Come l’Italia vende armi agli Stati stranieri

Sono le aziende, pubbliche e private, a fare accordi commerciali con gli altri paesi, ma è il governo italiano che deve autorizzare quelle operazioni rispettando una legge del 1990

Foto di un drone dell'esercito italiano in un hangar
Un drone militare dell'Esercito italiano a San Giovanni Rotondo, Puglia, nel 2015 (Rocco Rorandelli/TerraProject/co)
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Il prolungarsi della guerra in Ucraina e di quella a Gaza ha rianimato le discussioni intorno alla vendita o alla cessione di armi ai paesi in guerra. Nel caso dell’Italia le discussioni si sono presto trasformate in polemica politica, a partire dalle prime fasi della guerra in Ucraina, e risentono delle strumentalizzazioni tipiche di questo genere di confronti, specialmente adesso che si avvicinano le elezioni europee, che saranno a giugno. Tuttavia la polemica finisce per alimentare confusioni su cosa significhi davvero che l’Italia vende o armi ad altri paesi.

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La legge che disciplina l’importazione, l’esportazione, il commercio e il transito di armi e munizioni in cui è coinvolta l’Italia è la legge 185 del 1990, aggiornata poi nel 2003. Le aziende del settore degli armamenti e della difesa devono operare nei limiti di quella legge, sapendo però che è sempre il governo, al termine di procedure lunghe e complesse, ad autorizzare i contratti di compravendita nel settore.

Le operazioni commerciali sulle armi avvengono sostanzialmente in un regime che si potrebbe definire di libero mercato vigilato dal governo. Nel senso che le singole imprese – sia quelle private, sia quelle partecipate e controllate dallo Stato – hanno piena libertà di provare a vendere ai governi i propri prodotti. Lo fanno o con commesse dirette, nel caso in cui una certa azienda sia all’avanguardia in una specifica produzione, cosa non così rara per le aziende italiane; oppure partecipando a bandi di gara nel caso in cui un governo voglia prendere in considerazione diverse proposte di vendita, per poi decidere a quale azienda affidarsi. Ma queste operazioni, per potere essere portate a termine, hanno bisogno di una specifica autorizzazione del governo.

Le aziende della difesa italiane possono commerciare in armi e munizioni anche con altre aziende di armi, dunque in una transazione tra privati: è il caso, per fare un’ipotesi, di una azienda statunitense che produce navi da guerra su cui vuole montare cannoni prodotti da un’azienda italiana. In questi casi, però, è necessario che anche l’azienda privata straniera ottenga una specifica autorizzazione del governo del paese in cui ha sede.

I parametri in base ai quali il governo valuta le richieste di operazioni sono in parte fissi, in parte dipendono dalle contingenze. Non si possono infatti fabbricare o vendere armi nucleari, chimiche o batteriologiche. Né si possono esportare armamenti che verranno impiegati in operazioni militari che vadano contro la Costituzione italiana, contro la tutela della difesa nazionale e della lotta contro il terrorismo, e contro gli impegni internazionali assunti dall’Italia: in teoria, quindi, è impossibile per imprese italiane commerciare in armi con paesi che siano potenziali rivali dell’Italia o che adottino pratiche contrarie al rispetto dei diritti umani, o all’utilizzo della violenza come strumento di risoluzione delle controversie.

Tutto ciò è la teoria, appunto. In realtà questi principi sulla carta molto rigorosi sono sempre stati applicati in maniera vaga e lasca. Questo spiega come mai vengano regolarmente autorizzate vendite di armi verso paesi africani o del Medio Oriente che non rispettano affatto gli stessi standard di democrazia e di tutela dei diritti umani previsti dalla Costituzione, e che non sempre condividono le stesse posizioni dell’Italia, dell’Europa e dell’Occidente sul terrorismo.

Poi ci sono parametri che cambiano a seconda del contesto. Sono vietate le esportazioni di armi verso paesi nei cui confronti le Nazioni Unite o l’Unione Europea abbiano dichiarato l’embargo totale o parziale di materiali bellici. Non si possono inoltre autorizzare compravendite o cessioni di armi a paesi coinvolti in una guerra, a meno che il Consiglio dei ministri, cioè il governo, non approvi una specifica deroga autorizzata subito dopo anche dal parlamento.

Giorgia Meloni col presidente ucraino Volodymyr Zelensky, a Kiev, il 24 febbraio 2024 (SERGEY DOLZHENKO/ANSA)

È il caso dell’Ucraina, in guerra con la Russia da più di due anni, per la quale la cessione e il trasferimento di materiale militare sono stati autorizzati dal governo di Mario Draghi con un apposito decreto approvato dal Consiglio dei ministri il 25 febbraio 2022, poche ore dopo l’invasione dell’esercito russo. La deroga è stata poi rinnovata due volte dal governo di Giorgia Meloni: l’ultima, approvata il 21 dicembre 2023, autorizza la prosecuzione del sostegno militare all’Ucraina per tutto il 2024.

