Il Molise che resiste

Civitacampomarano, un paesino di 300 abitanti in provincia di Campobasso, combatte lo spopolamento con un festival internazionale di street art

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Civitacampomarano è un paesino in Molise inerpicato su un monte, a 520 metri sul livello del mare. Intorno non c’è molto, una grande valle da un lato e boschi dall’altro. La strada per raggiungerlo in auto è una di quelle piene di curve e tutte in salita, completamente al buio dopo il tramonto. Da un certo punto in poi non ci sono più cartelli stradali né una connessione a internet: bisogna fidarsi delle ultime indicazioni ricevute, e proseguire per un tratto in cui la carreggiata è costeggiata da una folta vegetazione che non permette di vedere né il percorso già fatto, né quello che manca. Civitacampomarano non lo vedi finché non arrivi, dicono i suoi abitanti.

Il paese di Civitacampomarano (Tommaso Merighi/Il Post)

Anche per questo in epoca medievale fu un borgo inespugnabile, un luogo sicuro dove nel tredicesimo secolo gli Angioini – la dinastia francese che regnò nel sud Italia tra il 1246 e il 1435 – costruirono un imponente castello che a vederlo adesso appare molto inusuale per un paese così piccolo. Quella stessa posizione inarrivabile in altura oggi però fa di Civitacampomarano uno dei molti comuni italiani dell’entroterra che rischiano di scomparire a causa dello spopolamento.

Una via di Civitacampomarano (Claudio Caprara/Il Post)

Dall’Unità d’Italia al primo Dopoguerra il paese ebbe stabilmente tra i 2.800 e i 2.900 abitanti circa, poi cominciò a perderne: erano 1.000 nel 1981, quasi 700 nel 2001. Oggi, se chiedi, la gente in giro per il paese ci scherza: «Ufficialmente? Forse anche 450. Realmente? 250, 300 a voler esagerare». Gli ultimi dati Istat dicono intorno ai 300, ma la percezione degli abitanti ha una sua importanza, perché nelle rilevazioni ufficiali non è conteggiato chi è ancora residente in paese e magari non ci vive più da anni (e ce ne sono diversi). Tra chi è rimasto, molti si spostano ogni giorno per andare a lavoro a Termoli o a Campobasso, le due grandi città più vicine, ma la maggior parte sono anziani e ogni anno ne muore qualcuno.

È un luogo dove le frane sono frequenti, e dove ogni tanto capita che una parte del paese crolli e debba essere ricostruita: nel 2017 alcuni abitanti hanno perso così la casa. Al turismo si pensa talmente poco che non ci sono alberghi o bed and breakfast, ma nemmeno un ristorante. Nonostante tutto, a Civitacampomarano da sette anni si organizza un festival internazionale di street art chiamato Cvtà, in grado di attirare migliaia di persone da tutta Italia e dal mondo, grazie alla buona volontà dei cittadini, di decine di persone molto legate al paese anche senza abitarci, e dell’organizzatrice e ideatrice della manifestazione: Alice Pasquini, una delle più importanti street artist italiane nel mondo e che è nota soprattutto come Alicè, il nome con cui si firma nelle sue opere.

Arte contestuale
Alicè è già da diversi anni un’artista di fama internazionale, che passa gran parte dell’anno fuori da Roma, la sua città, e in giro per il mondo, dove dipinge muri per suo impulso o su commissione. Nel 2014, mentre si trovava a New York, la direttrice della Pro loco di Civitacampomarano le scrisse una mail proponendole di andare a dipingere in paese, dopo essersi appassionata ai suoi lavori. «Quello che non sapeva è che questo è il paese dove sono nati mio nonno e mia madre – racconta Alicè – quindi sono tornata appena potevo dall’America e sono venuta direttamente qui, dove non venivo da quando i miei nonni sono morti, molti anni fa».

Un angolo di Civitacampomarano (Claudio Caprara/Il Post)

«Ho trovato un paese semiabbandonato. Bellissimo, suggestivo, soprattutto per un’artista come me che appunto si occupa di muri, porte. E ho cominciato a dipingere nella parte più antica del paese, dove nessuno va più, neanche gli abitanti». Nonostante sia un borgo piccolo e poco abitato, Civitacampomarano è pieno di luoghi nascosti, di stradine che a un primo passaggio non si erano notate, di case abbandonate che si scoprono solo dopo molte salite e discese.

Una via di Civitacampomarano (Claudio Caprara/Il Post)

È un posto ideale per chi fa arte di strada, dove la scelta della parete è una parte importante dell’opera stessa. «Le cose più spontanee nascono da una folgorazione, quindi la forma di un muro, il suo colore», dice Alicè. A Civitacampomarano ce ne sono moltissimi, e molto diversi da quelli che si trovano abitualmente nelle metropoli, dove la street art è più diffusa.

