La ricerca, vista dalla parte dell’industria

Una risposta all'articolo di Massimo Sandal sulla vita dei ricercatori

Come molti, ho letto l’articolo di Massimo Sandal a proposito della ricerca scientifica, recentemente pubblicato sul Post. L’autore racconta come la ricerca scientifica sia in mano alle agenzie che distribuiscono i fondi – nazionali e internazionali – che a loro volta sono concessi in base al potenziale ritorno economico della ricerca. A complicare le cose, il sistema accademico è organizzato sul principio “scala o muori”, per cui o scali il sistema – pubblicando articoli su articoli, lavorando otto giorni alla settimana e polverizzando la tua vita privata – e diventi professore o ti ritrovi in mezzo alla strada a 35-40 anni, dopo una vita spesa a fare ricerca, da dottorando a “PostDoc” (ricercatore post-dottorale, che ha un titolo di dottorato ma è non ancora indipendente). Come spiegava Sandal.

Sono stato dentro quel sistema fino a pochi anni fa: ne sono uscito per le ragioni brillantemente elencate da Sandal e sono entrato nel mondo della ricerca industriale. Ovvero oggi sono l’organo che crea la funzione, e definisce l’allocazione dei fondi per la ricerca accademica in funzione del ritorno economico. Detto altrimenti, sono il partner industriale. Uno di quelli grossi, il cui nome si trova anche sui cartelli stradali e che dovrebbe beneficiare al massimo di questo sistema confezionato su misura.

La ricerca universitaria è infatti finanziata da tre tipi di investimenti: pubblico, privato e misto.
1) quello completamente privato è abbastanza raro, perché se io privato devo cacciarci tutti i soldi tanto vale che me li tenga e faccia ricerca internamente coi miei ricercatori privati, di cui ho maggior controllo.
2) quello pubblico viene dal governo o dagli enti sovranazionali.
3) quello misto è, appunto, una via di mezzo. In pratica, i partner industriali si mettono daccordo con governi e università: finanziano una quota annuale del budget della ricerca – il resto lo mettono i governi, previo interesse del privato – e in cambio hanno accesso a progetti assieme all’università.

La prima e la terza opzione sono nelle mani del privato: niente interesse niente soldi.
La seconda una volta era libera, copriva la maggior parte del budget della ricerca universitaria di base e garantiva l’onestà intellettuale della stessa, essendo il finanziamento sganciato dalle logiche di mercato. Questo è il finanziamento che ha generato il mito della “torre d’avorio della scienza”. Oggi quella strada è incanalata su settori strategici per poter garantire ritorni di investimenti economici. Inoltre non basta più per tutti, dato che il numero dei dottorati (aspiranti accademici) è aumentato esponenzialmente.

Nel settore dove oggi lavoro io il sistema è lo stesso un po’ ovunque, a livello nazionale o internazionale, e funziona in modo semplice. Viene decisa centralmente una lista di priorità strategiche per l’allocazione dei fondi alla ricerca. In Italia, ad esempio, potrebbe ipoteticamente voler dire dar priorità alla ricerca sulle batterie per l’auto elettrica perché fa comodo alla FIAT, sul DNA perchè il DNA è sempre trendy e altro ancora che odori di quattrini nel futuro prossimo. Decisa la lista, si aprono i bandi di concorso per i finanziamenti. Professori, ricercatori, dottorandi e PostDoc presentano i progetti e subiscono una prima scrematura sulla base della priorità decise a tavolino e del curriculum scientifico dei candidati. Quest’ultimo punto vuol dire che o avete un nutrito numero di pubblicazioni dalle implicazioni spettacolari che  aiuta molto per apparire “i migliori”, oppure verrete molto probabilmente scaricati con la motivazione “not enough papers”, pubblicazioni non sufficienti. I progetti rimasti vengono giudicati da commissioni di esimi professori, che scelgono i migliori sulla base di criteri scientifici. Da lì parte, finalmente, l’attività di ricerca concreta.