Il governo italiano, come un po’ tutti gli altri governi europei, concede armamenti all’Ucraina in vario modo, ma fondamentalmente attraverso lo strumento dello European Peace Facility (EPF), cioè un fondo istituito nel 2021 per finanziare con risorse straordinarie operazioni militari e di assistenza umanitaria che rispondano agli interessi della politica estera e di sicurezza dell’Unione. Per il periodo tra il 2021 e il 2027 il fondo dispone di circa 17 miliardi, reperiti al di fuori del bilancio ordinario europeo con versamenti annuali fatti dai singoli Stati membri. Per quanto riguarda l’Ucraina, all’EPF si può ricorrere in modi diversi, a seconda dei casi e delle convenienze.

Un singolo paese può infatti cedere direttamente armi, munizioni e dispositivi militari vari di sua proprietà e poi chiedere una specie di rimborso all’EPF. Questo avviene quando un paese ha già a disposizione nei propri magazzini riserve pronte per essere inviate in Ucraina, ma al tempo stesso chiede all’Unione Europea di vedersi rimborsato, almeno in parte, per potere rifornirsi nuovamente e non restare sguarnito. Le disponibilità dell’EPF sono insufficienti a ripagare l’intera somma, quindi il rimborso avviene in proporzione al materiale ceduto, a seguito di calcoli un po’ complessi volti a garantire a tutti gli Stati membri una quota dei rimborsi (in sintesi, se il fondo rimborsasse tutti gli Stati con somme corrispondenti al valore effettivo del materiale ceduto non rimarrebbero abbastanza soldi per tutti).

Una procedura analoga viene seguita anche quando un governo possiede nei propri arsenali armi o dispositivi più o meno obsoleti: in questo caso la cessione di armamenti all’Ucraina è anche un modo per avviare un processo di ricambio e rinnovo delle riserve di armi.

Ma attraverso l’EPF si fanno anche procedure più collegiali: un gruppo di Stati membri, cioè, si mette d’accordo per comprare insieme una certa quantità di prodotti militari, con le risorse comuni europee, e poi manda gli acquisti all’Ucraina.

In altri casi, più rari, è direttamente l’EPF, diretto da un comitato con un rappresentante di ciascuno Stato membro ma controllato formalmente dal Consiglio Europeo, che autorizza il governo ucraino ad acquistare sul mercato internazionale degli armamenti tramite le garanzie del fondo.

I singoli Stati possono provvedere a rifornire l’Ucraina anche con una sorta di triangolazione con aziende private del settore. Succede quando i governi commissionano per conto dell’Ucraina la produzione di certi armamenti, garantendo a quelle aziende di ripagare il debito nell’immediato o tramite procedure finanziarie più complesse. Questo vale tanto più nei frequenti casi in cui queste aziende non siano del tutto private ma controllate dai governi, com’è per esempio l’italiana Leonardo, una delle aziende della difesa più efficienti e solide al mondo.

Più semplicemente a volte è il governo ucraino che si accorda con le aziende private europee per ottenere armamenti, pagando quelle commesse anche attraverso i prestiti e i finanziamenti ricevuti dall’Unione Europea. Dopo i primi due anni di guerra in cui i trasferimenti di materiali militari avvenivano attraverso intese tra i governi e gli stati maggiori dell’esercito, e riguardavano armi e macchinari già in dotazione all’esercito italiano, nel 2023 l’Ucraina ha importato armi di nuova fabbricazione da aziende italiane per un valore complessivo di 417 milioni di euro: moltissimo, se si confronta questo dato coi 3,8 milioni del 2022.

Al di là del caso ucraino, che è atipico, il mercato delle armi italiano non risponde solo a logiche economiche: essendo un settore delicato, il governo agisce anche sulla base di questioni diplomatiche. Non a caso nel governo è il ministero degli Esteri che ha l’ultima parola sulle autorizzazioni alla compravendita di armamenti verso altri paesi. Il ministero dirige i lavori dell’Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento (UAMA), un organismo che collabora con un comitato consultivo di esperti che valutano le varie richieste che arrivano dalle aziende, insieme a funzionari dei ministeri della Difesa, dello Sviluppo economico, degli Interni e dell’Economia. Nel 2022 le richieste sono state nel complesso 2.936, e sono state valutate dal comitato nel corso di undici diverse riunioni. L’UAMA fa spesso ispezioni nelle sedi delle aziende: vigila sul rispetto delle direttive e sulla correttezza dei documenti prodotti, che servono al comitato per svolgere le sue analisi. In caso di illeciti può anche sanzionare, nel 2022 lo ha fatto per un valore complessivo di circa 300mila euro.

