La paura del dissenso sui social network

Una ricerca americana mostra che spesso tratteniamo le nostre opinioni quando sappiamo che possono non essere condivise

di Hayley Tsukayama – The Washington Post @htsuka

Al tempo dei social media, può sembrare che chiunque abbia un’opinione da condividere sull’ultima notizia del giorno. Ma un nuovo studio diffuso martedì dal Pew Internet and American Life Project mostra che, in realtà, sulla vostra timeline potrebbero esserci meno opinioni di quante pensiate.

La scorsa estate, alcuni ricercatori della Rutgers University e del Pew hanno chiesto a 1800 americani adulti quanto fossero inclini a parlare, online e di persona, della notizia che l’ex consulente della NSA Edward Snowden aveva divulgato sui media delle informazioni sul controllo dei dati personali. Hanno scoperto che mentre l’86 per cento degli americani era disposto ad avere una conversazione sull’argomento di persona, soltanto il 42 per cento degli utenti di Facebook e Twitter erano disposti a scriverne qualcosa sui questi social network.

Lo studio ha anche scoperto che sui social network il condizionamento sociale delle opinioni è presente e intenso. Se le persone pensano che le loro idee su un tema saranno apprezzate, sono più disposte a scriverne. Ma anche solo il pensiero che qualcuno dei propri follower e amici possa essere in disaccordo può portare molti all’autocensura. E più le persone hanno consapevolezza della diversità di opinioni sui social network che usano, meno saranno inclini a dire la propria, dice lo studio.

Questa indisposizione a esprimersi si trasferisce anche al mondo reale. Gli utenti di Facebook sono disposti a dire la propria opinione in pubblico solo la metà delle volte, se credono che i loro amici sui social network la pensino diversamente. Quelli di Twitter un quarto di volte in meno. Gli utenti di Instagram, dove lo studio ha scoperto che le persone tendono ad avere maggior consapevolezza della varietà di idee sui social network che usano, sono disposti a parlare dell’argomento a tavola con i propri famigliari solo la metà delle volte.

Keith Hampton [professore associato alla Rutgers University] ha detto che queste scoperte possono dare una svolta alla vecchia teoria della comunicazione della “spirale del silenzio”, che dice che le persone con un’opinione minoritaria sono meno disposte a dire la propria. Questo studio, secondo Hampton, indica che forse gli utenti non devono neanche necessariamente sentirsi in minoranza, basta semplicemente che percepiscano una certa quantità di dissenso nelle proprie cerchie sociali.

Hampton, come studioso dei media, lo trova un po’ preoccupante: «Ci piace pensare, in quanto persone che si interessano dei media, che sarebbe meglio che tutti sapessero tutto, e che ci fosse una diffusione perfetta dell’informazione. Ma questo suggerisce, stranamente, che… se scopriamo che c’è della pluralità di idee, questo può essere in qualche modo spaesante.»

Le rivelazioni di Snowden sono state un tema particolarmente delicato per molti, ma Lee Rainie, il direttore del Pew Internet Project, dice che le scoperte dello studio sono in linea con altre ricerche che il gruppo ha fatto sugli effetti che i social media hanno sulle conversazioni. E quando sono state condotte le indagini per lo studio, la gente in generale sapeva ancora molto poco sugli scopi della sorveglianza, e i partecipanti non avevano ancora iniziato a cambiare le proprie abitudini online. «Altre ricerche del Pew fatte nello stesso periodo mostrano che molte persone ne stavano parlando» ha detto Rainie «Non crediamo che le persone stessero modificando il proprio comportamento per via della faccenda stessa: era da tutte le parti.»

Naturalmente ci sono sempre persone che vogliono comunque esprimersi su questi temi: quelli che hanno sentimenti appassionati per la materia, che sanno molte cose al riguardo, o che semplicemente hanno una predisposizione naturale per dire la propria. Ma l’opinione di chi nei fatti dice quello che pensa sembra avere un’influenza incredibile sugli altri utenti dei social network, come se il forte condizionamento del gruppo tipico dell’adolescenza ci seguisse anche nell’età adulta.

Questa considerazione non è senza fondamento, dice Hampton. La rapida diffusione della tecnologia ci ha permesso di rimanere in contatto con persone appartenenti a pezzi della nostra vita che ci saremmo lasciati alle spalle – liceo, università, vecchi posti di lavoro – ma ora rimangono con noi, in una certa misura, indipendentemente da dove siamo. Dice Hampton: «Non funzionava così da molto tempo: da quando era normale nascere, crescere e morire nello stesso posto, nei piccoli villaggi di campagna.»

Queste scoperte naturalmente non negano il fatto che i social network siano uno strumento nuovo e importante per la comunicazione. «Stiamo osservando uno specifico fenomeno sociale» ha spiegato Hampton. La possibilità di usare i social media per altri tipi di conversazioni, ricerche o per trovare lavoro è sempre una cosa importante, ha aggiunto. Questo studio, tuttavia, effettivamente sembra mostrare «un lato oscuro della questione» , secondo Hampton. «Per il dibattito politico e per come influenzano quello offline, i social network non sono buoni, o almeno non fanno quanto speravamo»

©The Washington Post 2014

– Luca Sofri: Il timore del dissenso