Oh Mercy (1989)
(Il disco precedente: The Traveling Wilburys Vol. 1
Il disco successivo: Under the Red Sky).
Broken idols, broken heads. People sleeping in broken beds.
Ain’t no use jiving, ain’t no use joking:
Everything is broken.
Scusate, sono un po’ in ritardo coi dischi di Dylan, però non avete idea di cosa mi è successo questa settimana. Tanto per cominciare c’è puzza – dovrei telefonare all’amministratrice ma mi si è rotto il telefono – il modem di casa mi sta morendo, niente linea fissa. È da tre mesi che lo voglio cambiare ma Telecom Italia (sì dico proprio a te amica TIM) non riesce a farmi un contratto. Chiamarli al telefono è inutile, dovrei uscire ma si è rotto il ventilatore dell’auto, o va al massimo o non va, e mi è anche venuta un po’ di bronchite. L’elettrauto doveva cambiarmi la resistenza, ma non riescono a collegarsi con la casa madre, non gli funziona la rete. Forse volevano passare a TIM anche loro. Anche a scuola c’è puzza, per un cantiere dicono, che però è bloccato perché hanno rotto qualcosa. Non riesco a configurare in rete la fotocopiatrice del plesso. In seconda un nativo digitale si è appeso al cavo di alimentazione di una LIM (le LIM si rompono continuamente). I genitori che fanno le collette per le LIM, anche loro si rompono spesso. Mentre penso a tutto questo mi chiama una signora dall’Albania e mi chiede se per caso non vorrei passare a TIM. Mi lasci perdere signorina, le dico, tra me e TIM ormai c’è una storia troppo complicata, ne stia fuori, le conviene: ma lei insiste, occupando l’unica linea telefonica che mi funziona (così i colleghi che hanno rotto qualcosa non mi possono chiamare). Per comprare un modem nuovo potrei usare il Bonus Docente, ma anche lì si dev’essere rotto qualcosa, non mi riconosce la password. Neanche il codice di emergenza. Rotto anche quello. Il Bonus Docente poi devo stare attento a usarlo, mi serve anche per la Nuova Piattaforma Formativa del Ministero, che è appena nata e si è già, ovviamente, rotta. La signorina insiste che lei risolverà qualsiasi problema tra me e TIM, dall’Albania, lei non è come tutte le altre che ci hanno provato da giugno in poi. Entra un ragazzo e chiede se lo stereo funziona, ne ha bisogno la collega d’inglese. Lo stereo sì, ma il cavo di alimentazione l’altro giorno ha fatto saltare una valvola in mezzo corridoio. Sotto il corridoio c’è una stanza, io lo so che c’è, piena di cose che si sono rotte o sono state dichiarate tali. Bisognerebbe caricarle su un furgone e portarle in discarica, ma suppongo sia rotto anche il furgone. Oppure prendersi un paio di ragazzi e cercare di capire cosa è rotto davvero e cosa potremmo ancora recuperare – sarebbe molto bello ma anche i ragazzi rischiano di rompersi, bisogna far firmare un’autorizzazione ai genitori, con cosa la stampo? La stampante è rotta. Dovrei configurare la fotocopiatrice. Oh, pietà.
Broken cutters, broken saws. Broken buckles, broken laws
Broken bodies, broken bones. Broken voices on broken phones.
Take a deep breath, feel like you’re chokin’:
Everything is broken
What good am I then to others and me
If I had every chance and yet still fail to see
If my hands are tied must I not wonder within
Who tied them and why and where must I have been
Most of the time I’m clear focused all around;
Most of the time I can keep both feet on the ground.
I can follow the path, I can read the signs
Stay right with it when the road unwinds
I can handle whatever I stumble upon
I don’t even notice she’s gone
Most of the time
Un altro posto dove tutto sembrerebbe rotto è la biblioteca di Babele, quella di Borges. Dentro ci sono tutti i libri che si possono scrivere – il che significa che per un volume con un briciolo di senso ce ne sono miliardi composti di stringhe di lettere senza significato. Gli abitanti della biblioteca si aggirano per il loro universo ripetendosi, come noi, che è tutto rotto, ogni libro è rotto, e non c’è rimedio. In uno degli scaffali c’è un libro che contiene un racconto molto singolare. Comincia esattamente come il quarto capitolo di Chronicles I: c’è Dylan preoccupato perché si è rotto una mano, non sa se ne recupererà la sensibilità, e questa disgrazia domestica gli è successa proprio nel momento in cui ha solo voglia di suonare. Non vuole più scrivere canzoni – dice che ne ha scritte già abbastanza e nel 1988 sembrava un argomento sensato. Gli si è rotta l’ispirazione. Non vuole nemmeno più incidere, ormai le sale d’incisione sono diventate luoghi dove si trova a disagio e non riesce a combinare niente di buono. Gli si è rotta la concentrazione. Vuole soltanto cantare e suonare dal vivo, ma gli servono le mani e si è rotto anche quelle. Oh, merda.
