Another Self Portrait (1969–1971) (The Bootleg Series Vol. 10, 2013).
(Il disco precedente: New Morning
Il disco successivo: Greatest Hits II).
Ho cominciato a dedicare un pezzo a ogni disco di Dylan nel dicembre dell’anno scorso. Ne ho scritto uno alla settimana; siamo in maggio e stiamo finalmente uscendo dagli anni ’60 (il 1970 tecnicamente fa parte degli anni ’60, lo so, non ha senso). Se non mi ammalo, se non mi promuovono a un ruolo di più grandi e onerose responsabilità, se non mi stanco, se al Post non mi chiudono l’account (nel caso, come biasimarli), se continuo a scrivere un pezzo alla settimana, a Natale dovrebbe uscire la recensione di Christmas in the Heart. Non è un bell’obiettivo? Sarà bellissimo, un quell’ovattata atmosfera scampanellante, scrivere due cazzate su Christmas in the Heart. Invece adesso è maggio e bisogna scrivere un pezzo su Another Self Portrait. Conoscete qualcuno che abbia ascoltato tutto Another Self Portrait?
Che fretta hai? Guarda un po’ qui,
questo è il numero che non ti devi perdere.
Annie canterà la sua canzone, si chiama Take Me Back Again.
(L’ha scritta Tom Paxton, il primo folksinger del Village che cominciò a scriversi le canzoni da solo, qualche mese prima che ci arrivasse Bob Dylan. È ancora in attività).
Del Dylan pittore non m’intendo molto, ma la sua copertina per Another Self Portrait è molto significativa (forse è la cosa migliore di tutto il cofanetto). L’autoritratto su sfondo nero assomiglia a Dylan ma non assomiglia a nessun altra foto o ritratto di Dylan. Richiama irresistibilmente quello che un Dylan molto più giovane e goffo sbozzò sulla copertina di Self Portrait nel 1970. È come se il Dylan più anziano ed esperto abbia rimesso mano alla stessa tela, miracolosamente ancora fresca di pittura, e l’abbia rimaneggiata fino a trasformarla in quell’autoritratto che 40 anni prima era venuto un po’ troppo naif e pasticciato. Col nuovo ritratto insomma Dylan ci dice che (1) ha finalmente imparato a dipingere; (2) nel 1970, più che provocatorio, era incapace, e 40 anni dopo sente ancora il desiderio di correggersi; (3) i ricordi non si congelano in canzoni o fotografie; i ricordi sono pittura sempre fresca, che in qualsiasi momento si può rimescolare, per errore o per nostra volontà. Quello che Dylan fa al suo ritratto, è quello che facciamo tutti noi ogni giorno ai nostri ricordi. Cambiamo ogni cosa che ricordiamo: rendiamo i noi stessi di venti, di trent’anni fa, più simili a noi di quanto non fossero davvero. Di loro vediamo soltanto quello che preferiamo vedere, quello che ci aiuta a capire o spiegare chi siamo noi adesso. Chi conserva diari o foto conosce il fenomeno: la persona che ricordiamo è molto diversa da quella che risulta dai suoi scritti e sulla pellicola. Dylan ha i suoi ricordi – e li modifica continuamente – ma ha anche una quarantina di dischi che non credo riascolti spesso. Gli devono dare la stessa nausea che una volta ci dava la nostra voce registrata. Molto spesso quando ne parla li confonde, si capisce che li conosce meno dei suoi intervistatori.
In Chronicles qualsiasi conversione è rinnegata, indossare una kippah è come rovesciarsi whisky addosso, un camuffamento, un ingaglioffimento. Anche incidere certi dischi ha lo stesso senso: “Di ritorno, registrai un disco che aveva l’apparenza di un country-western e feci in modo che avesse un suono ben imbrigliato e addomesticato. I critici musicali non sapevano come giudicarlo. Usai anche una voce diversa. La gente si grattava la testa. […] Dagli articoli che uscivano su di me risultava che stavo cercando me stesso, che ero entrato in un processo di ricerca spirituale, che soffrivo di tormenti interiori. A me andava tutto bene. Feci uscire un disco (un doppio) dove non feci altro che tirare contro un muro tutto quello che avevo sottomano. Quello che ci restava attaccato lo pubblicai, poi andai a raccogliere anche il resto che non ci era rimasto attaccato e pubblicai anche quello“.
