Philip Johnson all'inaugurazione del New York State Theater nel Lincoln Center, da lui progettato, 19 marzo 1964 (AP Photo/John Rooney)

La controversa storia di Philip Johnson con il nazismo

Fu uno dei più grandi architetti statunitensi e curatore al MoMA, ma fu anche un ammiratore di Hitler e qualcuno ora ne chiede conto

Philip Johnson (1906–2005) è stato uno dei più grandi architetti statunitensi: introdusse gli americani al modernismo negli anni Trenta; disegnò alcuni esemplari più noti del movimento in America, come la Glass House; fondò il dipartimento della Graduate School of Design (GSD) dell’università di Harvard e convinse il noto architetto Mies van der Rohe a stabilirsi negli Stati Uniti; nel 1978 ricevette la medaglie d’oro dall’American Institute of Architects, l’associazione degli architetti americani, e nel 1979 fu il primo a ricevere il Premio Pritzker, il più importante premio d’architettura al mondo. Tutto questo sta per essere offuscato dopo che sono emerse, in modo sempre più deciso, le sue posizioni fasciste e antisemite, la sua ammirazione per Hitler e il nazismo e le sue convinzioni da suprematista bianco.

Le accuse erano già emerse nel 2018, con la pubblicazione della biografia The Man in the Glass House, del critico di architettura Mark Lamster, che lo accusò di essere «a tutti gli effetti un agente dello stato nazista che operava negli Stati Uniti» e sono riemerse dopo la pubblicazione, il 27 novembre, di una lettera del Johnson Study Group, un collettivo di architetti, designer e artisti. La lettera è rivolta al Museum of Modern Art di New York (MoMA), di cui Johnson fu a lungo curatore, e alla Graduate School of Design di Harvard, e sostiene che «le convinzioni e le attività razziste e ampiamente documentate di Philip Johnson rendono il suo nome inappropriato in ogni istituzione educativa e culturale votata al servizio pubblico». Lo accusano, inoltre, di aver utilizzato il suo impiego da curatore al MoMA negli anni Trenta per favorire la diffusione della propaganda nazista, di aver fondato un partito fascista in Louisiana e infine di aver «perseguito la segregazione razziale nella collezione di architettura del MoMA: durante la sua guida (1933-1988) non venne inclusa nessuna opera di un architetto o designer nero».

Sarah Whiting, decana della GSD, si è detta d’accordo con le rivendicazioni della lettera: «il suo razzismo, il suo fascismo e il suo strenuo sostegno al suprematismo bianco non trovano assolutamente posto nel design». Ha anche annunciato che la Casa Cambridge, in Massachusetts, disegnata da Johnson negli anni Quaranta e di proprietà dell’università, cambierà nome e non porterà più quello di chi l’aveva progettata: nota come Thesis House o Philip Johnson Thesis House, si chiamerà ora 9 Ash Street House, dal nome dell’indirizzo in cui si trova.

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Il MoMA invece non ha ancora preso posizione e non ha acconsentito alle richieste della lettera di rimuovere il nome di Johnson dalle mura del museo e il suo titolo di curatore capo del dipartimento di architettura e design. Una portavoce del museo, Amanda Hicks, si è limitata a dire che «siamo consapevoli degli studi recenti che esplorano la possibile vicinanza di Johnson a figure politiche e ideologie fasciste e naziste. Il museo sta prendendo la questione molto seriamente e sta facendo ricerche estensive su tutte le informazioni disponibili». Come ha scritto Lamster nella già citata biografia, la storia del MoMA e di Johnson, che donò molte sue opere importanti al museo, sono «inestricabilmente intrecciate».

