La rottura nella destra in Veneto ha cause più nazionali che locali

La Lega ha escluso i tre consiglieri regionali di Forza Italia che sostenevano Luca Zaia, ma alla base dello scontro ci sono le liti sull'autonomia differenziata nella maggioranza di governo

Foto del ministro degli Esteri Antonio Tajani insieme al presidente del Veneto Luca Zaia con un calice di vino al Vinitaly il 14 Aprile 2024
Il ministro degli Esteri Antonio Tajani insieme al presidente del Veneto Luca Zaia alla Fiera di Verona durante il Vinitaly il 14 aprile 2024 (GIUSEPPE LAMI/ANSA)
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Mercoledì sera Alberto Stefani, il segretario regionale della Lega veneta, la Liga, ha annunciato l’uscita di Forza Italia dalla maggioranza di destra nel consiglio regionale del Veneto. «Spiace constatare che Forza Italia è oggettivamente uscita dal perimetro di maggioranza in regione Veneto», ha detto Stefani. Di per sé non è un fatto così eclatante. Forza Italia non ha alcun assessore nella giunta del presidente leghista Luca Zaia e ha appena due consiglieri regionali, Elisa Venturini e Alberto Bozza, più un terzo, Fabrizio Boron. Boron è un ex leghista eletto nella lista “Zaia Presidente” nel 2020, poi nel dicembre scorso era passato in Forza Italia, ma decidendo di restare nel Gruppo Misto in regione. Anche senza questi tre consiglieri, la maggioranza che sostiene la giunta resta solidissima.

La decisione è però rilevante da un punto di vista politico non solo regionale, ma nazionale, perché è un segno dell’ormai cospicua distanza che c’è tra la Lega e Forza Italia sul tema che, più di tutti, ha portato alla recente rottura: l’autonomia differenziata. Da mesi, infatti, i rapporti tra gli esponenti della Lega e quelli di Forza Italia in Veneto sono compromessi, soprattutto per le continue critiche che Flavio Tosi, deputato e coordinatore di Forza Italia in Veneto, fa al presidente Zaia: sulla gestione della sanità, sulle infrastrutture, sui lavori preparatori alle Olimpiadi invernali di Milano e Cortina del 2026. Ma è soprattutto sull’autonomia che lo scontro si è animato di più: e il pezzo più rilevante di questo scontro si è svolto a Roma più che a Venezia.

Il disegno di legge sull’autonomia differenziata è stato promosso dal ministro leghista per gli Affari regionali Roberto Calderoli, per riconoscere alle regioni che ne facciano richiesta la facoltà di esercitare poteri e funzioni oggi svolte in via esclusiva o prevalente dallo Stato centrale. È uno dei provvedimenti a cui il leader della Lega Matteo Salvini tiene di più. Il suo proposito, noto da mesi, è di approvarlo in via definitiva prima delle elezioni europee dell’8 e 9 giugno prossimi, così da avere un ottimo argomento di propaganda da potere utilizzare nella fase decisiva della campagna elettorale. Approvato in via definitiva e dopo un faticoso esame al Senato il 23 gennaio scorso, il disegno di legge è poi passato alla Camera, dove è stato assegnato alla commissione Affari costituzionali, che lo sta esaminando dal 14 febbraio.

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Anche qui, i dibattiti sono stati lunghi e accalorati, e hanno generato alcune polemiche anche dentro alla maggioranza, talvolta su scelte apparentemente banali come la definizione del calendario dei lavori. L’accordo trovato dai presidenti dei gruppi parlamentari a fine marzo ha stabilito che il disegno di legge dovesse arrivare in aula il 29 aprile. Le opposizioni hanno subito provato a spostare più in là questo termine, e inizialmente anche Forza Italia lo aveva fatto, chiedendo una maggiore cautela nell’analisi del provvedimento. Ma alla Lega in realtà stava già stretta la scelta del 29 aprile, perché il regolamento della Camera prevede che all’inizio di ogni mese venga ridefinito il calendario dell’aula per i 30 giorni seguenti. Significa che sarebbe bastato un minimo slittamento dei tempi, causato da un imprevisto qualsiasi (per esempio troppi emendamenti da analizzare, o l’assenza del presidente), e si sarebbe persa la garanzia di discutere il provvedimento nel mese di maggio, cioè prima delle elezioni europee.

I ministri Matteo Salvini e Roberto Calderoli nell’aula del Senato, il 15 febbraio 2024 (Mauro Scrobogna/LaPresse)

In un clima simile e su un tema politico così rilevante, era prevedibile che le opposizioni facessero ostruzionismo, tentando di dilatare i tempi del dibattito in commissione per scombinare i piani della maggioranza. Per disinnescare a priori questa tattica delle opposizioni, la Lega aveva chiesto già a febbraio di adottare misure regolamentari per limitare i tempi di discussione. Ma di fronte alle proteste delle opposizioni era stato il ministro per i Rapporti col parlamento Luca Ciriani, di Fratelli d’Italia, a rassicurare che non ci sarebbero state forzature e che il governo non avrebbe in alcun modo interferito coi lavori della Camera. Un concetto ribadito peraltro ancora lunedì scorso dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni.

Ciriani e Meloni hanno espresso posizioni del tutto corrette sul piano formale, ma di fatto hanno delegittimato i tentativi di accelerare i tempi, cosa che ha indispettito gli alleati leghisti.

