Amazon è un brutto posto in cui lavorare?

Un articolo del New York Times ha messo insieme una serie di inquietanti testimonianze, il fondatore Jeff Bezos ha protestato che lui per primo non lavorerebbe in un'azienda così

(AFP PHOTO/Emmanuel Dunand)
(AFP PHOTO/Emmanuel Dunand)

La famosa società di e-commerce Amazon è considerata una delle aziende più di successo al mondo: impiega circa 150mila persone, meno di un mese fa è stata valutata 250 miliardi di dollari, ha milioni di soddisfatti clienti e attualmente sta costruendo a Seattle un’enorme struttura sferica che nel 2018 ospiterà circa 50mila dipendenti; Jeff Bezos, il suo fondatore e CEO, è ritenuto da Forbes la quinta persona più ricca al mondo. Secondo una lunga inchiesta pubblicata sul New York Times – che ha detto di aver sentito più di 100 persone che lavorano o hanno lavorato per Amazon – la sua divisione amministrativa è però un posto di lavoro sgradevole e brutalmente competitivo.

Da anni le dinamiche di lavoro molto competitive delle grandi aziende statunitensi in generale, e di Amazon in particolare, sono considerate controverse, e di tanto in tanto emergono isolate storie di condizioni di lavoro durissime, e il genere giornalistico “inchiesta contro Amazon” è stato molto frequentato: nel 2013, per esempio, si discusse molto un articolo di una giornalista del Guardian che aveva trascorso una settimana a lavorare in un magazzino di Amazon in Regno Unito. L’inchiesta pubblicata dal New York Times, però, è la più estesa e autorevole mai circolata finora su episodi che riguardino la dirigenza e il personale amministrativo.

Secondo l’articolo, i dipendenti e dirigenti di Amazon sono incoraggiati a non avere un orario di lavoro fisso, finendo quindi per lavorare spesso anche di notte e nei weekend. Il fatto che Amazon inviti i suoi dipendenti a essere “radicalmente” schietti durante le riunioni di lavoro e scrivere numerosi feedback sui propri colleghi di lavoro, anche tramite appositi software di valutazione, secondo il New York Times innesca un meccanismo per cui i dipendenti che ricevono cattive “recensioni” o che per diverse ragioni – anche familiari o di salute – lavorano meno di 80 ore a settimana vengono rimproverati o emarginati. Secondo i dipendenti sentiti dal New York Times, queste dinamiche hanno trasformato l’iniziale modello “meritocratico” di Bezos – in cui persone e idee si scontrano per far emergere le migliori – in «un luogo di scontro» e basta: una specie di gara di resistenza a chi crolla per ultimo. John Rossman, un ex dirigente di Amazon che nel 2014 ha pubblicato un libro sulla sua esperienza intitolato The Amazon Way, l’ha definita «il miglior posto di lavoro dove ho odiato lavorare».

Dopo la pubblicazione dell’articolo sul New York Times, Jeff Bezos ha inviato ai dipendenti di Amazon una lettera in cui dice che lui non avrebbe nessuna intenzione di lavorare in un’azienda come quella descritta dall’articolo, e invita i dipendenti a segnalare ai responsabili delle risorse umane o anche direttamente a lui eventuali episodi simili a quelli raccontati, alludendo alla loro inesistenza. Bezos ha poi difeso in maniera molto netta la sua azienda – ricevendo fra l’altro il sostegno di altri importanti dirigenti di aziende di tecnologia – senza entrare nel merito delle accuse ma spiegando che «chiunque lavori in un’azienda come quella descritta, sarebbe pazzo a rimanerci. Lo so bene, perché io stesso lascerei quell’azienda».

Cosa c’è nell’inchiesta del New York Times
Secondo il New York Times alla base dei numerosi conflitti e pressioni raccontati dai dipendenti di Amazon c’è il manifesto dei valori dell’azienda, che Amazon chiama “i principi della Leadership”. Al primo posto c’è l’ossessione per il cliente, uno dei principi cardine del pensiero di Bezos e dell’intera società (il cui servizio clienti è spesso citato fra i più efficienti al mondo). Più avanti ci sono valori comuni a diverse aziende di tecnologia – “pensa in grande”, “sii curioso”, “tieni alta l’asticella” – assieme ad altri meno scontati, come per esempio la “frugalità”. Uno dei valori più importanti, secondo gli stessi dipendenti, è il numero 13: «Mostra di avere la spina dorsale. Fai notare quando non sei d’accordo e difendi la tua posizione». Nella spiegazione del principio, l’azienda scrive:

I veri leader hanno l’obbligo di contestare rispettosamente le decisioni con cui non sono d’accordo, anche a costo di tenere un atteggiamento sgradevole o pressante. I leader hanno proprie, solide convinzioni: e non scendono a compromessi in nome della coesione dell’ambiente sociale.

Dentro e fuori dalle riunioni, i dipendenti di Amazon sono portati a essere “ostili” e prestare molta attenzione alla propria immagine di lavoratore “leader”, dalle convinzioni e dai comportamenti forti. Di conseguenza, scrive il New York Times, essere trattati in modo rude e scortese è la norma:

Tutti sono incoraggiati a demolire le idee degli altri durante le riunioni e lavorare molto molto sodo per rispettare gli standard che la stessa società definisce «irragionevolmente alti». Le email girano anche dopo mezzanotte, seguite da SMS che chiedono perché non abbiano ancora ricevuto una risposta. Alcuni strumenti – come l’Anytime Feedback Tool – invitano a fornire in continuazione feedback su altri colleghi ai loro capi. Secondo i dipendenti, questi strumenti vengono frequentemente utilizzati per danneggiarsi a vicenda (una frase standard di questi sistemi recita: «Sono preoccupato per la sua scarsa propensione alla flessibilità e le sue lamentele per lo svolgimento di alcuni piccoli compiti»).