È vero che con l’inizio della Seconda guerra mondiale Johnson smise di propagandare le posizioni più controverse ma secondo molti non è possibile relegarle a semplici errori di gioventù, come lui stesso cercò di presentarle quando tornarono a galla negli anni Settanta e Ottanta: nel 1964 sosteneva ancora, nelle sue lettere, che Hitler fosse stato «meglio di Roosevelt», per tutta la carriera ostacolò il riconoscimento degli architetti non bianchi e lavorò soprattutto a servizio dei ricchi. Per esempio, negli anni Cinquanta rimosse tra i curatori della sezione architettura del MoMA Elizabeth Mock, dicendo che era interessata «all’edilizia popolare e a fare del bene, cosa che a me non interessa affatto».

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Johsnon nacque nel 1906 in una ricca famiglia di Cleveland, fece molti viaggi in Europa e venne ammesso all’università di Harvard. Il New Yorker racconta che era balbuziente, se ne stava spesso per conto suo, aveva una forma di disturbo bipolare e represse a lungo la sua omosessualità, che il padre non accettò mai. A Harvard i suoi voti erano bassi e la vita sociale misera, trovava sollievo soprattutto nella filosofia di Friedrich Nietzsche, in particolare nelle parti in cui parlava di spiriti eletti, in cui Johnson si identificava. Si interessò all’architettura grazie ad Alfred H. Barr Jr., un professore che fu tra i primi studiosi del modernismo, il movimento che ricercava un’architettura funzionale e razionale, con materiali contemporanei come l’acciaio e il cemento, reso noto da Walter Gropius, Mies van der Rohe e Le Corbusier. Negli anni Venti Barr aveva studiato il Bauhaus, il movimento moderno in Germania, poi a Mosca aveva incontrato il regista Sergei Eisenstein e altri esponenti dell’avanguardia russa. Nel 1929 divenne il primo direttore del MoMA, lo stesso anno in cui Johnson andò in Europa seguendo un itinerario architettonico messo a punto proprio da Barr.

Tornato a New York, nel 1930 Johnson entrò a far parte del dipartimento di architettura del MoMA e iniziò subito a darsi da fare per far conoscere il modernismo negli Stati Uniti: invitò Gropius e Le Corbusier in America e ottenne la prima commissione americana per Van der Rohe. Nel 1932 organizzò, insieme a Barr Jr. la prima mostra sull’architettura moderna degli Stati Uniti e coniò per l’occasione il termine International Style, con cui è ancora noto. C’erano fotografie e modellini degli edifici più celebri, come la Ville Savoye e la Casa sull’acqua e – nonostante un’affluenza di pubblico modesta: 33mila visitatori in 6 settimane – la mostra è considerata una pietra miliare, anche nel gettare le basi della fama da curatore di Johnson. Nel 1934 supervisionò Machine Art, una mostra sul design industriale piena di oggetti mai visti prima in un museo, come registri di cassa, tostapane, eliche di aeroplani: fu un grandissimo successo.

In quegli anni, Johnson si avvicinò sempre di più a posizioni fasciste e fu un attivo ammiratore del nazismo: andò più volte in Germania, assistette ad alcuni raduni di Norimberga (i congressi annuali del partito nazista) e visitò i campi della Gioventù hitleriana; pubblicò anche una recensione ammirata di due traduzioni del Mein Kampf di Hitler sull’Examiner, un trimestrale del Connecticut. In quegli anni divenne un sostenitore del reverendo Charles E. Coughlin, uno dei primi critici del New Deal del presidente Franklin Roosevelt, famoso per gli accesi sermoni contro le banche centrali, i finanzieri di Wall Street, i comunisti e gli ebrei. Johnson fu a lungo corrispondente dall’Europa per il Social Justice, il giornale di Coughlin. Negli anni Trenta, scrisse per esempio dalla Francia che «la mancanza di leadership e di direzione nello stato ha portato un unico gruppo a prendere il controllo, quello che ottiene sempre il potere nei momenti di debolezza nazionali: gli ebrei». Commentò anche l’invasione della Polonia dicendo che «non c’erano molti ebrei in giro. Abbiamo visto Varsavia e Modlin sotto le bombe: era uno spettacolo emozionante».

