Il metodo scientifico, il Dr. Jekyll e Mr. Hyde

Negli ultimi giorni del 2014 è apparso su Nature un commento dei cosmologi George Ellis e Joe Silk a proposito del metodo scientifico e della sua applicazione agli sviluppi più speculativi della fisica teorica moderna. Ellis e Silk si concentrano soprattutto su due aree di ricerca sulla natura fondamentale della realtà: la teoria delle stringhe e il multiverso. La teoria delle stringhe tenta di dare una descrizione unificata della realtà sulla base di entità a una o più dimensioni (stringhe, appunto, nel primo caso; membrane, nel secondo), usando un formalismo matematico molto complesso che presuppone, fra l’altro, l’esistenza di un numero di dimensioni spaziali superiori alle tre che possiamo osservare nell’esperienza ordinaria. Il multiverso, ovvero l’idea che possano esistere molti altri universi oltre al nostro, non è invece propriamente una teoria, ma piuttosto una previsione degli scenari che provano a descrivere l’origine del nostro universo a partire da una fase primordiale di espansione accelerata nota come inflazione.

Entrambi gli scenari sono estremamente difficili da verificare empiricamente. Nel caso della teoria delle stringhe, la difficoltà è di natura tecnologica: non abbiamo (e probabilmente non avremo mai) acceleratori di particelle abbastanza potenti per arrivare alle energie necessarie per osservare direttamente le dimensioni extra o altre conseguenze della teoria, anche se sono ipotizzabili situazioni particolari che potrebbero dare luogo a effetti osservabili al Large Hadron Collider. Nel caso del multiverso, il limite è ancora più drastico ed è la natura stessa a imporlo: gli altri universi ipotizzati dallo scenario sono di fatto fuori dalla possibilità di entrare in contatto con il nostro tramite interazioni fisiche, anche se sono state fatte proposte per la ricerca di tracce di collisioni primordiali tra il nostro universo e gli altri.

Siamo quindi in una situazione in cui le idee più recenti della fisica teorica si sono spinte molto al di là del dominio dell’indagine sperimentale. Ma senza prove empiriche non c’è vera scienza, commentano preoccupati Ellis e Silk. Che facciamo?

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La cosa non è una novità: la difficoltà di falsificare le teorie fisiche più avanzate è stata notata e criticata in passato da molti altri scienziati, ed è tristemente chiara ai fisici che cercano di far progredire la conoscenza degli aspetti fondamentali della realtà. È un problema molto serio, perché davvero esistono aree della fisica in cui la possibilità di fare progressi sembra, per il momento, vanificata dal modo stesso in cui è fatto il mondo. In assenza di input sperimentali diretti, sembra quasi che una parte della fisica teorica si sia scollata dalla scienza empirica per diventare una branca della matematica, con tanti risultati nuovi e interessanti ma che per ora non fanno avanzare la nostra comprensione del mondo reale. Non ci sarebbe niente di male: molti strumenti matematici che oggi fanno parte del bagaglio necessario a descrivere la natura — dalle geometrie non euclidee alla teoria dei gruppi — furono sviluppati ben prima che diventasse chiara la loro applicabilità pratica.

E, d’altra parte, finire in un vicolo cieco perché non ci sono abbastanza dati o non sono abbastanza accurati fa parte del modo in cui funziona la scienza. A volte la natura ci costringe a prendercela comoda. Tanto per mettere le cose nella giusta prospettiva: la teoria tolemaica è durata quattordici secoli. Proprio così: millequattrocento anni, anno più anno meno. Per tutto quel tempo, i sapienti che avevano un qualche interesse di come funzionasse il mondo hanno ritenuto la visione geocentrica dell’universo una ottima descrizione della realtà. E lo era davvero. Era logica, era elegante? Accidenti, se lo era: tutto spiegato in termini di moti circolari uniformi, la perfezione matematica pura. Inoltre, non c’erano seri conflitti con le osservazioni alla portata degli strumenti esistenti. La teoria dava conto delle osservazioni del moto dei pianeti ed era in grado di fare previsioni piuttosto accurate. Gli astronomi tolemaici sapevano calcolare in anticipo e con ammirevole precisione quello che sarebbe successo nel cielo. In breve, quella tolemaica è stata la teoria scientifica più duratura nella storia del pensiero umano, e non perché in quei millequattrocento anni la gente fosse stupida, ma perché la teoria funzionava bene con i dati che c’erano. Non ci fu una vera ragione empirica per abbandonarla, fino a quando Keplero non si incaponì su una discrepanza sperimentale di otto minuti d’arco nel moto di Marte, concludendo che poteva essere superata mettendo il Sole al centro del sistema solare e facendo muovere i pianeti su orbite ellittiche a velocità variabile. E anche così, il mondo non si svegliò improvvisamente copernicano. Ci vollero decenni prima che si imponesse la nuova descrizione eliocentrica. Insomma, forse non è il caso di diventare troppo ansiosi per uno stallo di qualche decennio nel progresso delle teorie fondamentali.

