Bob Dylan Live 1964, Concert at Philharmonic Hall (The Bootleg Series, Vol. 6, 2004).
(Il disco precedente: Another Side of Bob Dylan;
il successivo: Bringing It All Back Home).
A tutti i suoi coetanei dev’essere successo di innamorarsi di una celebrità in bianco e nero vista in tv. Ma a Dylan poi è successo di incontrare la stessa persona qualche anno dopo a New York, in carne e ossa e colori, e farle una pessima impressione, (cose che ti capitano se sei ancora uno strimpellatore senza fissa dimora e soprattutto senza un bagno dove docciarti, né questo ti impedisce di provarci con la sorella quindicenne). Da un disastro del genere nemmeno Hollywood saprebbe tirare fuori una storia d’amore, che invece in un qualche modo c’è stata. Nel giro di pochi anni Dylan è passato dall’ammirare la regina del folk in tv a scaricarla come zavorra. Dev’essere difficile mantenere l’oggettività, dopo una storia del genere. Dylan sapeva di dover incontrare la Baez – la sua strada passava per di lì, aggirarla sarebbe stato impossibile, la ragazza attirava ogni cosa intorno a sé. Ma Dylan sapeva anche che avrebbe dovuto passare oltre. Lei ci avrebbe messo di più a capirlo, ma ascoltando il concerto al Philharmonic la situazione è già abbastanza chiara.
Così, con due dischi ancora freschi di stampa nei negozi, Dylan a ottobre 1964 è già proiettato verso il prossimo, su cui offre scorci notevolissimi: il pubblico applaude e sembra prenderla bene, ma nulla poteva prepararlo alle giaculatorie allucinate di Gates of Eden e It’s Alright, Ma (I’m Only Bleeding), al delirio deliberato di Mr Tambourine Man. Tra brani del genere e With God On Our Side c’è un abisso: l’idea che li abbia scritti lo stesso ragazzo e a distanza di pochi mesi è inverosimile. Se ci fossero arrivati sotto forma di spartiti anonimi, in una capsula del tempo, non ci verrebbe mai in mente di attribuirli allo stesso autore, così come non attribuiremmo versi brechtiani a un emulo di Rimbaud o Blake. A furia di sentirsi chiamare poeta, Dylan ha cominciato a fidarsi e ora riempie le sue strofe di libere associazioni senza una logica che non sia quella del sogno. Gates of Eden sembra modulata sulla melodia di un inno sacro, ma il surrealismo del testo la trasforma in una parodia di Chimes of Freedom. In quel brano, l’ultimo vero inno acustico di Dylan, nel ritornello le campane ricordavano a ogni derelitto che in cielo qualcuno li osservava, qualcuno li aspettava; anche in Gates of Eden, (“ninna nanna sacrilega”, la definisce) al termine di ogni strofa viene menzionata un’autorità trascendente (i Cancelli del Cielo), ma solo per ribadirne l’assoluta indifferenza. Aladino e gli eremiti d’Utopia in sella al Vitello d’oro ti promettono il paradiso e nessuno ride – salvo che oltre i Cancelli del Cielo. Contratti di proprietà si aggiornano in attesa della successione al trono, ma non ci sono troni al di là dei Cancelli del Cielo. La madonna nera in moto (regina zingara a due ruote) tallona il nano di flanella grigia che piange per i predatori che gli piluccano le briciole del peccato, ma non c’è peccato dentro i Cancelli del Cielo. Cosa sta dicendo?
To Ramona invece è il brano in cui Dylan prende congedo da lei, dispensandole lezioni di vita: non ha mai smesso di cantarla, sul sito ufficiale risultano 373 esecuzioni. Sei prigioniera di un mondo che non esiste, di schemi vuoti, personaggi che ti fanno pensare che devi essere come loro, e soprattutto del tuo pensarti colpevole. E potrei dirtene tante altre, ma presto le mie parole si contorcerebbero in un anello insensato, l’immagine che vi verrà in mente ogni volta che vi capiterà ritornare sullo stesso argomento nel corso di un litigio (il paradosso di Dylan, un tizio taciturno che vive di parole; che in cento e mille strofe ribadisce quanto le parole siano inutili). Così, nel giro di pochi minuti, su Another Side e durante il concerto, Dylan è stato partorito e si è emancipato dall’ingombrante genitrice. Resta un problema: lei è ancora lì dietro le quinte, si aspetta di cantare nel secondo tempo.
