(AP Photo/Daniel Cole)

La tappa che ha cambiato il Tour de France

E forse il ciclismo dei prossimi anni: l'imbattibile Tadej Pogačar è stato battuto, grazie a un piano congegnato bene ed eseguito meglio

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Il Tour de France è iniziato il primo luglio con un grande favorito per la maglia gialla: Tadej Pogačar, 23enne sloveno già vincitore nel 2020 e nel 2021. Per i primi dieci giorni di corsa, Pogačar ha mantenuto le aspettative: è andato meglio di ogni diretto rivale nella cronometro iniziale, ha vinto due tappe e dopo nemmeno una settimana dall’inizio del Tour già indossava la maglia gialla. Ieri, però, nella tappa con arrivo sui 2.413 metri del Col du Granon l’ha persa perché il danese Jonas Vingegaard lo ha attaccato e lo ha staccato di quasi tre minuti. Vingegaard, ora in maglia gialla, ci è riuscito grazie a un deciso ed efficacissimo attacco negli ultimi chilometri, che ha portato a compimento un rischioso e risoluto piano messo in atto dalla sua forte squadra, la Jumbo-Visma. Una dimostrazione di come il ciclismo sia sport di squadra, in cui però ognuno pedala solo.

Per intensità, spettacolarità ed evoluzioni di trama, la tappa di ieri è stata una delle più belle e avvincenti nella storia del Tour, e molti hanno scritto che per certi versi, oltre alla maglia gialla, Vingegaard ha sfilato a Pogačar una sorta di “mantello dell’invincibilità”.

Pogačar, infatti, non solo era atteso come vincitore del suo terzo Tour consecutivo, ma era anche raccontato come un corridore praticamente senza punti deboli, il più forte in attività per quanto riguarda le lunghe corse a tappe, un fenomeno probabilmente destinato a dominare per diversi altri anni il ciclismo mondiale.

Come ha scritto il giornalista Daniel Friebe, la «sconvolgente» tappa di ieri potrebbe aver «ridefinito il modo in cui penseremo al ciclismo dei prossimi anni». Nel senso che, sebbene a tratti lo fosse quasi sembrato, Pogačar si è dimostrato non imbattibile e Vingegaard, che di anni ne ha 25 e che fino a qualche anno fa faceva il ciclista e intanto di lavoro inscatolava filetti di sogliola, ha fatto vedere di poterlo staccare in salita. Il tutto nonostante in Danimarca, dove è cresciuto, le salite siano praticamente assenti.

Come ogni corsa di tre settimane, anche il Tour de France è fatto però da 21 tappe: ne restano quindi altre dieci, e molte cose potrebbero succedere. A cominciare da oggi, con una tappa che, nel giorno della Festa nazionale francese, arriva su una salita storica e perfida: l’Alpe d’Huez. Pogačar, che ieri mattina si era svegliato con 39 secondi di vantaggio su Vingegaard in classifica generale, e che ieri sera è andato a dormire con 2 minuti e 22 secondi di svantaggio, ha detto che proverà a prendersi la sua «rivincita», e visto il corridore che è c’è da aspettarsi che ci proverà, e che forse ci riuscirà anche. Di certo, in Vingegaard ha trovato il rivale che molti temevano non potesse avere.

Prima di ieri
Nel 2020, alla sua prima partecipazione alla corsa, Pogačar aveva vinto il Tour nell’ultima cronometro, con 59 secondi di vantaggio sul suo connazionale Primož Roglič, capitano della Jumbo-Visma che era in maglia gialla fino a quel giorno e che finì il Tour da secondo classificato.

Nel 2021, Pogačar aveva vinto prendendo la maglia gialla dopo una settimana di corsa e non se l’era più tolta fino alla fine. Al secondo posto, con oltre cinque minuti di ritardo in classifica generale, era arrivato Vingegaard, in quello che per lui era il primo Tour.

Il canovaccio del Tour di quest’anno era, in sintesi, questo: Pogačar era il grande favorito, pur correndo in una squadra forse non pienamente attrezzata per difenderlo, supportarlo e proteggerlo quando necessario. La squadra più forte era considerata la Jumbo-Visma, perché è la squadra sia di Roglič che di Vingegaard – i due secondi degli ultimi due anni – oltre a diversi altri compagni di altissimo livello, a cominciare da Wout van Aert.

Pogačar, primo, e Vingegaard, secondo, all’arrivo della Super Planche des Belles Filles, l’8 luglio (AP Photo/Daniel Cole)

Per provare a ribaltare la situazione senza rischiare di doversi accontentare di un nuovo secondo posto, a Roglič, Vingegaard e alla Jumbo-Visma serviva un piano. Lo avevano.

