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È un brutto momento per le compagnie aeree

Nell'ultimo anno ne sono fallite venti: soprattutto società piccole che non hanno saputo resistere all'aumento dei prezzi del carburante

SkyWork, VLM, Cobalt Air e Primera sono solo alcune delle più di venti compagnie aeree che nell’ultimo anno sono fallite: è il più alto numero di fallimenti di compagnie aeree da dieci anni a questa parte, a causa di una crisi legata specialmente all’aumento del costo del carburante e alla mancanza di un numero sufficiente di piloti. I fallimenti riguardano in gran parte piccole compagnie low-cost europee – come la danese Primera, che a ottobre ha dichiarato fallimento a poco più di un mese dal lancio della sua prima rotta verso gli Stati Uniti, o la cipriota Cobalt Air che sempre a ottobre, da un giorno all’altro, ha deciso di cancellare tutti i suoi voli – ma nei prossimi mesi potrebbero riguardare anche gruppi più noti e preludere a un profondo cambiamento del mercato dei voli aerei, dove sopravviveranno solo i gruppi più grandi e in grado di assorbire problemi e imprevisti.

L’aumento del costo del carburante e la mancanza di piloti

I molti fallimenti dell’ultimo anno – spiega il sito specialistico Air Transport World – hanno una cosa in comune: hanno coinvolto compagnie nate da relativamente poco, che hanno cercato di crescere velocemente e che hanno provato a passare dai voli charter ai voli di linea, e dalle tratte brevi a quelle a lungo raggio.

L’aumento del costo del carburante nel corso dell’ultimo anno ha avuto il ruolo principale in questa crisi, ed è stato dovuto fondamentalmente alla riduzione della produzione di greggio decisa da alcuni paesi dell’Opec (l’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio): i prezzi del greggio sono arrivati a 72 dollari al barile, il 18 per cento in più rispetto a un anno fa. Nonostante una leggera flessione del costo del petrolio nelle ultime settimane le preoccupazioni delle compagnie aeree continuano ad essere molto alte, soprattutto a causa delle tensioni tra Stati Uniti e Iran che hanno portato alla reintroduzione delle sanzioni che erano state cancellate da Obama, e che potrebbero portare in futuro a un altro aumento del costo del greggio.

La crisi di oggi non è paragonabile a quella del 2008, che provocò il fallimento di oltre 60 compagnie aeree in tutto il mondo, ma per le piccole non sarà meno dolorosa. Se infatti le compagnie più grandi in questi mesi hanno saputo resistere all’aumento del costo del carburante, anche grazie agli ottimi profitti avuti negli ultimi anni, per le piccole invece si è trattato di un ostacolo in molti casi insuperabile. La soluzione sarebbe alzare le tariffe dei voli, come hanno fatto quasi tutte le compagnie aeree nel 2018, ma in molti casi le più piccole non riescono nemmeno a coprire le spese per comprare il carburante necessario.

Il carburante però non è il solo problema che le compagnie stanno affrontando in questo periodo. Nel 2017 il numero di passeggeri ha superato gli 8 miliardi, come mai era successo prima, ma se la richiesta di voli è sempre maggiore a mancare sono i piloti. Boeing, il più grande costruttore al mondo di aerei, stima che nei prossimi venti anni serviranno 635mila nuovi piloti per i voli commerciali, ma addestrare nuovi piloti richiede molte ore di volo, e nel frattempo quelli che sono già abbastanza esperti sono pochi e molto richiesti dal mercato. Cercare di trattenere i piloti nella propria compagnia rappresenta quindi un costo spesso difficile da coprire, come nel caso di Ryanair che nell’ultimo anno ha dovuto rinegoziare i contratti con i piloti di vari paesi, tra cui l’Italia, per evitare il rischio di scioperi.

Michael O’Leary, il CEO Di Ryanair, ha definito inevitabile il fallimento delle compagnie più deboli nei prossimi mesi a causa dell’aumento dei costi, spiegando che la sua società cercherà di approfittarne. «Il nostro obiettivo è una delle due più grandi compagnie scandinave: pensiamo che una delle due possa fallire già questo inverno» ha detto O’Leary facendo riferimento a Norwegian Air, una compagnia divenuta molto conosciuta negli ultimi due anni per l’introduzione di rotte low-cost tra l’Europa e gli Stati Uniti.

Per compagnie di voli a lungo raggio low cost come Norwegian Air, che a settembre ha dovuto cancellare alcune sue tratte tra cui quelle che collegavano Edimburgo e Belfast a New York e quella che collegava Londra a Singapore, o come l’islandese Wow Air, rilevata la scorsa settimana dalla più grande Icelandair, l’aumento del costo del carburante ha rappresentato un problema maggiore rispetto alle compagnie che operano in un solo continente come Ryanair.

Chi fa voli a lungo raggio deve infatti avere aerei più grandi e più costosi di chi fa tratte brevi, e gli investimenti fatti in quella direzione si sono rivelati insostenibili dopo l’aumento del costo del carburante. Inoltre, per garantire tariffe basse queste compagnie hanno puntato su un modello che prevede l’eliminazione delle classi business e l’arrivo in aeroporti piccoli e spesso posizionati molto lontani dalle grandi città. Questo modello ha funzionato per le low cost europee, ma ha privato le compagnie che fanno voli transatlantici di un tipo di clienti fondamentale: chi viaggia per lavoro, che per le lunghe tratte preferisce ancora usare i più comodi voli delle grandi compagnie.

Ad approfittarne della crisi saranno quindi proprio le compagnie che operano su corto raggio, come Ryanair, e quelle più grandi che hanno una solidità finanziaria tale da resistere all’aumento delle spese. Le compagnie più grandi saranno inoltre facilitate dal fallimento di quelle più piccole perché avranno meno concorrenza sul mercato. Questo potrebbe portare a nuove fusioni (come prospettato da O’Leary nel caso di Norwegian Air), dopo quella già avvenuta nel 2017 in seguito al fallimento di Air Berlin, la seconda più grande compagnia aerea tedesca, rilevata dalla sua diretta concorrente, Lufthansa.

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