Quando nel 1941 gli Stati Uniti entrarono in guerra contro i nazisti, Johnson abbandonò la sua attività politica e giornalistica e, secondo i critici, da quel momento, aveva 35 anni, cercò di scrollarsi di dosso il suo passato fascista e nazista per iniziare una brillante carriera da architetto: e ci riuscì. Si iscrisse alla Graduate School of Design di Harvard e disegnò la sua prima casa, la 9 Ash Street in Cambridge, quella appunto rinominata dalla GSD, largamente ispirata ai lavori di van der Rohe. Sì arruolò nell’esercito e fondò una lega anti-fascista nella GSD, l’FBI indagò intanto sui suoi rapporti in Germania ma non venne mai arrestato o processato. Nel 1946, completato il servizio militare, tornò a lavorare come curatore al MoMA e nel 1949 progettò il suo lavoro più noto: la Glass House a New Canaan, in Connecticut.

La Glass House disegnata da Philip Johnson e fotografata nel 2014
(Christina Horsten/dpa / ANSA)

È ispirata alla Casa Farnsworth di Van der Rohe e si trova in una tenuta di Johnson vicino a un laghetto. È un rettangolo dalle facciate di vetro che si regge su pilastri di acciaio e con il pavimento rialzato di 25 centimetri dal suolo; l’interno è un open space e l’unica stanza è il bagno, racchiuso in un cilindro di mattoni che arriva dal pavimento al soffitto. Il tocco personale, rispetto al modello, erano i colori scuri, il gusto per la simmetria e un senso di calma e ordine.

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Nel 1958 venne inaugurato il Seagram Building, un grattacielo al 375 di Park Avenue, a Manhattan: gli esterni furono disegnati da Van der Rohe e gli interni da Johnson, tra cui il celebre ristorante del Four Seasons, il più caro della città, diventato simbolo della ristorazione di lusso. Nel 1967 Johnson fondò uno studio con l’architetto John Burgee e insieme progettarono molti giganteschi grattacieli nelle città di mezza America. In quegli anni, scrive il New Yorker, dal punto di vista stilistico passò «dal neoclassicismo a un postmodernismo informale, rappresentato al meglio dall’edificio della AT&T in granito rosa (l’ex Torre Sony), con il suo frontone ritagliato in modo deciso»; è uno degli edifici tuttora iconici di New York, inaugurato nel 1984.

Johnson continuò a progettare ancora a lungo, fino agli anni Novanta, con un gusto postmoderno, spettacolare e più ornamentale, come mostra per esempio la Crystal Cathedral a Garden Grove, in California, una chiesa neogotica di vetro. Morì nel sonno nel 2005, a 99 anni, nella sua Glass House; David Whitney, suo compagno da 45 anni, morì l’anno seguente, a 66 anni.

La Crystal Cathedral progettata da Philip Johnson e inaugurata nel 1980 a Los Angeles, California, e qui fotografata nel 1999
(ANSA)

Johnson respinse e sminuì sempre le accuse di simpatie per fascismo e nazismo, sostenendo di essere stato affascinato dall’aspetto vitale ed estetico delle due ideologie. Per esempio disse al giornalista tv Charlie Rose che «se aveste assecondato ogni capriccio che avevate da ragazzo, anche voi non avreste un lavoro» e in altre occasioni ricordò di aver fatto da tutor ad architetti ebrei come Frank Gehry e di avere una lunga amicizia con il politico israeliano Shimon Peres. Per chi preferisce tenere separato il giudizio sulla vita e da quello sulle opere, il New Yorker ha raccolto un’inquietante osservazione: che molti suoi progetti siano stati in qualche modo, anche inconsciamente, influenzati dalle sue convinzioni ed esperienze passate. Raccontò, una volta, che l’ispirazione per la Glass House, illuminata e trasparente di notte, gli era venuta ripensando a «un paesino in legno incendiato, dove non era rimasto niente se non le fondamenta e i camini di mattoni», un’immagine che ricorda molto gli shtetl, cioè i villaggi ebraici dell’Est Europa, che aveva visto bruciare negli anni Trenta.

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