Ayen Majok Ariik è arrivata alla clinica di Mingkaman, una città nel mezzo del Sud Sudan, forse dopo avere ascoltato i messaggi trasmessi dalla radio locale sull’importanza di partorire in una struttura sanitaria con personale medico preparato. Ayen – che dovrebbe avere circa 15 anni, ma certamente non più di 16, dice la sua ostetrica – ha chiamato l’ambulanza quando era già entrata in travaglio. È stata portata in una tenda coperta di muffa, con una temperatura interna di circa 40 gradi e il costante rumore del generatore usato per illuminare la sala parto. Il suo non è stato un parto semplice: a causa del lungo travaglio, suo figlio è nato con le vie respiratorie ostruite da fluidi e muco. L’ostetrica ha dovuto intervenire per liberarle e anche per rimuovere manualmente la placenta di Ayen.
La scelta di Ayen – andare a partorire in una struttura sanitaria – non è la norma in Sud Sudan, un paese in guerra e tra quelli con il tasso di mortalità materna e infantile più alto al mondo. L’arretratezza delle strutture sanitarie nazionali e l’impreparazione generale del personale medico si sommano a una serie di tradizioni difficili da superare. Il fotografo italiano Alessandro Rota è andato nello stato di Laghi, nel Sud Sudan centrale, e ha raccontato la storia di alcune donne che hanno superato le diffidenze e sono andate a partorire in una delle strutture sanitarie attorno a Mingkaman. Le fotografie e le storie di queste donne, delle loro famiglie e comunità di appartenenza sono state pubblicate sul sito del progetto a cui ha partecipato Rota: si chiama “From War to Life” (“Dalla guerra alla vita”) ed è stato realizzato in collaborazione con il Comitato Collaborazione Medica (CCM), un’organizzazione non governativa di Torino che si occupa di diversi progetti e attività in alcuni stati dell’Africa (Alessandro Rota si può seguire anche su Twitter e Instagram).
Nel dicembre del 2013 in Sud Sudan è cominciata una guerra civile molto violenta riconducibile alla lotta di potere tra le forze del presidente sud sudanese Salva Kiir – a capo del paese dall’indipendenza, sancita con un referendum il 9 luglio 2011 – e quelle dell’ex vicepresidente e attuale leader dei ribelli Riek Machar. L’opposizione tra i due schieramenti è alimentata anche da antiche divisioni etniche, e cioè dall’inimicizia tra i Dinka, il gruppo etnico di Kiir e il più numeroso del paese, e i Nuer, a cui invece appartiene Machar. Nell’ottobre di quest’anno l’Unione Africana ha accusato forze governative e ribelli di avere commesso omicidi, torture, mutilazioni, rapimenti di donne, stupri e anche di episodi di cannibalismo forzato, soprattutto contro civili non direttamente coinvolti nel conflitto. Anche le Nazioni Unite avevano parlato in passato di crimini contro l’umanità riferendosi a entrambe le parti della guerra sud-sudanese.
Oltre alla guerra civile, la situazione di molte comunità locali sud-sudanesi è resa ancora più complicata dalla malnutrizione – un problema molto diffuso e responsabile di diverse malattie – e dalla mancanza di strutture sanitarie con personale medico formato e preparato. Nel villaggio di Abuyung, per esempio, il governo gestisce un ospedale in condizioni molto precarie: mancano le attrezzature mediche, i letti sono pochi, le condizioni igieniche discutibili e alcuni pazienti sono costretti a spostarsi nel cortile nonostante siano attaccati a una flebo.
Alcune organizzazioni internazionali, tra cui la torinese Comitato Collaborazione Medica, hanno cominciato a sviluppare progetti per migliorare le strutture sanitarie locali, tra molte difficoltà. Uno dei problemi più grossi per le comunità locali continua però a riguardare l’altissimo tasso di mortalità materna e infantile registrato in Sud Sudan – 1 donna su 30 rischia di morire per cause legate alla gravidanza o al parto, 1 bambino su 10 muore prima di raggiungere i 5 anni – che non dipende solo dall’arretratezza delle strutture sanitarie. In molte comunità la tradizione del parto in casa è molto forte, e lo è altrettanto la diffidenza verso la medicina e le cure fornite dalle strutture mediche. Spesso, inoltre, le cliniche sono molto lontane e difficili da raggiungere a causa del pessimo stato delle strade e dell’alto costo dei trasporti.
Manyel Agup, del dipartimento della Salute della contea di Awerial
Daniel Akec, impiegato del dipartimento della Salute della contea di Awerial, nello stato sud-sudanese di Laghi, ha parlato del problema della mortalità materna e infantile e di come il governo locale sta provando a superarlo:
«Ricorriamo anche al sistema degli incentivi: durante le visite pre-natali le mamme ricevono un kit con oggetti utili per i loro bambini, come zanzariere, sapone o coperte. Purtroppo il nostro governo non è ancora strutturato e per ora ci appoggiamo alle ONG ma un giorno, non so ancora quando, diventeremo autonomi. La pianificazione famigliare, che sarebbe uno strumento utile, è ancora un argomento molto difficile da affrontare, soprattutto in periodo di guerra: avere molti figli è un segno di forza e di potere che garantisce il rispetto all’interno della comunità.»
Sul sito di “From War to Life” sono state pubblicate anche alcune fotografie scattate direttamente dai membri delle comunità a cui appartengono le donne incinte che si sono rivolte alle strutture sanitarie della contea di Awerial. Le foto sono state scattate con alcune macchine fotografiche usa e getta donate alla popolazione locale: sono di bassa qualità ma interessanti perché raccontano la vita quotidiana delle donne incinte e delle loro famiglie nei villaggi del Sud Sudan centrale.
All’interno di ogni immagine c’è la storia della famiglia fotografata