Queste valutazioni risentono inevitabilmente anche dei rapporti diplomatici che l’Italia ha con i paesi del mondo. Le richieste che riguardano alleati tradizionali dell’Italia ricevono più agevolmente autorizzazioni: tra questi ci sono gli Stati Uniti, la Germania e la Francia, verso i quali dal 2017 al 2022 sono state autorizzate esportazioni di armi rispettivamente per 2,9 miliardi, 2,1 miliardi e 1,6 miliardi. Nel 2022, il 56 per cento del volume di operazioni militari autorizzate calcolato in euro ha riguardato accordi commerciali con paesi dell’Unione Europea e membri della NATO, l’alleanza militare che lega l’Europa agli Stati Uniti.

Il ministro alla Difesa Guido Crosetto, a sinistra, con l’amministratore delegato di Leonardo, Roberto Cingolani, durante l’evento sulla cybersicurezza “Cybertech Europe 2023” a Roma, il 3 ottobre 2023 (ANGELO CARCONI/ANSA)

Al di là dell’importanza che le questioni diplomatiche possono avere, ci sono poi interessi di mercato legate a singole commesse o ad accordi bilaterali particolari. Questo spiega come mai, se nel 2023 il paese verso cui sono state autorizzate maggiori esportazioni di armi è la Francia, nel 2022 era la Turchia, passata dal 17esimo posto nella classifica dei partner commerciali nel 2021 (appena 41,5 milioni di euro) al primo posto l’anno seguente, con operazioni autorizzate per 598 milioni di euro, tra cui la fornitura di 15 costosi elicotteri di AgustaWestland, società controllata da Leonardo.

Inoltre, il paese a cui le aziende italiane hanno venduto più armi nel periodo tra il 2017 e il 2023 è il Qatar, verso cui sono state autorizzate operazioni per 7,4 miliardi (di cui 4,2 nel solo 2017). Questo succede perché nel 2017 il Qatar fece un accordo per la fornitura di 24 cacciabombardieri col consorzio europeo Eurofighter, di cui Leonardo è un partner fondamentale, e firmò un altro rilevante contratto con l’italiana Fincantieri per l’acquisto di sette navi militari. Nel 2023, invece, non essendosi realizzati grandi accordi tra il Qatar e le aziende della difesa, il valore delle esportazioni è stato di appena 62 milioni.

Paesi europei e membri della NATO a parte, l’area geografica verso cui l’Italia esporta il maggior numero di armi (il 15,3 per cento totale del valore in euro) è l’Africa settentrionale e il Medio Oriente. In quest’area, i principali partner commerciali delle aziende italiane della difesa nel 2023 sono stati l’Arabia Saudita (363 milioni di euro), il Kuwait (125 milioni), il Qatar (62milioni), gli Emirati Arabi Uniti (57 milioni), il Marocco (39 milioni), l’Egitto (37 milioni) e l’Algeria (22 milioni). All’ottavo posto in quest’area, due posizioni più in basso rispetto al 2022, c’è Israele, che non compare tra i 25 principali partner. A Israele sono state vendute armi da aziende italiane per 9,9 milioni di euro, tramite 23 operazioni autorizzate, in sostanziale linea con l’anno precedente, quando c’erano state 25 autorizzazioni per 9,2 milioni di euro.

Queste cifre provengono dalla Relazione sulle operazioni autorizzate che ogni anno, entro il 31 marzo, il governo è obbligato a trasmettere al parlamento con i dati aggiornati al 31 dicembre precedente. Nella relazione vengono riportate anche tutte le singole operazioni bancarie fatte per la compravendita di armi, che le aziende e le banche coinvolte devono comunicare al ministero dell’Economia.

La stessa relazione, firmata dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, dice che dopo l’attacco di Hamas il 7 ottobre 2023 e il conseguente avvio della guerra a Gaza, l’UAMA ha dovuto «valutare la concessione di nuove autorizzazioni verso Israele con particolare prudenza». Di conseguenza, «è stata, come noto, sospesa la concessione di nuove autorizzazioni all’esportazione di armamenti».

Dalla relazione si evince anche il ruolo predominante di Leonardo in questo settore. La società, controllata dal ministero dell’Economia per il 30 per cento del suo capitale sociale, ha realizzato da sola il 27 per cento del valore complessivo delle operazioni autorizzate nel 2023 (nel 2022 quel dato era il 47 per cento), seguita da RWM Italia (12,9 per cento), Iveco Defence Vehicles (11,3 per cento) e Avio (8,2 per cento).