Dunque. Il disco doppio è senz’altro Self Portrait, di cui Dylan ribadisce la natura di gesto provocatorio (“tirare contro un muro tutto quello che avevo sottomano“) ma anche la consistenza, per così dire, escrementizia: le canzoni che vengono scelte per il disco sono quelle che restano attaccate. Metafora meravigliosa: una delle qualità delle canzoni è appunto il modo in cui si attaccano e non riesci più a dimenticarle. Non ha niente a che vedere con l’estetica, ci sono canzoni belle che non si attaccano e canzoni brutte che non si staccano più. Anzi se c’è correlazione forse è inversa: più sono brutte più sono catchy, appiccicose. Pensate a Wigwam, o a Belle Isle.
E i fan, indovinate? Ringraziano.
E i critici? Quattro stelle su Allmusic, quattro e mezzo su Rolling Stone, 8,7 decimi su Pitchfork. E Greil Marcus, quello che si era fatto un nome chiamando “Merda” il Self Portrait originale? Lui ha curato il booklet del disco. (Si potrebbe descrivere tutta la carriera di Marcus come un’unica opera di espiazione per aver scritto “Merda” al cospetto di un disco del Dio Bob). Se vivi abbastanza a lungo riesci a vedere i critici che ti portano l’acqua con le orecchie – che è poi l’unico uso sensato che ne fanno.
Un bicchiere per me, un bicchiere per te,
ti servirà un bicchiere o tre
se Annie canterà la sua canzone, Take Me Back Again.
Chissà se nel 1970, per rompere il ghiaccio con una persona (ma anche per mettergli un po’ di pressione, per chiedergli di definirsi, di affermare la propria comunità di appartenenza) si usava già chiedere: “che musica ascolti”?
Io la trovo una delle domande più imbarazzanti che mi si possano fare, perché (1) ascolto tanta musica diversissima, e che (2) di sicuro non mi definisce, cioè se mi trovate su Spotify che ascolto la Dark Polo Gang non è che questo dica niente su di me, davvero, magari sto solo cercando di capire cosa scrivono i miei studenti nei temi e inoltre (3) a volte dovrei rispondere cose veramente poco interessanti come, per esempio, “ultimamente sto riascoltando tutti i dischi di Dylan in ordine cronologico, sono arrivato alla collezione di out-takes del biennio 1969-1970, uno snodo cruciale, anche se un po’ ingrato con l’ascoltatore, ehi, dove sei andata? Stavo per concludere!”
Forse Dylan era davanti a tutti anche in questo. Nel 1970 ci stava già dicendo che il nostro autoritratto è fatto anche delle canzoni che ci piace ascoltare. Di Pretty Saro, ma anche di Blue Moon, e naturalmente di Annie’s Song. Che tipo di musica ti piace ascoltare, Bob?
È un brano che non ha ascoltato mai, io l’ascolto due volte al mese o più.
Ci sono lacrime e smorfie d’imbarazzo, mancano solo i violini.
La melodia a volte non c’è più, le parole a volte non rimano,
ma Annie canterà la sua canzone, intitolata “Take me back again”.
