I nuovi mistici di partito

Uno dei miei studenti è segretario di un circolo del PD nella zona dei Castelli Romani. Ha circa 24 anni, è nato l’anno prima del 1989 e naturalmente non ha fatto in tempo ad iscriversi al PCI o alla FGCI. Dunque non è mai stato un comunista italiano, neanche giovanissimo, per quanto del comunismo italiano conosca molto per averlo studiato e per essersi interessato ai racconti di coloro che c’erano. Fa politica con passione, nel tempo libero, e qualche giorno fa mi ha spiegato di essere radicalmente contrario alle primarie. “Tolgono potere agli iscritti” – mi ha detto – “non è giusto che chi dedica al partito molte ore al giorno tutti i giorni non possa deciderne il leader e la linea politica”. “E poi” – ha concluso – il partito va protetto dalle scalate esterne della società civile”.

Immagino che questo mio studente abbia seguito da vicino i lavori dell’assemblea di “Rifare l’Italia”, l’area interna al PD nella quale va definendosi la nuova mistica di partito. Una mistica che non è del Partito Democratico e del suo specifico profilo politico, ma della forma partito in quanto tale. Parafrasando – spero correttamente – il senso di “Rifare l’Italia”: il toccasana per la malattia italiana sarebbe nella piena restituzione della dignità politica al partito organizzato così come l’Italia lo ha conosciuto prima della Seconda Repubblica; l’antipolitica nella quale siamo avvolti sarebbe l’ultima incarnazione del sovversivismo antiparlamentare che ha attraversato larga parte della storia italiana, come sempre alimentata da poteri tanto forti e occulti quanto irresponsabili; la cosiddetta “società civile” avrebbe conosciuto una stagione di enorme popolarità nel discorso pubblico italiano perché usata strumentalmente (dai suddetti poteri forti e irresponsabili) come mitologia anti-partitica.

Naturalmente vi sono anche contenuti più direttamente politici, come l’idea che l’identità del PD vada trovata nella rappresentanza del lavoro subordinato e la critica della subalternità al “neo-liberismo” a cui si sarebbe prestato il centrosinistra italiano dagli anni Novanta in avanti. Eppure questi contenuti mi sembrano meno rilevanti della mistica di partito. Perché ideologicamente confusi (la vera tara del post-comunismo italiano è stata nel conflitto tra il tentativo maldestro di realizzare riforme liberali, come unica modalità reale per trovare spazio e funzione nella storia italiana dopo l’Ottantanove, e l’incapacità di spiegarlo a se stesso e ai propri elettori), viziati dalla legittima pulsione all’uccisione del padre (molti dei protagonisti di “Rifare l’Italia” sono entrati in politica come assistenti della generazione DS che ha governato negli anni Novanta e di cui ora vogliono disfarsi), e infine clamorosamente regressivi (persino il PCI degli anni Cinquanta aveva un’ambizione di rappresentanza che andava oltre i confini del “lavoro subordinato” e sono circa cinquant’anni che la socialdemocrazia europea si sforza di incarnare anche le ragioni dell’impresa e della produzione di valore).

La mistica di partito è invece un’autentica novità per la politica italiana dell’ultimo decennio. Ciò che colpisce è innanzitutto che in un ambiente dove Gramsci, la sua idea di immanenza e il suo metodo storico-politico dovrebbero essere stati annusati almeno alla lontana, si scelga una ricostruzione mitologica della più recente storia italiana. Come se prima del 1992 l’Italia avesse conosciuto un’età dell’oro della politica e come se i partiti fossero stati sradicati da qualche forza estranea alla nostra storia nazionale. Anche a me piacciono i partiti, e molto. E credo che una democrazia pienamente funzionante debba alimentarsi di partiti in buona salute. Ma se intorno a noi di questo non c’è più traccia non è colpa di niente altro che non siano le concrete storie politiche di quei partiti e la loro (in)capacità di rendere vitali e pulsanti organizzazioni che hanno perso gran parte della loro forza di attrazione. Immaginare poi che l’antipolitica sia un’invenzione dei poteri forti – ammesso che vi siano e che funzionino come tali – significa più banalmente non accorgersi di quanto sta accadendo fuori dalle nostre stanze, confondere l’affannata conservazione di ruolo e funzione nella quale è impegnata la grande stampa italiana con i fenomeni concreti di indebolimento della nostra democrazia di cui sono protagonisti decine di milioni di italiani che quella stampa non frequentano né conoscono, reinventarsi un nemico buono per tutte le stagioni invece di fare i conti con i fallimenti della propria tradizione storica e politica.