In alcuni casi, però, le speculazioni che prendono il via da questioni di fisica teorica vanno addirittura oltre la matematica, sfociando in un terreno che un tempo sarebbe stato di pertinenza della filosofia, se non addirittura della metafisica. Come dovremmo giudicarle? Non è, si chiedono Ellis e Silk — e noi con loro — che mostrando di prendere sul serio teorie che, pur nate in seno alla comunità scientifica, non rispondono al criterio di falsificabilità, stiamo anche concedendo — involontariamente — spazi di manovra e argomenti di legittimazione a idee decisamente pseudoscientifiche? Non staremo, noi scienziati, facendo passare all’esterno il messaggio sbagliato che ci siano idee che non hanno bisogno di essere dimostrate per essere credute, mettendo a rischio il nucleo più prezioso della scienza, ovvero il suo metodo?

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Le domande sollevate da Ellis e Silk mi risuonavano in testa mentre leggevo, proprio negli stessi giorni in cui è apparso l’articolo su Nature, uno strano libro intitolato “L’universo matematico”, scritto da Max Tegmark. Tegmark è un cosmologo e fisico teorico (peraltro ex-allievo proprio di Joe Silk) con una forte passione per le grandi questioni, passione che lo ha portato più volte ad avventurarsi in terreni difficilmente classificabili dal punto di vista accademico — cosa che, come racconta lui stesso, avrebbe compromesso la sua carriera se non fosse stata compensata da una solida produzione scientifica. Questa strategia che Tegmark chiama “Dr. Jekyll/Mr. Hyde” — fare scienza rispettabile nelle situazioni ufficiali, e inseguire la risposta alle domande più bizzare come passatempo — ha dato i suoi frutti, visto che oggi “Mad Max” (il suo soprannome dai tempi del dottorato) ha una posizione al MIT ed è un cosmologo stimato. Il frutto delle sue riflessioni non convenzionali doveva però pur trovare uno sbocco pubblico, ed è quindi confluito in questo libro di diverse centinaia di pagine, che prova a dare la sua personale risposta al problema di quale sia la natura ultima della realtà. Che è una questione ontologica, da filosofo, dunque. (E non è interessante che gli unici a farsi ancora queste domande, oggi, siano i fisici teorici?)

Conosco Max da una ventina d’anni (faccio anche parte, con un certo orgoglio, di una delle sue creature, il Foundational Questions Institute, una specie di club di scienziati col pallino per le domande fondamentali che ogni tanto si riuniscono per scambiarsi idee, tipicamente in località esotiche), e quindi non mi sono nuove le sue posizioni: la predilezione per il multiverso (Tegmark ha fra l’altro escogitato una classificazione per i diversi tipi possibili di universi paralleli), la propensione per l’interpretazione a molti mondi della meccanica quantistica (e l’ammirazione per il suo creatore, Hugh Everett), fino all’idea che cuce assieme tutte le altre e che costituisce il nucleo del suo libro: ovvero che la realtà fisica sia una struttura matematica, e che tutte le strutture che esistono matematicamente esistano anche fisicamente.

Nonostante, come dicevo, conoscessi già tutte queste idee, leggerle una dopo l’altra mi ha dato una specie di ubriacatura, riempiendomi la testa di domande. Alcune di queste domande hanno a che fare con la scienza e con le idee descritte nel libro. Per esempio, mi chiedo: se uno si è convinto, come Tegmark, che la realtà è matematica, allora ciò che è vero matematicamente è anche reale: che bisogno c’è, quindi, di osservare il mondo? Ogni verità matematica esisterà in qualche porzione del multiverso (anzi: sarà quella porzione di multiverso), quindi il compito dello scienziato non è più quello di guardare all’esterno e sperimentare, ma quello di scoprire nuovi teoremi. Non è proprio questo uno dei rischi paventati da Ellis e Silk, ovvero giudicare la verità fisica di una teoria sulla sola base della sua eleganza e coerenza matematica? E l’unico criterio di falsificabilità proposto da Tegmark per la sua idea — ovvero che se essa fosse sbagliata dovremmo prima o poi accorgerci che la matematica non è più in grado di descrivere la realtà — non è un po’ debole? Una teoria che aspiri a essere scientifica non dovrebbe cercare attivamente il confronto con la realtà, qui e ora, piuttosto che differirlo, potenzialmente all’infinito?