Dopo il primo passaggio di Alicè, nel 2014, arrivarono attenzioni mediatiche che non si erano mai viste da quelle parti: così le venne l’idea di organizzare un festival internazionale di street art, invitando ogni anno a dipingere alcuni artisti da tutto il mondo. L’edizione del 2022 si è tenuta dal 23 al 26 giugno con sei artisti, oltre ad Alicè. «Come fare un festival in un paese in cui non c’è ricezione? Aprendo tutte le case, con la popolazione di anziani che mette a disposizione muri, posti letto e le proprie conoscenze per condividerle con gli artisti», spiega.

Gli artisti di solito vanno a Civitacampomarano per più giorni prima dell’inizio del festival, anche una o due settimane, vengono «adottati» dalla popolazione locale – come dicono affettuosamente alcuni abitanti – e si fermano a dormire da chi li ospita. Quando si sono ambientati a sufficienza decidono dove realizzare le loro opere (solitamente più d’una), che regalano alla comunità. Sono tutti artisti che Alicè invita sulla base delle loro idee e propensioni artistiche, e che si possono trovare bene fra i muri antichi e consumati del paese. Lei per esempio dice non amare i muri bianchi, che non le sono di grande ispirazione, e di preferire piuttosto le «superfici che hanno già un segno del tempo»: muri pieni di scritte, di passaggio, abbandonati.

In effetti girando per Civitacampomarano i lavori di Alicè si possono trovare ovunque: su porte in ferro arrugginite, su muri quasi del tutto sgretolati. Lo spirito del festival vuole proprio che i turisti si perdano per le stradine del paese e si imbattano quasi per caso nelle opere, tanto che la mappa che viene fornita è piuttosto vaga sulla loro posizione e comunque non le comprende tutte. Queste modalità di fruizione influenzano moltissimo il modo stesso in cui le opere vengono concepite e realizzate dagli artisti.

«Mi piace chiamarla “arte contestuale”, al di là del termine “street art”», spiega. «Io credo che tutta la mia arte dovrebbe partire dal supporto, perché il muro non è una tela: il muro è di chi lo vede, di chi ci abita davanti, della città, dei suoi colori e della sua cultura. È chiaro che non può essere la stessa cosa dipingere a Marrakech o a Mosca».

«Il disegno è la scusa»
È una cosa ancora diversa dipingere a Civitacampomarano. «Tutti gli artisti sono veramente scelti per il modo in cui potrebbero lavorare qua», dice Alicè. «Qualche anno fa avevo invitato un’artista polacca che dipinge merletti sui muri, che si mise a lavorare fianco a fianco con una signora che ricamava merletti, per poi riprodurli su muri giganti». Un altro esempio lampante è un artista francese del festival di quest’anno, Ememem, che realizza mosaici nelle crepe sui muri e nelle spaccature del terreno: a Civitacampomarano ne ha trovate a volontà.

Una via di Civitacampomarano (Tommaso Merighi/Il Post)

L’artista indiano Daku, invece, ha preso una frase di Vincenzo Cuoco – lo scrittore e giurista vissuto tra il Settecento e l’Ottocento che è considerato il cittadino più illustre del paese – e ne ha fatto un’opera che è visibile solo alcune ore del giorno, perché si crea per effetto dell’ombra proiettata sul muro di una casa. Dice: “Il voler tutto riformare è lo stesso che voler tutto distruggere”. Akut, uno degli street artist tedeschi più importanti a livello internazionale, ha realizzato due ritratti, uno di una signora anziana e uno di un bambino che ha incontrato in paese. Chi lo ha visto lavorare dice che si aggirava per le strade cercando soggetti dal viso paffuto.

L’opera di Daku (Claudio Caprara/Il Post)

Secondo Alicè queste modalità sono fra le massime espressioni possibili della street art, dove l’arte non è solo nelle opere ma in tutto quello che si crea con loro: «L’opera d’arte in sé non è quella che io lascio sul muro, ma è come nasce, come evolve, il momento in cui viene fatta», dice. «Il disegno è la scusa». È un festival che si basa tutto su questo scambio fra gli artisti e la popolazione, «tra l’arte contemporanea e la cultura rurale», dicono gli organizzatori.

Venerdì 24 giugno in paese si diceva che Keya Tama, giovane artista sudafricano, si fosse messo all’opera da qualche parte: non si capiva bene dove, però, perché le strade si sviluppano in modo molto irregolare e le indicazioni non sono semplicissime da seguire, se non si è del posto. Alla fine lo abbiamo trovato nella parte vecchia del borgo, quasi disabitata, dove lo aveva ispirato un muro con all’interno una rientranza ad arco.