Far away where the soft winds blow, far away from it all
There is a place you go where teardrops fall.
È il momento in cui in una leggenda apparirebbe un santo o una madonna; in questo caso entra Bono con una cassa di Guinness. Dylan lo frequenta da qualche tempo: ci ha cantato assieme in Sun City, hanno duettato in Rattle and Hum, c’è stima reciproca – forse perché Bono è l’unico artista al mondo che sostiene di amare Shot of Love. A questo punto della storia Bono è la Voce del Rock, e non solo. Ha combattuto l’apartheid, ha pianto con le madri di Plaza de Mayo e coi minatori inglesi in sciopero. Ma che importanza ha visitare i carcerati e sfamare gli affamati, se Bob Dylan nel frattempo continua a fare dischi di merda? Così, dopo aver ben chiuso le 99 pecorelle nel recinto, Bono parte per Malibu con una missione: salvare Bob Dylan, condurlo da Daniel Lanois. Il produttore che lo salverà. Oh, grazia.
Seen a shooting star tonight and I thought of you
You were trying to break into another world
A world I never knew
I always kind of wondered if you ever made it through
Seen a shooting star tonight and I thought of you
Ring them bells, ye heathen from the city that dreams
Ring them bells from the sanctuaries
’Cross the valleys and streams
For they’re deep and they’re wide
And the world’s on its side
And time is running backwards
And so is the bride
Lanois aveva reso la voce di Bono l’assoluta protagonista di Joshua Tree. Era abbastanza inevitabile che lui e Dylan si incontrassero, presto o tardi. Forse successe troppo presto, ma per Dylan aveva tutta l’aria dell’ultimo tentativo. Arrivò in Lousiana con qualche testo scritto, nemmeno una musica. Per quel che ne sappiamo, Dylan aveva scritto testi senza musica solo ai tempi di John Wesley Harding. Ora però, forse a causa della mano convalescente, si ritrovava nella situazione di chi ha parole e non ha note. Il risultato è una maggiore attenzione al ritmo e al suono delle sillabe; certi testi di Oh Mercy sembrano nati come filastrocche, scioglilingua. Non è la prima volta che Dylan si affida agli aspetti più formali del linguaggio: gli era già capitato ad esempio con All I Want to Do (e già allora l’espediente serviva a smarcarsi: tutti volevano che lui scrivesse inni generazionali, lui si metteva a scrivere filastrocche). Il suo gioco preferito, l’anafora, ritorna prepotente in Everything is Broken, ma a ben vedere è la trama di tutto il disco. I titoli di Oh Mercy sono le arie su cui Dylan costruisce variazioni nelle sue strofe, giocando con le rime e sapendo che alla fine deve tornare a scandire “Man in the long black coat”, “Disease of conceit”, “What good am I?” o “Most of the Time”. Certe parole le ripete così tanto che finiscono per perdere il significato. È il caso di “disease of conceit”, che Dylan ha deciso di ripetere al termine di ogni verso della canzone omonima.
There’s a whole lot of people suffering tonight
from the disease of conceit.
Whole lot of people struggling tonight
from the disease of conceit…
All’inizio sei propenso a considerarla un “disagio dell’orgoglio”, di cui siamo sicuramente tutti afflitti, una delle malattie della contemporaneità, bla bla. Ma lui ci insiste così tanto, e così meccanicamente, che ti viene il sospetto che stia raccontando una storia su una specie di pandemia misteriosa.
There’s a whole lot of hearts breaking tonight
From the disease of conceit
Whole lot of hearts shaking tonight
From the disease of conceit
Steps into your room, eats your soul
over your senses, you have no control.
Ain’t nothing too discreet – about the disease of conceit.