La conoscenza è dunque incanalata verso ambiti specifici da esigenze strategiche. Altrimenti detto, per servire partner industriali di rilievo (es. FIAT di cui sopra) o per avere un ritorno di conoscenza in settori economicamente promettenti nel futuro più o meno immediato (ad esempio, anni fa tutti scommettevano sull’economia dell’idrogeno e i progetti correlati venivano copiosamente finanziati; oggi che l’economia dell’idrogeno è tramontata restano solo le briciole). Il vantaggio per il partner industriale è dato dalla possibilità di aver accesso e sviluppare conoscenza focalizzata su argomenti di interesse. Conoscenza è potere, nel mercato globale più che mai. In più, tramite questo sistema vengono allocati uno o più giovani volenterosi, dottorato o PostDoc, con la preparazione scientifica necessaria ad occuparsene in prima persona o sotto la supervisione di un dotto luminare. In pratica, nel gigantesco circuito della ricerca accademica, dottorati e PostDoc sono di fatto diventati dei co.co.pro. All’industria fa comodo e non li assume, per il solito motivo per cui non si assume un co.co.pro: perchè ve n’è bisogno per un progetto a termine e perchè arriva ad costo inferiore al personale assunto.

Ricapitoliamo: per il partner industriale fin qui solo vantaggi. Tutto bello, allora? Vediamo. Da una parte si guadagnano collaborazioni (e collaboratori) sicure su progetti di interesse commerciale. Comodo. Dall’altro lato, però, questo sistema sta spostando pesantemente l’interesse primario della ricerca accademica dalla scienza alla pubblicità, con effetti non piacevoli. In un sistema che produce più ricercatori di quanti può assorbirne – in America, The Economist segnala che tra il 2004 e il 2009, più di 100.000 persone hanno conseguito il titolo di dottorato mentre sono state solo 16.000 le assunzioni di nuovi professori – organizzato sul principio “scala o muori”, tutti quanti, chi più chi meno, sono alla ricerca dei fondi per sopravvivere (e scalare). E’ ormai noto a tutti che i finanziamenti sono assegnati in virtù del loro interesse economico e/o industriale. Di conseguenza, il partner industriale e le agenzie pubbliche che assegnano i fondi oggi non sono il committente della ricerca ma ne diventano il cliente, di cui tutti cercano disperatamente di accaparrarsi i soldi.

Come giustamente ravvisa Massimo Sandal, il principio “scala o muori” ha avuto l’effetto di sviluppare la naturale tendenza a cercare progetti di ricerca piccoli e sicuri ma con la certezza di ottenere qualcosa, invece di dedicarsi a esperimenti più coraggiosi ma rischiosi. Ciononostante, dalla ricerca è lecito attendersi nuove scoperte, implicazioni e stimoli originali, pena il non ottenimento dei fondi dalle agenzie pubbliche o dal partner industriale. Il che significa che alcuni scienziati non si fanno scrupolo di pubblicizzare con tecniche da marketing puro i loro progetti (e fin qui è legittimo) e perfino i risultati (e qui è assai meno legittimo). Nessun dato falso. C’è controllo, su quello. Semplicemente, spronati da un sistema che premia i trionfi eclatanti, invece di pubblicare tutti i dati in proprio possesso, vengono pubblicati solo quelli funzionali a raccontare la storia più clamorosa e roboante, evitando invece quelli che la opacizzerebbero. Pubblicità, appunto, dove si racconta la verità fino ad un certo punto, e scordatevi l’onestà intellettuale della torre d’avorio della scienza pura.

Tutto bello per il partner industriale, allora? No, per niente. Senza tanti giri di parole, c’è crescente scetticismo e diffidenza da parte del mondo industriale per articoli scientifici cui non è sempre possibile sapere se o fino a che punto credere. E sui risultati della ricerca accademica il partner industriale decide investimenti di centinaia di migliaia di euro per sviluppare nuovi prodotti per il mercato, mica nespole. Intendiamoci, non tutti gli scienziati fanno marketing dei risultati. Ci sono anche quelli bravi, e sono probabilmente la maggior parte, che fanno scienza con scrupolo e passione. Ma a parte i propri collaboratori diretti, per il partner industriale è impossibile sapere se l’autore di un articolo di potenziale interesse – roboante come tutti, oramai – racconta la verità fino ad un certo punto o per intero. È come avere una cassetta di mele e dover sceglierne una da mangiare a occhi chiusi, sapendo che alcune sono marce. Alla fine propendi per buttarle via tutte. Ed è un peccato.

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