“Mi piacerebbe pilotare una macchina da corsa sul circuito di Indianapolis. Mi piacerebbe segnare un field goal in una partita dei football NFL. Mi piacerebbe colpire una pallina da baseball a cento miglia all’ora. Ma devi conoscere il tuo posto. Ci potrebbero essere cose al di là dei tuoi talenti. Tutto ciò che vale la pena prende tempo. Devi scrivere un centinaio di brutte canzoni prima di scriverne una buona” (dalla prima intervista concessa dopo la notizia del conferimento del Nobel, quasi un discorso ai giurati). Forse semplicemente le cose stanno così. A Dylan piacerebbe fare qualsiasi cosa: scrivere, dipingere, scolpire, vincere Indianapolis. Cantare come Louis Armstrong o come Sinatra. Ma quasi sempre si è rassegnato al fatto che la cosa che gli riesce meglio è scrivere canzoni. E comunque, dal 1970 in poi, ogni sua buona canzone gli è costata 99 canzoni cattive. Cioè lo dice lui, capite? Tutta questa fatica per farsi piacere certi dischi io francamente non la capisco. Lo scrive lui che Self Portrait era roba rimasta appiccicata al muro, che in New Morning non stava in piedi niente. Poi pubblica il cofanetto con gli scarti e tutti accorrono scodinzolando. Per forza poi lui vi disprezza.
(Nella versione deluxe c’è anche il live completo all’isola di Wight, che al tempo fu considerato un fiasco e adesso invece inspiegabilmente suona bene. Ne approfitto per fare ammenda: ai tempi di Nashville Skyline dissi che Dylan non ha mai usato la sua voce da crooner in un concerto, ebbene non è così, mi sono sbagliato, all’isola di Wight Dylan cantò davvero con quella voce. Ma non ci ha mai più provato. E ci ha messo 40 anni a pubblicare il concerto).
A volte dura per tutta la notte, dipende da quanto tempo se n’è andata.
Io mi siedo e do un’occhiata, è dura come il marmo,
lei lo sa che questa roba funziona sempre.
(Se non si è ancora capito, questo pezzo non è una recensione di Another Self Portrait, ma una raccolta di tutti gli scarti di recensione che ho scritto in questo mese. Mi pareva la cosa giusta da fare, e Natale è così lontano. Il disco? Sì, una volta l’ho ascoltato. Non è malaccio, dai. Meglio della Dark Polo Gang? Non saprei).
Dylan non ha mai parlato davvero del suo essere ebreo. Se uno mette insieme tutte le risposte offerte in 40 anni di interviste, scopre che nella maggior parte dei casi ha eluso la questione (più di una volta ha affermato di non essere ebreo perché ha “gli occhi azzurri”, o “sangue cosacco”, insomma fingersi ubriaco è sempre un’opzione). Secondo me la cosa più vicina a una professione di fede che abbia mai pronunciato è questa ambiguissima pagina di Chronicles I:
Una volta ero in cucina ad ascoltare Malcolm X che parlava alla radio. Stava spiegando perché non bisogna mangiare né prosciutto né carne di maiale. Diceva che un maiale è per un terzo un gatto, per un terzo un topo e per un terzo un cane, è un animale sporco e non bisogna mangiarlo. È strano come certe volte le cose ti rimangono impresse in mente. Circa dieci anni dopo ero a cena da Johnny Cash, alla periferia di Nashville. Eravamo un gruppo di musicisti quella sera, Joni Mitchell, Graham Nash, Harlan Howard, Kris Kristofferson, Mickey Newberry e altri ancora. C’erano anche Joe e Janette Carter, rispettivamente figlio e figlia di A.P. e di Sarah Carter e cugini di June Carter, la moglie di Johnny. Erano come la famiglia reale della musica country.
Il grande camino di Johnny era acceso e scoppiettante. Dopo cena ci sedemmo nel rustico salotto con le travi di legno e le larghe finestre che davano su un lago. Seduti in cerchio, ognuno di noi suonava una canzone e passava la chitarra a chi gli stava vicino. Di solito i commenti erano: “Questa ti è venuta proprio bene”, oppure: “Sì, guarda, in poche righe hai detto tutto”. O magari: “Questa canzone ne ha di storia”. O anche: “In quella melodia ci hai proprio messo tutto te stesso”, commenti molto complimentosi. Io suonai Lay, Lady, Lay e passai la chitarra a Graham Nash, restando in attesa di una reazione. Non dovetti attendere a lungo.
“Tu non mangi carne di maiale, vero?” mi chiese Joe Carter.
Era il suo commento. Aspettai un secondo prima di replicare. “Ehm, no, signore”, dissi.