Keya Tama non conosce nessuna parola di italiano, ma gli avevano spiegato il significato del detto “si chiude una porta e si apre un portone”, ed era partito da quello per costruire la sua opera, facendosi suggerire dai locali lo spelling della frase in italiano regionale molisano: ne è venuto fuori “Z’ chiud ‘na port za’ japr nu prtone”. Ci ha detto che era già stato in Italia, ma mai in un posto del genere, completamente diverso da quelli in cui è abituato a lavorare e per questo molto affascinante. Anche l’altra opera che ha realizzato per il festival era nata in modo simile, intorno alla frase “Tutt i mur so’ ‘na pòrt”.

Un particolare di “Z’ chiud ‘na port za’ japr nu prtone” di Keya Tama (Claudio Caprara/Il Post)

Poter collaborare con gli artisti, offrirgli da mangiare mentre lavorano, o anche semplicemente vedere un po’ di movimento per le vie del borgo ha portato un certo entusiasmo in una popolazione prevalentemente anziana e senza troppi passatempi. Nei giorni del festival ci sono signore che organizzano workshop sulla cucina locale, c’è musica dal vivo, ci sono chioschi di street food (non potrebbe essere altrimenti, in mancanza di ristoranti). Intorno alle opere di Civitacampomarano, che ormai sono poco meno di un centinaio, si è sviluppata una piccola economia che prosegue oltre i giorni del festival: non si può certo dire che il paese sia diventato una meta turistica, ma ora non è raro vedere durante l’anno piccole comitive o scolaresche in visita.

Alicè
Alice Pasquini iniziò a dipingere in strada in reazione all’accademia. Aveva infatti fatto il percorso più canonico per diventare un’artista, avendo lei fin da piccola voluto fare «la pittrice»: liceo artistico e poi Accademia delle belle arti a Roma. Nel mentre, fin da adolescente aveva scoperto e approfondito la cultura hip hop: «E quindi se la mattina dipingevo la modella con il cavalletto, il pomeriggio mi dilettavo con i miei amici a fare altro. Ho imparato a utilizzare gli spray alla ricerca di un’arte più vicina alle persone e alla città», dice.

Il primo muro lo dipinse a 17 anni nel suo quartiere: più di vent’anni dopo è ancora lì come altri suoi lavori, «un po’ sbiaditi, un po’ arrugginiti, ma sono stati conservati dai cittadini in qualche modo». Poi con internet e i social network alcune opere hanno iniziato a girare moltissimo e sono state notate all’estero, racconta: «Ho cominciato a essere chiamata, a viaggiare, a fare muri sempre più grandi. La prima volta fu a Parigi, poi da lì è iniziato un tour che non si è mai fermato: sono circa 15 anni che sono in viaggio».

Quando iniziò, le donne nella street art erano pochissime, e ancora oggi sono una netta minoranza, per questo decise fin da subito di firmarsi col suo vero nome, o quasi: Alicè. «Era una cosa che nel mondo dei graffiti assolutamente non si faceva, ma volevo far vedere alle altre donne che era una ragazza a fare quei muri», per far capire che era possibile.

Le sue opere raffigurano spesso donne in situazioni molto intime ed emotive, per dare «un’immagine di una donna reale con tante sfaccettature di sentimento, che non fosse necessariamente quella che vediamo nelle pubblicità: uscire dal cliché di santa, o di poco di buono, o di madre», spiega. È una narrazione della donna da un punto di vista femminile che secondo lei mancava, perché nella storia dell’arte le donne erano state dipinte e raccontate quasi esclusivamente dagli uomini.

Un’arte utile
Oggi ad Alicè vengono commissionate opere in tutto il mondo, da istituti di cultura, associazioni, privati. «Ho dipinto anche dentro la collezione della Farnesina. Insomma, cose da pittrice seria», dice scherzando. L’importante, spiega, è non abbandonare l’impegno sociale da cui tutto è nato: «Ora che la mia passione è diventata il mio lavoro, cerco di restituire e mantenere il romanticismo degli inizi, facendo dei muri che abbiano un senso: dentro un carcere, nei centri d’accoglienza minorile, o in situazioni dove l’arte può portare a una nuova vita, come a Civitacampomarano».

Un’opera di Alicè, su un vecchio portone di Civitacampomarano (Claudio Caprara/Il Post)

La street art nasce soprattutto come un’arte sociale, perché è fruibile da tutti gratuitamente. Secondo Alicè, è il genere artistico che ha davvero riportato un’attenzione sulla pittura, assai poco considerata nei decenni precedenti: «In generale ha riavvicinato le persone all’arte, persone che magari non entrano in una galleria o in un museo». A Civitacampomarano sta cercando di fare anche di più: «Io vorrei che questo paese non sparisse», dice Alicè. Una delle opere più difficili da trovare, nella zona disabitata del paese, è un finto graffito con la frase “il Molise non esiste”. L’ultima parte è barrata, e al suo posto sotto c’è una scritta molto sbiadita, ma comunque visibile, che dice: “Resiste”.

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