Il partito al quale i nuovi mistici dedicano tanta venerazione è naturalmente un’entità del tutto astratta, pura e chiusa nella sua perfezione idealtipica e per niente bisognosa di aggiustamenti sostanziosi per essere restituita alla libertà. Sembra sufficiente evocarne il nome, contro le mistificazioni dei suoi troppi nemici, perché essa torni tra noi viva e vitale. Eppure quell’entità ha avuto una sua concreta incarnazione nella storia italiana, abitando le nostre valli per un periodo sostanzialmente limitato: grosso modo tra la fine degli anni Quaranta e la fine degli anni Settanta, quando il partito di massa ereditato dal fascismo ha goduto della salute migliore. L’Italia ne ha poi conosciuto una versione molto particolare, ben diversa da quella di altre grandi democrazie europee e legata (nella nascita così come nella morte) alle forme altrettanto particolari del nostro welfare nazionale. Si può davvero resuscitare quel modello, rivendicando tra l’altro la sua orgogliosa contrapposizione ad una “società civile” vissuta come fonte di pericolose contaminazioni? Certo che sì, a patto di adeguarsi ad una navigazione altrettanto orgogliosamente minoritaria nelle maree della crisi nazionale. D’altra parte la storia della sinistra italiana è ricca di piccole pattuglie piene di fierezza e mosse da un fortissimo senso di autonomia politica, da separatezza dal resto del mondo, da autosufficienza e volontarismo. Quel volontarismo a sfondo irrazionalista di cui Mario Tronti è stato uno dei principali teorici all’epoca del suo operaismo, molti anni prima di ricevere l’incarico di introdurre i lavori di “Rifare l’Italia”.

Se al fondo di questa nuova mistica di partito si intravede Bordiga assai più di Gramsci, la motivazioni più ragionevoli di questa mobilitazione sembrano essere altre e ben diverse dalla genealogia della sinistra italiana. Da una parte “Rifare l’Italia” si candida a rappresentare un pezzo reale del PD, forse quello che più di altri garantisce al Partito Democratico la sua mirabile capacità di tenuta: il mondo degli amministratori, dei funzionari e più in generale dei professionisti che vivono ogni giorno di politica e che comprensibilmente temono di perdere legittimità e sostentamento. Dall’altra, è vero che ogni nuova generazione politica ha diritto a scegliersi lo strumento su cui far leva per schiodare i padri dalle loro sedie. La scommessa della generazione dei Veltroni e dei D’Alema, alla metà degli anni Ottanta e prima del crollo del Muro di Berlino, fu sul superamento dell’ortodossia proporzionalista del PCI e dunque sull’orizzonte maggioritario come chiave per le riforme istituzionali. Coloro che oggi scalano il PD con l’ambizione di “Rifare l’Italia” (o con quella, non meno immodesta, di “rifare il PCI” come ha scritto qui Stefano Menichini), scommettono su una mistica di partito che da domani possa dare sostanza e vocazione al principale partito della sinistra italiana. Insieme agli auguri di buona navigazione, sia lecito nutrire qualche dubbio sulla capacità di rappresentare qualcosa che vada al di là dei confini di un piccolissimo segmento della società italiana.

Andrea Romano

Andrea Romano, nato a Livorno nel 1967, insegna Storia contemporanea a Roma Tor Vergata e cura la saggistica della Marsilio editori. Nel 2013 è stato eletto alla Camera dei Deputati per Scelta Civica. Twitter: @andrearomano9