Kristofferson a momenti mandò giù la forchetta. “Perché no?” chiese Joe. Fu allora che mi ricordai di quello che aveva detto Malcolm X. “Vede, signore, è una cosa molto personale. No, non mangio carne di maiale. Non mangio una cosa che per un terzo è un topo, per un terzo è un gatto e per un terzo è un cane. Ha un sapore che non va bene”.
Voi lo sapevate che Dylan non mangia maiale? E avete capito perché non lo mangia? Riavvolgiamo. Non siamo in una casa qualsiasi, siamo a casa Cash. E non siamo al cospetto di un Carter qualsiasi: Joe Carter è l’erede a un trono vacante, il Re che la terra del Country non riesce più a incoronare. Al suo cospetto, Dylan si comporta come un cavaliere senza livrea. Gli altri invitati hanno tutti canzoni piene di “storia”: forse che Dylan non ne ha? Tutti riescono a mettere “sé stessi” nella melodia, forse che Dylan non ne sarebbe capace? E invece, quando è il momento di mettere alla prova il suo valore, sceglie di cantare Lay Lady Lay. Una canzone che sì, stava in un disco apparentemente country; ma che era la meno country del mazzo, scritta forse per un film che col country c’entrava poco o nulla, una canzone che aveva azzeccato quasi per caso una strana atmosfera. Una canzone, soprattutto, che Dylan non ha mai veramente sentito come sua. Non voleva nemmeno inciderla come singolo. E dal vivo ha sempre cercato di stravolgerla. Cantarla davanti a Re e la Regina è un vero e proprio affronto; gli altri cavalieri magari non se ne rendono conto, ma Joe Carter sì. Perché è “uno strano personaggio” (e chi ha letto Chronicles sa che questo è uno dei migliori complimenti che Dylan ti possa fare). Dylan era riuscito a darla a bere a molti, ma non al Re. Lay Lady Lay non ha nessuna storia, Lay Lady Lay non è un brano introspettivo, e Bob Dylan è un impostore. Infatti non mangia carne di maiale. Giù la maschera.
Per un momento ci fu un tale silenzio che si sarebbe potuto prendere un coltello dal tavolo da pranzo e tagliarlo a fette. Poi Johnny Cash si piegò in due dal ridere e Kris Kristofferson scosse la testa. Joe Carter era uno strano personaggio.
Ma anche Dylan non scherza. Sta fingendo? Vuole offendere il Re? O davvero quel discorso alla radio fu per lui un’illuminazione? E perché? Se è vero che ognuno di noi con gli anni si costruisce una religione personale, quella che emerge in Chronicles è un insieme di liturgie e di credenze raccolte nei modi più imprevisti: quasi mai sui libri. Il delirio di un rigattiere incontrato in mezzo al niente del Mississippi. I versi sparsi di Woody Guthrie o Hank Williams. Le idee di Malcolm X sui suini. Tutto un emporio di storie bizzarre e già usate, che a loro modo si trasformano anche loro in un autoritratto.
Per cui prendi la bottiglia, riempiti il bicchiere,
non perderti il momento in cui sto per cedere.
Annie canterà la sua canzone che fa “Take Me Back Again”.
(Gli altri pezzi: 1962: Bob Dylan, Live at the Gaslight 1962, 1963: The Freewheelin’ Bob Dylan, Brandeis University 1963, Live at Carnegie Hall 1963, 1964: The Times They Are A-Changin’, The Witmark Demos, Another Side of Bob Dylan, Concert at Philharmonic Hall, 1965: Bringing It All Back Home, No Direction Home, Highway 61 Revisited, 1966: The Cutting Edge 1965-1966, Blonde On Blonde, Live 1966 “The Royal Albert Hall Concert”, The Real Royal Albert Hall 1966 Concert, 1967: The Basement Tapes, John Wesley Harding, 1969: Nashville Skyline, 1970: Self Portrait, Dylan, New Morning, Another Self Portrait, 1971: Greatest Hits II…)
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