La critica costante è talmente integrata nello “stile” dei dipendenti, scrive il New York Times, che viene impiegata in qualsiasi occasione.

Nel 2012 Chris Brucia, che stava lavorando a un nuovo sito per la vendita di capi di abbigliamento, ricevette una lunga strigliata dal suo capo, che per mezz’ora gli elencò gli obiettivi che non aveva raggiunto e le competenze che ancora non possedeva. Lui ascoltò in silenzio: pensava che il capo lo stesse licenziando e iniziò a pensare a come lo avrebbe detto a sua moglie. Alla fine del discorso, il suo capo gli disse: «congratulazioni, sei stato promosso», alzandosi per ricevere un abbraccio. Brucia rimase così sconvolto che non riuscì a ricambiare il gesto.

Lo stesso ambiente di lavoro – in nome della “frugalità” – è molto diverso da quello di altre aziende di tecnologia: Google e Facebook mettono a disposizione pranzi gratis, offrono bonus e congedi di maternità e paternità; i dipendenti di Amazon, invece, dispongono di cellulari e scrivanie “ridotti all’essenziale”, e devono spesso pagare per sé le spese dei viaggi di lavoro.

L’articolo del New York Times insiste molto su alcune storie particolarmente tristi di dipendenti – spesso donne – emarginati in seguito a una malattia, una gravidanza o un problema familiare.

Molly Jay, uno dei primi membri dello staff che si occupava del Kindle, aveva ricevuto per anni recensioni molto alte. Ma quando cominciò a viaggiare più spesso per prendersi cura di suo padre, che aveva un tumore, fu costretta a ridurre le ore di lavoro durante la notte o i weekend. La sua condizione cambiò: a suo dire, le fu impedito il trasferimento in una divisione con meno pressioni e il suo capo le disse chiaramente che era diventata “un problema”. Poco prima della morte di suo padre, prese un congedo non pagato e successivamente decise di non tornare in Amazon: «nel momento in cui non sei più in grado di dare tutto, di lavorare 80 ore a settimana, per loro diventi un grosso peso».

Un’altra dipendente ebbe un aborto spontaneo di due gemelli il giorno prima di essere costretta a fare un viaggio di lavoro. Il capo le disse: «mi dispiace, ma il lavoro è lì che aspetta di essere svolto. A questo punto della tua vita, visti i tuoi vari tentativi di avere una famiglia, non so se questo sia il posto giusto per te». Una donna che aveva sofferto di cancro al seno fu messa in un “programma di miglioramento delle proprie prestazioni” – nel gergo di Amazon significa “sei a rischio licenziamento” – perché i “problemi” relativi alla sua “vita personale” aveva inciso sui suoi obbiettivi prestabiliti.

Il New York Times scrive che ad Amazon è comune assistere a un ricambio continuo di dipendenti e dirigenti: Amazon stessa ha ammesso che solo il 15 per cento dei propri dipendenti lavora nell’azienda da più di cinque anni, ma considera il dato positivo e indicativo della sua costante espansione. Secondo molti dipendenti, però, non è un caso che Amazon si comporti in questo modo: un ambiente di lavoro del genere porta molti a dare il meglio di sé, e a far rimanere solo i più motivati e affidabili. Robin Andrulevich, un ex dirigente della divisione risorse umane che ha collaborato alla stesura dei Principi, lo ha definito «un darwinismo consapevole»: «non avrebbero mai potuto ottenere ciò che hanno raggiunto, senza di esso».

Cosa ha risposto Amazon
Di norma né Amazon né il suo fondatore, Jeff Bezos, rispondono agli articoli critici pubblicati dalla stampa. Stavolta invece è stata diffusa l’email inviata da Bezos ai dipendenti di Amazon:

Cari Amazonians,

se non lo avete già fatto, vi invito a leggere con attenzione questo (molto lungo) articolo del New York Times. Vi invito anche a leggere questo punto di vista di un dipendente di Amazon molto diverso.

Ecco perché vi scrivo. L’articolo del New York Times contiene e mette in grande evidenza storie di pratiche amministrative incredibilmente scioccanti, comprese alcune che riguardano persone trattate senza alcuna empatia durante tragedie familiari e gravi problemi di salute. Questo articolo non descrive l’Amazon che conosco e i dipendenti premurosi con cui lavoro ogni giorno. Ma se siete a conoscenza di storie come quelle contenute nell’articolo, voglio che le segnaliate alle risorse umane. Potete anche scrivere direttamente a me, all’indirizzo jeff@amazon.com. Anche se si tratta di situazioni rare o isolate, la nostra tolleranza per casi come questi dev’essere zero.

L’articolo però va oltre gli aneddoti isolati. Sostiene che il nostro approccio voglia intenzionalmente creare un posto senza anima, un luogo di lavoro distopico dove non ci si diverte e non si ride mai. Di nuovo: non riconosco Amazon in questa descrizione e spero davvero che non la riconosciate nemmeno voi. Più in generale, non credo che nessun’azienda che adotti questo approccio possa sopravvivere, figuriamoci avere successo, in un mercato del lavoro competitivo come quello delle aziende tecnologiche. Le persone che assumiamo qui sono le migliori tra le migliori. Persone cercate dalle migliori aziende del pianeta e che possono lavorare in qualsiasi posto vogliano.

Credo fermamente che chiunque lavori in una società che funzioni come quella descritta dal New York Times sarebbe pazzo a restarci. Io so che me ne andrei da una società del genere.

Ma mi auguro che voi non vi riconosciate in quella descrizione. Mi auguro che vi divertiate lavorando con i vostri brillanti colleghi, inventando il futuro e ridendovela nel frattempo.

Grazie,
Jeff