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Altre domande che mi rimbombavano in testa mentre leggevo, però, riguardavano la mia stessa esperienza di lettore, ovvero l’ubriacatura che provavo; e da lì (sarà che il libro si interrogava tra l’altro su cosa dovrebbe osservare un tipico rappresentante di tutti gli innumerevoli osservatori che potrebbero popolare gli innumerevoli universi – un numero enorme dei quali sarebbero identici a noi, salvo che per alcuni piccoli particolari) ho finito per allargare il mio campo visivo e abbracciare tutti gli altri lettori, e insomma mi sono ritrovato più volte a chiedermi: ma il lettore tipico di un libro del genere, chi è? E poi: se il lettore tipico è, come credo, non un fisico di professione ma un lettore abituale di divulgazione scientifica, cosa si porterà a casa dopo la lettura? Crederà, cioè, che la scienza ha effettivamente raggiunto, o sia sul punto di raggiungere, un consenso su quale sia la natura ultima della realtà — un consenso fondato su evidenze empiriche, come piacerebbe a Ellis, a Silk, e a ogni altro fisico incluso Tegmark — o che quelle che ha letto sono solo le ipotesi molto brillanti e stimolanti ma anche molto azzardate di uno scienziato a cui piace l’avventura intellettuale?

Alla fine mi sono risposto (ottimisticamente) che, poiché Tegmark è molto bravo e attento a chiarire quali tra le idee presentate rientrano nel recinto della scienza rispettabile e consolidata (fatta dal Dr. Jekyll) e quali sono solo congetture (sognate da Mr. Hyde), il lettore tipico si divertirà moltissimo, un po’ si smarrirà, ma (si spera) non farà confusione. Arriverà all’ultima pagina convinto di aver letto un libro di un genere strano, un genere forse non del tutto nuovo ma che credo ci ritroveremo a leggere sempre più spesso, dato lo stato della fisica teorica più avanzata. Ho anche provato a farmi venire un nome per questo nuovo genere a cavallo tra realtà e fantasia, ma non ho saputo trovare niente di meglio di “filosofia scientifica” (“filosofia naturale” era bello ma era già preso): ovvero un genere che parte dalla scienza dura e empiricamente fondata, e da lì prende il volo per le zone più rarefatte della conoscenza, senza contraddire ciò che sappiamo ma provando a riempire i vuoti con l’immaginazione. Il tutto, si spera, tenendo sempre ben presente (e facendolo presente al lettore tipico) dove finisce la scienza e dove inizia l’invenzione, per quanto ben informata.

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Il che ci riporta a Ellis e Silk e alla loro preoccupazione che è, mi pare, soprattutto questa: dobbiamo continuare a dare il marchio della scienza solo alle teorie che possono essere effettivamente messe alla prova, e solo le teorie che hanno effettivamente superato il vaglio dell’esperimento possono essere incluse nel bagaglio delle conoscenze accettate. E come si fa a non essere d’accordo? Qualunque scienziato lo sarebbe, al punto che sembrerebbe quasi superfluo ricordarlo. D’altra parte, che dovremmo fare quando il desiderio di conoscere, unito a ciò che già sappiamo del mondo, ci spinge a estrapolare le nostre teorie dove l’ingegno non ci ha ancora dato i mezzi pratici per indagare? Uno scienziato deve sospendere il giudizio, è ovvio. Ma la vita è breve, la voglia di capire è tanta, e non si può impedire ai più spericolati, come Tegmark, di mettere nero su bianco la propria visione del mondo a beneficio del prossimo: anche se non è scienza, ma filosofia scientifica. Se la vediamo da questa prospettiva — ricordando sempre a noi stessi e agli altri la differenza tra Dr. Jekyll e Mr. Hyde — forse possiamo tenerci il piacere intellettuale della speculazione, senza mettere a rischio il metodo scientifico.

Amedeo Balbi

Amedeo Balbi, astrofisico, è ricercatore all'Università di Roma Tor Vergata. Il suo (altro) blog è Keplero. I suoi libri su Amazon. Twitter: @amedeo_balbi