Pare che si tratti di una cosa per cui non c’è cura – i dottori hanno fatto un sacco di ricerche, ma per ora niente da fare. Dice proprio così. Ci sta prendendo in giro? È difficile capire, la musica è molto austera, senza sbavature. Lou Reed era entusiasta, e si capisce: ha lo stesso minimalismo cocciuto di certe canzoni di Songs for Drella. Anche la “politica” di Political World sembra non essere proprio “politica” in senso stretto – a meno di non considerare Dylan nel 1989 quel tipo di vecchietto che si mette a borbottare sulla panchina “la politica è una cosa sporca”, e in effetti un po’ già ci assomiglia. In ogni caso si tratta di testi che hanno perso tutta la magniloquenza con cui Dylan era entrato negli anni ’80: sono secchi, umili, apparentemente intimi, eppure Dylan non riesce a specchiarcisi. “Io non c’ero”, dice di Political World. Non l’ha scritta per esprimersi. Neanche perché gli premesse dire qualcosa. L’ha scritta – di getto – perché, finalmente, una sera ne è stato capace: oh, grazia. Sono incastri di parole, puzzle nemmeno troppo difficili. Sono tutto quello che portava in valigia a Daniel Lanois un convalescente sulla soglia della cinquantina, esaurito e disilluso. Daniel Lanois invece voleva lavorare col grande Bob Dylan. Non l’aveva capito che si era rotto tutto, e da un bel pezzo? Non aveva un po’ di pietà?
Di tanto in tanto, mentre registravamo Series of Dream, mi diceva: “Abbiamo bisogno di canzoni come Masters of War, Girl from the North Country o With God on Our Side“. Cominciò a tormentarmi, un giorno sì e uno no, che avevamo bisogno di cose di quel tipo. Io annuivo. Lo sapevo anch’io, ma mi veniva voglia di ringhiare. Non avevo niente di paragonabile a quelle canzoni.
Nel lungo percorso che stiamo percorrendo, Oh Mercy è senz’altro una pietra miliare. Pochi dischi segnano la strada di Dylan in modo così netto, dividendola in un prima e in un dopo. Prima di Oh Mercy c’era una traiettoria discendente il cui esito sembrava chiaro e vicino. Era un’impressione condivisa da ascoltatori, critici e dallo stesso Bob Dylan. Dopo Oh Mercy, e una lunga fase di incubazione che prende quasi tutto il decennio successivo, c’è quel miracolo che riscatta tutta la storia – ovvero a un certo punto Dylan, invece di lasciarsi spegnere, come stava succedendo negli anni Ottanta e come in fondo era naturale che succedesse… si è bloccato. Ha smesso di consumarsi. Come se avesse trovato una nuova fonte di energia. E l’ha trovata davvero. Si è rimesso a suonare dal vivo, e non ha mai suonato così tanto. Si è rimesso a fare dischi e ha scoperto, a sessant’anni, che è persino capace di produrli – lui che in studio ormai nemmeno riusciva a entrare. Si è rimesso a scrivere canzoni e ne ha scritte di ottime. Ha scelto la vita, per la seconda volta. La prima volta, nel 1966 aveva rifiutato di sfracellarsi su una moto (com’era naturale che succedesse). Tra Ottanta e Novanta dev’essere successo qualche altro strano non-incidente, ma è difficile capire esattamente dove, quando, cosa. Lui stesso non ne è sicuro, anche se il quarto capitolo di Chronicles sembra scritto da una persona che vorrebbe capire, vorrebbe ricordarsi. È vero, ci sono stati episodi che sembrano miracoli – quella passeggiata notturna a San Rafael, quel concerto in Svizzera, ma quel che è accaduto in seguito non sembra per nulla miracoloso. Dylan va in Lousiana, decide che Lanois gli va a genio e comincia a lavorare con lui, con poche idee e un’insolita arrendevolezza. A questo punto la versione ufficiale è che Lanois riesca a riparare il grande Bob Dylan e a cavargli di gola un capolavoro – per molti dylaniti Oh Mercy lo è. Oh, finalmente!
Io sapevo cosa stava cercando. Stava cercando canzoni che mi definissero come persona, ma quello che io faccio in studio non mi definisce come persona. Ormai si sono accumulate troppe migliaia di pagine a caratteri di stampa troppo piccoli perché una cosa del genere possa accadere. Ma come cantante mi stava aiutando. Come cantante, puoi anche morire se non hai microfoni e altopalranti giusti, e Lanois faceva del suo meglio per trovare le giuste combinazioni. Di solito, quando lasciavo lo studio a notte fonda, ero in uno stato d’animo piuttosto freddo. “Danny”, gli dicevo qualche volta, “siamo ancora amici?”
What good am I then to others and me
If I’ve had every chance and yet still fail to see
If my hands are tied must I not wonder within
Who tied them and why and where must I have been?
Most of the time I’m halfway content
Most of the time I know exactly where it went
I don’t cheat on myself, I don’t run and hide
Hide from the feelings that are buried inside
I don’t compromise and I don’t pretend
I don’t even care if I ever see her again
Most of the time
Per una coincidenza, o per Zeitgeist, il pubblico cominciava a essere pronto per un disco di Dylan quasi sussurrato. Perlomeno eravamo pronti noi che cominciavamo a invitarci, la sera, nelle reciproche camerette, e versarci del vino e ascoltare qualcosa di tranquillo in sottofondo. Ma in realtà era troppo presto. Stavamo soltanto giocando a fare gli adulti, e di lì a poco ci saremmo stancati, avremmo di nuovo alzato il volume a undici. Anche Dylan.