La tappa di ieri
Ieri, di primo pomeriggio, i corridori sono partiti da Albertville e ad aspettarli lungo il percorso c’erano oltre 4mila metri di dislivello e 152 chilometri fatti perlopiù di salite e discese alpine, quasi trenta dei quali pedalati oltre i duemila metri di altitudine, dove l’ossigeno è meno e, di conseguenza, la fatica maggiore. Le principali salite erano il Col du Télégraphe, il lunghissimo e storico Galibier, con un passaggio oltre i 2.600 metri di altezza, e infine il Col du Granon, una salita ripida e arida dove il Tour era passato solo una volta, nel 1986, dodici anni prima che nascesse Pogačar.

Il piano della Jumbo-Visma – in questi giorni ipotizzato e atteso da molti appassionati, osservatori e commentatori – era facile nelle premesse ma ardito da realizzarsi. Prevedeva di attaccare Pogačar più volte, con più corridori, molto prima degli ultimi chilometri dell’ultima salita. Così da costringerlo a rispondere in prima persona a quegli attacchi (perché l’alternativa comportava lasciar fuggire in avanti uno tra Roglič e Vingegaard, entrambi relativamente vicini a lui in classifica) e, al contempo, far sì che si trovasse solo, senza compagni, nel bel mezzo della tappa.

Essere solo, in una tappa come quella di ieri, comporta non avere supporto pratico nell’inseguimento altrui, ma anche, più banalmente, non avere qualcuno pronto a passare una borraccia nel momento in cui ce ne sarebbe bisogno.

Nel mettere in atto il suo piano, la Jumbo-Visma ha mandato in fuga due suoi corridori all’inizio della tappa. Già sul Col du Télégraphe, a circa 70 chilometri dall’arrivo, Pogačar aveva perso diversi compagni. Dopodiché, sulla strada verso il Galibier, Roglič e Vingegaard hanno alternativamente e ripetutamente provato a staccare Pogačar, il quale ha sempre risposto, riportandosi ogni volta sull’attaccante di turno.

Dalle pendici del Galibier in poi la tappa è stata parecchio vivace e movimentata. La composizione dei vari gruppi è cambiata più volte, qualcuno rientrava e qualcuno si staccava, e c’è persino stato un momento in cui, paradossalmente, Vingegaard era solo e Pogačar aveva ancora un compagno con lui. Poi, anche grazie all’azzeccata scelta della Jumbo-Visma di far fermare Van Aert, in fuga dal mattino, farlo superare dal gruppo di Vingegaard e fargli aspettare altri compagni più arretrati per aiutarli a riportarsi in discesa su Vingegaard, le cose sono cambiate. E tra il Galibier e il Granon, Pogačar era in effetti quasi solo e accerchiato da corridori della Jumbo-Visma, oltre che da altri corridori di altre squadre, anch’essi interessati alla classifica generale del Tour.

Essere tanti contro uno però serve poco se, in salita, quell’uno va più forte di tutti, come spesso Pogačar ha fatto in questi anni. Lui per primo dava l’idea di non preoccuparsene troppo, e tra il Galibier e il Granon ha perfino scherzato – forse per ostentare sicurezza – e sorriso a un cameraman. Immaginatevi di essere la Jumbo-Visma, di aver fatto tutto quel che avete fatto, e di vedere il rivale descritto come quasi imbattibile, che fino a quel momento ha rintuzzato ogni attacco e persino riprovato in più occasioni ad attaccare lui stesso, fare così ai piedi della salita finale:

La Jumbo-Visma, comunque – forse nemmeno notando l’ostentata tranquillità di Pogačar – ha iniziato il Granon a tutta, tra le altre cose facendo staccare uno sfinito Roglic, che sarebbe poi arrivato al traguardo con quasi 15 minuti di ritardo, di fatto abbandonando ogni ambizione di vittoria ma anche di un buon piazzamento in classifica generale. Sacrificatosi per il piano della Jumbo-Visma e forse destinato a non vincere mai un Tour de France, all’arrivo Roglic sorrideva: il piano aveva funzionato.

Roglic e Sepp Kuss (AP Photo/Daniel Cole)

A pochi chilometri dall’arrivo si è arrivati, di nuovo, a un momento in cui Pogačar aveva un compagno e Vingegaard era solo. Con un paio di corridori di classifica che tra l’altro erano riusciti ad avvantaggiarsi sul sempre più sparuto gruppo di corridori di cui facevano parte Pogačar e Vingegaard.

