Che le elezioni legislative di domenica 13 giugno fossero determinanti lo si capiva dalle bandiere comparse da qualche settimana ai balconi e alle finestre un po’ ovunque a Bruxelles. I mondiali di calcio non c’entrano (il Belgio non si è qualificato): c’entra invece il timore che il paese semplicemente cessi di esistere. Un timore che si fa vivo ogni volta che le tensioni tra le due principali comunità che lo costituiscono – i fiamminghi e i francofoni – si inaspriscono e che la politica non sembra più in grado di tenerle insieme.
Dopo l’ennesima crisi intorno alla divisione dell’unica circoscrizione elettorale bilingue, quella di Bruxelles-Hal-Vilvorde (“BHV”), pretesa dai partiti fiamminghi e che i partiti francofoni erano disposti a negoziare, il premier Yves Leterme ha rassegnato le dimissioni ad aprile. A quel punto, un’inasprirsi delle rispettive posizioni era da prevedere. E infatti così è stato: elettoralmente e politicamente, il paese è spaccato in due, secondo una linea chiara. Il nord è a destra, il sud a sinistra.
Nelle Fiandre la Nuova alleanza fiamminga (N-Va), il partito autonomista di Bart De Wever, ha stravinto, diventando il primo partito nella regione e nelle due camere del Parlamento federale. L’N-Va ha guadagnato seggi a scapito dei liberali, (che pure avevano provocato la crisi di governo facendo saltare il tavolo dei negoziati sul “BHV”) e del Vlaams Belang, il partito populista e nazionalista di Filip De Winter. In Vallonia e nella regione bilingue di Bruxelles (ma popolata in maggioranza da francofoni) il Partito socialista (Ps) è in testa, mentre anche qui sono crollati i liberali. Sui due lati della “frontiera linguistica” tengono invece i cristiano-democratici e i Verdi.
Poiché insieme, socialisti francofoni e fiamminghi sono il primo partito in termini di seggi, poiché De Wever non si è detto interessato e poiché l’N-Va non ha un “partito fratello” francofono, è probabile che il re Alberto II incarichi il leader del Ps Elio Di Rupo di formare il governo. Sarebbe la prima volta dal 1974 che un socialista ricopre l’incarico, e la prima volta dal 1978 che a farlo non sarebbe un fiammingo. La prima volta anche che un discendente di immigrati e che un omosessuale dichiarato andrebbe ad occupare la casa al 16, rue de la Loi.
Malgrado il clima di crisi e di tensione che ha segnato la campagna, l’atmosfera sembrava più distesa una volta chiuse le urne: De Wever, il leader populista improvvisamente assurto al ruolo di statista, si è detto “pronto a proseguire le discussioni” su una riforma dello Stato e delle istituzioni che ormai nessuno, né in Vallonia, né nelle Fiandre, pensa di poter rinviare, mentre Di Rupo ha dichiarato di non essere contrario a un governo di unità nazionale. Non si parla più – per ora – di secessione, ma tutt’al più di “federalismo più spinto”. Nei prossimi giorni i leader politici dovranno dar fondo al loro leggendario talento di mediatori e di negoziatori per trovare la formula magica in grado di dare al paese un governo stabile. E mentre si ipotizzano variopinte coalizioni – in Belgio le maggioranze vengono definite dal miscuglio dei colori dei partiti che le compongono – il calendario preme affinché si arrivi quanto prima a un accordo: il 1 luglio infatti il Belgio deve assumere la presidenza di turno dell’Unione europea e non può permettersi di arrivarci con un premier ad interim.
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