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La lingua di pattumiera

Anche Claudio Giunta interviene su IL sul modo di scrivere artefatto ed emotivo dei mass media, che ci peggiora tutti

In un lungo articolo sul mensile IL Claudio Giunta descrive la rinnovata attualità di un vecchio tema di riflessione tra le persone attente all’uso della lingua in Italia: quello che nelle sue sfumature varie è stato a volte definito della “lingua di plastica”, ovvero di un’artificiosità della lingua scritta e parlata alla ricerca di formule precostituite o meno immediate, per dar loro un ingenuo senso di maggiore ricercatezza. La responsabilità, che è stata a lungo della televisione, è ormai ereditata dalla scrittura in generale dei giornali e dei media (e del cinema tradotto), e infine dalle persone stesse, che hanno fatto propri questi modi di parlare. Giunta aggiunge alle riflessioni uno spunto sull’inclinazione del giornalismo contemporaneo a generare emozioni nel lettore piuttosto che a raccontare fatti.

L’antilingua descritta da Calvino è la lingua satura di formule burocratiche, la lingua nemica della chiarezza e della concretezza, la lingua che preferisce il verbo recarsi al verbo andare, la perifrasi prodotti vinicoli al sostantivo fiaschi, perché andare e fiaschi vengono sentiti come troppo vicini al parlato, troppo banali, troppo semplici, e chi non ha un buon controllo del linguaggio scambia spesso la semplicità per sciatteria, mancanza di eleganza: mentre una scrittura semplice è sempre raccomandabile, soprattutto quando si compilano atti ufficiali come una denuncia, o quando si scrive una legge. Osservato da questo punto di vista, il problema dell’antilingua è molto più serio di quanto il tono scherzoso di queste righe lascerebbe immaginare perché, come osserva più avanti Calvino, questa lingua artificiale, fasulla, è il sintomo di un rapporto sbagliato non solo con il linguaggio ma con la vita. Chi parla o scrive in questo modo vuole darsi un’aria di importanza, vuol essere più di quel che è realmente, vuole mettersi su un piano diverso e più alto dei suoi interlocutori: loro, poveretti, dicono andare, trovare, cena, mentre noi che sappiamo stare al mondo diciamo recarsi, incorrere nel rinvenimento, pasto pomeridiano. Il problema, insomma, non è solo linguistico ma è etico, è civile, perché adoperato a questo modo il linguaggio non serve, come dovrebbe, a comunicare, a farsi capire, ma al contrario a tenere a distanza, a mettere una barriera tra sé e gli altri anche là dove, come nel rapporto tra l’autorità e i cittadini, ogni barriera dovrebbe essere tolta.

(leggi per intero su IL)

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