Gli investitori esteri si accontentano della fuffa?

Le speranze del governo di attrarre investimenti dall’estero – dei quali, è difficile dar torto a Enrico Letta, «c’è un drammatico bisogno» – sono affidate a un documento pieno di luminose intenzioni. La retorica è buona: l’Italia, ha detto il primo ministro, non è né un outlet né Fort Apache. Si pensa stupidamente che aprirsi ai mercati internazionali significhi «svendersi» – oppure che sia possibile fare l’interesse degli italiani chiudendo la porta in faccia agli stranieri. In realtà «le condizioni e le misure necessarie per trattenere in Italia gli investimenti, anche italiani, sono le stesse che servono per attrarne di nuovi dall’estero».

Non è quindi questione di «favorire» gli investitori esteri piuttosto che quelli italiani. Rendendo più snelle le procedure, meno intrusiva la burocrazia, più leggero il fisco, si avvantaggiano allo stesso modo gli uni e gli altri. Se l’Italia diventa un Paese in cui qualcun altro vuole venire ad aprire una attività produttiva, sarà anche un Paese dal quale le imprese smettono di fuggire.

Il concetto è semplice, e bene ha fatto il governo a metterlo nero su bianco. Ma da Palazzo Chigi ci si aspetterebbe di più di un elenco di buone intenzioni. Nel documento “Destinazione Italia” non mancano: non c’è traccia, invece, di riferimenti puntuali (con l’eccezione di quanto il governo segnala di avere già fatto), di indicazioni di dettaglio che spieghino “come” si intende passare dal dire al fare. Il monitoraggio settimanale delle attività è una bella promessa, ma che cosa, di preciso, andrà monitorato? Una volta si diceva che Palazzo Chigi era l’unica merchant bank in cui non si parlasse inglese. A leggere “Destinazione Italia”, sembra essere diventata l’unica società di consulenza in cui non si sa usare PowerPoint.

Per carità, i problemi sono quelli. Che il diritto del lavoro sia complesso al punto da risultare imperscrutabile; che il cuneo fiscale vada ridotto; che la farraginosità della normativa fiscale, e il potere discrezionale di chi deve farla applicare, spaventino investitori esteri e contribuenti italiani, è vero. Come si risolvono, questi problemi? “Destinazione Italia” li mette a fuoco ma propone soluzioni assai vaghe: la manovrabilità politica è preservata, qualche dubbio sulla serietà delle intenzioni viene.

Il documento sottolinea come il problema dei problemi sia la certezza del diritto. Ma per avere certezza del diritto servirebbero norme più semplici e lineari, il cui ambito d’applicazione sia il più vasto possibile: regole del gioco, non istruzioni per l’uso, norme e normette ritagliate attorno a casi particolari.

Un esempio. Nel documento, si identifica correttamente il problema del cambio di destinazione d’uso degli immobili – che in Italia è spesso una fatica di Sisifo, e produce un estenuante braccio di ferro con la burocrazia. Ma è questione che si risolve mettendo le mani nel diritto urbanistico, non con l’«introdurre un regime di facilitazione e gratuità per i cambi di destinazione d’uso degli immobili, in particolare per quelli non utilizzati o occupati da imprese in difficoltà, nel pieno rispetto delle esigenze di tutela del paesaggio e dei volumi esistenti degli edifici». I regimi di facilitazione non sono eterni, per definizione durano solo per un certo periodo di tempo. Dopo di che, che succede? Dire che c’è un problema col cambio di destinazione d’uso degli immobili significa sostenere che i diritti di proprietà delle persone, sui medesimi immobili, sono limitati, «in libertà vigilata». Ma la questione si risolve allentando il guinzaglio per un paio d’anni? Se si prende atto che viviamo e vivremo in un’economia più fluida che in passato, che pertanto dobbiamo accettare l’ipotesi che le imprese possano nascere e morire con una certa velocità, pensiamo davvero che dopo un arco temporale di breve durata sia lecito aspettarsi una “normalizzazione”?

Assieme con la promessa di creare un «fondo di fondi» destinato al co-investimento in venture capital, nel quale le risorse pubbliche (ma non dovevamo tagliare i sussidi alle imprese?) saranno a disposizione solo a condizione che «una parte delle risorse private sia di origine straniera», la cosa più concreta del documento è il battesimo di “Destinazione Italia Spa”. Ente che dovrebbe nascere da una costola di Invitalia «senza costi per le finanze pubbliche» ma anche «di risorse umane adeguate». Lo scopo della nuova agenzia (pardon, spa) è aiutare e «affiancare» gli investitori esteri, per massimizzare «le possibilità che l’investimento vada a buon fine». Beninteso, l’attività della nuova agenzia (pardon, spa) «potrà essere sostenuta anche inserendo, nei programmi per il ciclo 2014-2020 dei fondi europei per la Coesione Territoriale, azioni specifiche dedicate all’attrazione degli investimenti sui territori».

Insomma, nel documento del governo ci sono tante e pregevoli parole, circa la necessità di ridurre il carico fiscale e normativo per rendere più facile intraprendere, agli investitori esteri come agli imprenditori italiani. Ma le parole più concrete tradiscono la stessa impostazione di sempre: quella per cui, distribuendo aiuti e sussidi, la politica dà le carte. Difficile, però, che il mazziere ispiri fiducia.

Alberto Mingardi

Alberto Mingardi (1981) è stato fra i fondatori ed è attualmente direttore dell’Istituto Bruno Leoni, think tank che promuove idee per il libero mercato. È adjunct scholar del Cato Institute di Washington DC. Oggi collabora con The Wall Street Journal Europe e con il supplemento domenicale del Sole 24 Ore. Ha scritto L'intelligenza del denaro. Perché il mercato ha ragione anche quando ha torto (Marsilio, 2013). Twitter: @amingardi.