Sul tratto più duro della salita, a circa cinque chilometri dall’arrivo, Vingegaard ha attaccato e staccato Pogačar, il quale è apparso sempre più in crisi: accaldato, con una pedalata macchinosa e affaticata, parecchio meno elegante ed efficace di quella che è solito avere, in salita o su quasi ogni terreno o pendenza. Con la maglia gialla aperta, un’immagine in cui molti commentatori hanno visto una chiara metafora della sua “resa”, una chiara rappresentazione di come proprio in quei momenti Vingegaard gliela stesse sfilando.

(AP Photo/Thibault Camus)

Alla fine ha vinto Vingegaard e Pogačar è arrivato settimo dopo essere «sprofondato», come ha scritto Leonardo Piccione su Bidon, «nella mezz’ora più complicata della sua giovane carriera». Tra loro, sono arrivati il colombiano Nairo Quintana, i francesi Romain Bardet e David Gaudu e i britannici Geraint Thomas e Adam Yates, tutta gente che ben pochi avrebbero ipotizzato potesse arrivare davanti a Pogačar in una salita decisiva di questo Tour de France, o di qualsiasi futuro Tour de France.

Vingeegard (AP Photo/Daniel Cole)

«Volevo che finisse ma allo stesso tempo volevo che non finisse mai», ha detto Vingegaard di quella sua ultima salita. Pogačar, di certo, avrebbe solo voluto finisse.

(AP Photo/Daniel Cole)

E ora
Fino a ieri, Pogačar era considerato per distacco il più forte corridore da corse a tappe in attività, uno che avrebbe potuto vincere un’altra manciata di Tour de France e chissà quali e quante altre corse, dalla Milano-Sanremo al Giro delle Fiandre. Di lui, ci si chiedeva se non stesse vincendo troppo (alla Eddy Merckx, soprannominato il “cannibale”), si ipotizzava quali record avrebbe battuto e quando, e si ragionava se si dovesse essere lieti di poter assistere alle prestazioni di un fenomeno come pochi altri o preoccupati di quanto incontrastato e alla fine noioso avrebbe potuto essere il suo dominio. Per certi versi, c’era chi temeva Pogačar potesse essere, quantomeno nelle corse a tappe a cui avrebbe scelto di partecipare, un Federer senza un Nadal, un Bartali senza un Coppi.

Era esagerato pensare prima che Pogačar fosse imbattibile e che lo sarebbe rimasto per anni e anni, ed è sbagliato pensare ora che tutto sia cambiato. Di certo, però, quella di ieri è stata la sua prima grande e vera crisi.

I motivi, non li sa nessuno. In virtù del fatto che già nella sua squadra, la UAE-Team Emiratesc’è chi ha dovuto lasciare il Tour per Covid, qualcuno ipotizza che Pogačar, anche se magari non ancora positivo, stia incubando il coronavirus (un’ipotesi negata dalla sua squadra). Un’altra ipotesi ancora, più semplice, è una crisi fisica o di fame dovuta alla vivacità della tappa di ieri e al suo voler rispondere colpo su colpo a ogni attacco, per poi trovarsi sfinito anzitempo.

Qualcuno, guardando a quanto arrembante è stato Pogačar nei primi dieci giorni del Tour, ipotizza – col classico senno di poi – che possa aver usato troppe energie, trovandosene carente quando più gli sarebbero servite. Altri, invece, vedono – ora – l’atteggiamento di Pogačar come un tentativo, magari temendo una ipotetica crisi o comunque un calo di forma nella seconda metà del Tour, di mettere quanto più tempo tra sé e i rivali, di scoraggiarli e chiudere la corsa il prima possibile. Qualcuno sostiene che, forse, il caldo e l’altitudine possano essere punti deboli di Pogačar, che però in realtà già in passato se l’era cavata bene sia con la canicola sia sulle montagne.

È anche possibile che, come chiunque, anche Pogačar abbia avuto una giornata no, solo che l’ha avuta il giorno sbagliato, nel giorno in cui la Jumbo-Visma aveva il giusto piano (per certi versi preparato da mesi) e Vingegaard una grandissima gamba. Ieri, dopo la tappa, Vingegaard ha detto di aspettarsi che Pogačar lo attaccherà ogni volta che ne avrà la possibilità. Pogačar ha detto: «voglio vendicarmi, il Tour non è finito».

Vingegaard (AP Photo/Daniel Cole)

Giovedì c’è un altro tappone alpino, che inizia con il Galibier (preso dal lato da cui ieri si è sceso), con la Croix de Fer e con arrivo all’Alpe d’Huez, dopo 13 chilometri e 21 tornanti tra i più importanti e riveriti nella storia del ciclismo. E ancora mancano, tra le altre cose, i Pirenei e una cronometro individuale alla penultima tappa. Tra l’altro, proprio durante questo Tour, Netflix sta girando una serie documentaria.

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