Martedì le opposizioni hanno depositato 2.453 emendamenti (1.587 di Alleanza Verdi e Sinistra, 570 del Movimento 5 Stelle, 248 del Partito Democratico, e altri 48 di esponenti del Misto, di Italia Viva e di Azione). A questo punto si possono prevedere due scenari, sulla base dei regolamenti e del funzionamento della Camera.

Uno è che la maggioranza decida di terminare in fretta i lavori in commissione, così da votare – bocciandoli – tutti gli emendamenti delle opposizioni, anche ricorrendo a procedure accelerate ma generando nuove polemiche e proteste. Un altro è che decida di andare in aula senza aver terminato i lavori in commissione, costringendo l’aula a ripartire dal testo approvato dal Senato e rendendo dunque sostanzialmente vano tutto il lavoro svolto in commissione. Ma in questo caso il presidente della Camera dovrebbe contingentare i tempi e tagliare a un decimo o a un quinto gli emendamenti depositati dalle opposizioni, e su quel numero ristretto di proposte l’aula dovrebbe votare.

In un caso o nell’altro, è difficile che entro il 9 giugno la Camera approvi in via definitiva il testo. Come ha spiegato mercoledì il capogruppo di Fratelli d’Italia Tommaso Foti, il 29 aprile si avvierà solo la discussione generale, cioè un dibattito preliminare, sul disegno di legge. Dopodiché ci sarà il ponte del primo maggio. Il 6 maggio si dovrà approvare il nuovo calendario dei lavori di un mese in cui dovranno essere approvati anche due disegni di legge (quello sulla cybersicurezza e sulla giustizia, probabilmente a partire dal 13 maggio) e un decreto-legge (quello sul Superbonus, in arrivo dal Senato e da approvare obbligatoriamente entro il 26 maggio). Ma maggio sarà un mese di lavori ridotti per il parlamento, perché, come sempre succede, a ridosso di importanti elezioni politiche l’attività di Camera e Senato viene sospesa per almeno una settimana e procede in generale un po’ a rilento.

Oltre alle questioni procedurali ce ne sono altre politiche. Meloni tiene molto alla riforma costituzionale per l’introduzione del cosiddetto “premierato”, cioè l’elezione diretta del presidente del Consiglio. Da tempo l’accordo trovato con Salvini è che i due procedimenti procedano in parallelo. Il disegno di legge sul premierato, dopo mesi di discussione, terminerà il suo percorso in commissione Affari costituzionali al Senato martedì prossimo, e ci sarà poi verosimilmente bisogno di due settimane perché l’aula lo approvi definitivamente. Il disegno di legge sull’autonomia, invece, ha già ricevuto una prima approvazione dal Senato e deve essere approvato dalla Camera.

Questo “vantaggio” dell’autonomia sul premierato, se così si può dire, ha prodotto uno stallo, perché se l’autonomia venisse approvata definitivamente anche alla Camera prima che il premierato venga approvato in prima lettura al Senato, l’accordo politico tra Meloni e Salvini salterebbe. I tre leader hanno quindi stabilito come unico impegno vincolante che nel mese di maggio il provvedimento sull’autonomia arrivi in aula, e non che venga votato, per il momento.

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In questo contesto di precari equilibri politici, lo scontro tra Lega e Forza Italia si è esasperato negli ultimi giorni. Anche in questo caso, alla base della divergenza ci sono convenienze elettorali.

Forza Italia, che ha un elettorato più consolidato al Sud che al Nord, ha interesse a mostrarsi scettica sull’autonomia differenziata. Per questo dapprima i suoi deputati hanno vagheggiato l’ipotesi di presentare anche loro alcuni emendamenti, con una mossa che però li avrebbe di fatto portati a schierarsi insieme alle opposizioni. Poi, come dicevamo, hanno ostacolato i piani della Lega per accelerare le procedure in commissione Affari costituzionali, presieduta da Nazario Pagano di Forza Italia.

Infine Tajani, durante una conferenza stampa in vista delle elezioni europee, ha detto che per Forza Italia quella dell’autonomia deve «essere una riforma che favorisce tutta l’Italia, da Bolzano a Pantelleria, non deve essere una riforma a vantaggio dell’uno e a danno dell’altro. Vigileremo su questo». Tajani ha poi aggiunto che a suo avviso il dibattito parlamentare «ci sarà nelle prossime settimane» ma «ritengo che il voto ci sarà più in là».

I leghisti hanno reagito male alle parole di Tajani e alla prospettiva di un allungamento dei tempi. Lo stesso Luca Zaia, presidente del Veneto e tra i più accaniti sostenitori dell’autonomia, si è detto infastidito, mentre Flavio Tosi, ex dirigente della Lega e sindaco di Verona e ora coordinatore regionale di Forza Italia in Veneto, ne ha approfittato per attaccare duramente la Lega veneta: mercoledì ha detto che Zaia «strepita senza un perché» e ha rinfacciato alla Lega di non aver fatto nulla in favore dell’autonomia quando, nel 2018 e 2019, era al governo col Movimento 5 Stelle e aveva un alto consenso. Poche ore dopo c’è stata la dichiarazione di Alberto Stefani che ha formalizzato la rottura tra la maggioranza e Forza Italia in consiglio regionale.