizionali, stiamo invecchiando? Come gli oliveti? Siamo italiani tradizionali: bei paesaggi, ma statici e non dinamici, tradizione, vecchi miti, parole magiche che ci consolano, su queste viviamo di rendita. Manutenzione? Niente. Troppo poco creativa, noi siamo quelli poetici, che tessiamo i capelli come trame di un canto, siamo oltre, siamo nel passato, non ci sporchiamo con le revisioni e le integrazioni. E quelle cose lì richiedono un bilancio, un’analisi costi benefici, autoterapia, cose faticose, non è meglio semplificare? Dar la colpa al clima, una pioggia, un’esagerazione retorica e via? Restiamo fermi, dai, nella fantastica tradizione italiana. E invece, altrove, ci sono impianti di olivi con 1600 piante ettaro. E sapete chi raccoglie? Due persone sole.

Una macchina bellissima passa tra i filari, li scuote, raccoglie le olive su un nastro trasportatore che li scarica su un trattore con rimorchio, questo, a sua volta guidato da un uomo, mezzo annoiato. Due persone. Come competiamo? Diciamo: vuoi mettere le olive raccolte  a mano? Che qualità. Eh no, troppo facile, troppo italiano, le olive spagnole sono buone, proprio perché raccolte meccanicamente. Ci sono i dati a confermarlo: fate le analisi e vedete. Del resto una macchina siffatta richiede l’integrazione di più saperi, ci vuole l’agronomo che stima la durezza della drupa, l’ingegnere che studia la velocità delle spatole che scuotono la pianta (troppo forte si rovina la drupa, troppo piano non si stacca). Ci vuole il genetista capace di realizzare una pianta funzionale a quel tipo di macchina, ci vogliono persone capace di comunicare, di integrare saperi e conoscenza,  e del resto senza innovazione non c’è benessere, ma noi, io e Roberto, ora siamo qui, in aeroporto, stiamo a discutere su Lazio e Napoli – lui sostiene che De Sanctis non ha esultato al quarto gol di Cavani sul Lecce, strano no, per niente dico io, e sono fioccate per tutto il viaggio tesi di svariate complotti.

Sono arrivato a casa che dormivano tutti, uno stress, tutto in un giorno, andata e ritorno, non ci sono soldi per le missioni, devi arrangiarti, e però ho svegliato Marianna: amore, principessa di paàa, guarda questo video sulla raccolta dell’olivo. Ma che sei pazzo? mi ha detto, ho sonno, guarda, ho insistito, così capisci la differenza tra le cose vecchie e quelle moderne, così raccogliamo noi, vedi? con reti e extracomunitari sfruttati, così raccolgono gli Americani, gli Spagnoli, i sud Africani e i Neo Zelandesi e Marianna con un occhio mezzo chiuso, mi ha fatto segno con la mano: sei fuori. Ma io imperterrito: e quando dici che papà è vecchio, dici una stronzata, perché è vecchio chi pensa da vecchio, io la differenza tra le cose vecchie e quelle nuove la conosco, siete voi ragazzini stupidini che dovete ora realizzare cose nuove, non te la puoi prendere solo con me, che sono vecchio, anche se non sono vecchio, come vedi. E che c’entra questo, mi ha detto lei, questo che dici tu è l’antico, il vecchio è un’altra cosa, intendo dire il corpo vecchio. L’antico è un’altra cosa.

Vabbè vabbè, buonanotte, bacio, bacio. Poi mi sono messo sotto le coperte e ho sognato. Che lo Stato Italiano espropiava alcuni di quegli oliveti tradizionali e ne faceva un parco naturale, un luogo incantato dove passeggiare e riposare le nostre menti moderne, stanche e allucinate, e nello stesso tempo dava tanti contributi all’innovazione, così che anche noi potevamo avere filari di piante di nuova generazione da raccogliere con le macchine moderne ma il sogno si è interrotto, perché ho sentito Brando che parlava con Marianna. Ma che voleva papo? Mi ha fatto vedere un video assurdo su come raccoglievano le olive, tutto questo perché ha paura di invecchiare, e Brando ha risposto: le olive? Beata a te. A me ha fatto leggere per intero un articolo sui broccoli, di un certo Petrone, Pi Pe Petrini. E chi è? Ha chiesto Marianna. Boh? ha risposto Brando, uno di quelli che piacciono a lui. E io allora mi sono alzato di scatto, sono andato da loro e ho detto: come Petrini? allora non ci siamo spiegati, a me Petrini non mi convince… oddio, oddio! hanno detto all’unisono.

Antonio Pascale

Antonio Pascale fa il giornalista e lo scrittore, vive a Roma. Scrive per il teatro e la radio. Collabora con il Mattino, lo Straniero e Limes. I suoi libri su IBS.