Seen a shooting star tonight
And I thought of me
If I was still the same
If I ever became what you wanted me to be
Did I miss the mark or overstep the line
That only you could see?
Seen a shooting star tonight
And I thought of me
Ecco cos’era: io non avevo intenzione di esprimere me stesso, tutte le mie maniere erano intatte così come lo erano da anni. Non c’era molta possibilità di cambiare ormai. Non avevo bisogno di scalare un’altra montagna. Se mai, quello che volevo fare era assicurarmi di essere ben piantato lì dove stavo. Non ero sicuro che Lanois l’avesse capito. Credo di non averglielo mai spiegato, non riuscivo a trovare le parole per dirlo.
…ma al primo incrocio, la moto sbanda ed esplode. Bob Dylan muore sul colpo. La moglie si sveglia dal coma solo due settimane dopo e non ricorda l’incidente (ricorda invece di essere la vedova Dylan, ma nessuno le crede). Oh Mercy viene pubblicato postumo, con la versione funky di Political World e tanti altri piccoli accorgimenti di Lanois che Dylan non può più contestare. È ovviamente un successo planetario. Il racconto termina con una piccola coda. Nel suo superattico a New York, Bono si gusta una Guinness mentre ascolta Most of the Time. È una canzone che fa venire i brividi, anche se in effetti in qualche passo l’arrangiamento ricorda un po’ All I Want is You, la sigla in coda a Rattle and Hum. Bono piange dall’emozione, dalla commozione, anche un po’ dal rimorso, insomma frigna come una fontana.
“Non fare così Paul”, dice dalla penombra un uomo che non si è ancora tolto il lungo soprabito nero.
“Abbiamo fatto qualcosa di orribile, Daniel”.
“Abbiamo fatto qualcosa di magnifico”.
“Ma anche di orribile. Abbiamo ucciso Bob Dylan”.
“Era già morto, Paul”.
“È solo un modo di dire”.
“Era morto nel 1966, sul Glasco Turnpike. Quel che era sopravvissuto era uno zombie. Un’anima in pena. Era rotto, irriparabile, in attesa che qualcuno lo portasse via. Abbiamo fatto la cosa giusta. Abbiamo avuto Pietà”.
“Quella moto…”
“L’abbiamo fatta venire apposta dalla Florida. Una Police Special del 1966. Lo sai che mi piace lavorare con strumenti d’epoca. Mi ci trovo a mio agio”.
“A volte mi fai paura”.
“Abbiamo salvato un’anima in pena. Gli abbiamo restituito la sua grandezza. E gli abbiamo dato la fine che aveva sempre cercato. Più di così non potevamo fare”.
“Non lo so… forse potevi…”
“Cosa?”
“Aggiungere qualche pezzo un po’ più movimentato, ecco”.
“Vaffanculo Paul, la prossima volta mandaci Brian Eno, vuoi? vediamo cosa combina lui, vediamo”.
“Oh, fammi il favore”.
(Gli altri pezzi: 1962: Bob Dylan, Live at the Gaslight 1962, 1963: The Freewheelin’ Bob Dylan, Brandeis University 1963, Live at Carnegie Hall 1963, 1964: The Times They Are A-Changin’, The Witmark Demos, Another Side of Bob Dylan, Concert at Philharmonic Hall, 1965: Bringing It All Back Home, No Direction Home, Highway 61 Revisited, 1966: The Cutting Edge 1965-1966, Blonde On Blonde, Live 1966 “The Royal Albert Hall Concert”, The Real Royal Albert Hall 1966 Concert, 1967: The Basement Tapes, John Wesley Harding, 1969: Nashville Skyline, 1970: Self Portrait, Dylan, New Morning, Another Self Portrait, 1971: Greatest Hits II, 1973: Pat Garrett and Billy the Kid, 1974: Planet Waves, Before the Flood, 1975: Blood on the Tracks, Desire, The Rolling Thunder Revue, 1976: Hard Rain, 1978: Street-Legal, At Budokan, 1979: Slow Train Coming, 1980: Saved, 1981: Shot of Love, 1983: Infidels, 1984: Real Live, 1985: Empire Burlesque, Biograph, 1986: Knocked Out Loaded, 1987: Down in the Groove, Dylan and the Dead, 1988: The Traveling Wilburys Vol. 1, 1989: Oh Mercy, 1990: Under the Red Sky, Traveling Wilburys Vol. 3).
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