Anche il pubblico probabilmente se lo aspetta, era diventato un momento fisso nei concerti di entrambi. Di solito la Baez lo presentava dopo aver cantato Blowin’ in the Wind, un brano che Dylan neanche mette più in scaletta (è uscito da poco più di un anno, è già passato remoto). Lui aspetta ancora un po’, riporta il pubblico ai lidi più rassicuranti della canzone di protesta con una toccante versione di Hattie Carroll – e poi l’accoglie senza troppi complimenti, per farsi dare una mano con un altro pezzo inedito, Mama, You Been On My Mind. Inspiegabilmente escluso dalla scaletta di Another Side, il brano sarà registrato dalla Baez nell’anno seguente. È una specie di seguito di Don’t Think Twice (anche la progressione è molto simile), una coda all’addio, e non c’è bisogno di spiegare come certi adii diventino lunghissimi, quasi “meaningless ring”: a volte guardo il disco del sole al mattino e mi ritorni in mente. Non è più un pensiero geloso, non è più rabbia né necessità erotica, non è nulla e non vale la pena di disturbarti, non vorrei dirti nulla, non pretendo un sì o un no; mi domando soltanto se tu possa vederti così chiara come ti vedo io quando mi torni in mente. Se era una canzone ispirata alla Rotolo, la Baez non ha comunque esitato a impossessarsene. Lei canta “Daddy”, Dylan canta “Mama”, non è un vero e proprio duetto e non è un’armonizzazione. Dylan va per i fatti suoi, ma è la Baez che si ricorda meglio il testo. Non è soltanto per una questione di diritti che nessun brano cantato in coppia fu pubblicato al tempo: benché gli spettatori siano felici di vederli assieme, la prestazione in sé è inferiore alla somma degli addendi. Dylan è imprevedibile, non sei mai sicuro di come canterà il prossimo verso, qualche minuto prima aveva completamente storpiato Don’t Think Twice probabilmente perché l’aveva attaccata con la nota sbagliata. A volte capita, ma Dylan aveva continuato a cantarla così anche al verso successivo, e alla strofa successiva, strozzandosi e stravolgendola. È il modo in cui compone: sbagliando le canzoni che conosce già. La Baez non compone, la Baez esegue: ci mette il cuore ma ha bisogno di punti fermi. È sempre professionale, può duettare con chiunque, ma la voce di Dylan non si impasta bene con nulla. In una coppia mista ti aspetti un soprano squillante e basso caldo, al limite un baritono; Dylan non è virile in quel modo.
Tutta la sua storia con la Baez è una sfida agli stereotipi di genere, non solo di quegli anni. Lei era più famosa di lui; lei ha sedotto lui; lui era poco serio, aveva una fidanzata a New York, una ragazza sulla Costa Ovest, per tacere di alcune amiche con benefits lasciate nel Midwest. Lei aveva un’agenda politica, tanti amici nel Movimento con cui usciva la sera per discutere di politica; lui era un disastro in società, imbarazzava gli invitati, preferiva stare a casa col gatto a riflettere sulle proprie introspezioni. Stava dimagrendo in modo impressionante, nelle foto affetta pose leziose. È entrato in quella fase che Todd Haynes, nel suo film biografico, affiderà a Cate Blanchett.
A Mama segue un pezzo forte della Baez, Silver Dagger, che Dylan sosteneva di saper suonare come lei (ma non è vero, lei arpeggiava meglio. C’è che ormai Dylan non arpeggia più, troppo sbattimento). Di tutte le versioni del testo che circolavano da tre secoli, la Baez aveva scelto la più violenta e virginale. “Non cantare canzoni d’amore: sveglierai mia madre. Sta dormendo qui al mio fianco, la mano destra sul pugnale: dice che non sarò mai la tua sposa”. Dylan l’aveva sentita in tv, appena qualche anno prima, e non aveva avuto dubbi, come le casalinghe davanti alle soap. “Io ci credevo, che la madre di Joan avrebbe ucciso chi si era innamorato della figlia. Ci credevo. Credevo davvero che lei venisse da una di quelle famiglie. Bisognava crederci. La musica folk, più di qualsiasi altra cosa, ti rende uno che crede”. Lo ha scritto su Chronicles, non c’è da fidarsi. Tanto ci cr
Insieme sul palco Bob e Joan cantano ancora il brano antimilitarista With God On Our Side, e It Ain’t Me Babe, un’altra versione molto inferiore a quelle che eseguivano entrambi da soli. Ma al Philharmonic quella sera poteva sembrare il segno di una separazione consensuale. Non sono la persona che cerchi, quello mai debole e sempre forte, quello che ti difenderà anche quando sbagli, quello che morirà per te e anche di più. Magari la Baez pensa, come tanti, che la canzone parli di Suze Rotolo: ma è anche di lei che sta cantando. In primavera seguirà Dylan nel suo primo vero tour inglese. Per otto sere aspetterà dietro le quinte che il divo la inviti a cantare, Dylan non la chiamerà mai. Poi succederanno tantissime altre cose, e i due ci metteranno dieci anni per ritrovarsi di nuovo sul palco insieme: certi addii davvero non finiscono mai, girano su sé stessi senza un senso. L’ultimo brano al concerto di Halloween è All I Really Want To Do: la canzone, lo abbiamo visto, ha senso sia come primo approccio a un nuovo amore, sia come congedo al vecchio: vorrei essere soltanto tuo amico. Se la ascolti all’inizio di Another Side, non sai deciderti. Ma alla fine del concerto al Philharmonic il messaggio è già molto più chiaro: tutto quello che voglio è che restiamo amici. Una sera, a Londra che Bob è in albergo, si sta dando malato, Joan sale alla sua suite, prova a bussare. Le apre una ragazza incantevole che Joan non ha mai visto. Esatto proprio come It Ain’t Me Babe: vai a squagliarti nella notte, qui dentro tutto è pietra. Nulla si muove e, a proposito, non sono da solo. La nuova arrivata non è così nuova, Bob la frequenta da un po’, Joan non lo sa che è sua una vestaglia che le è già capitato di vestire in un’altra occasione. Il suo nome è Sara, nel giro di un anno il suo cognome sarà Dylan.
(“Tutti gli uomini sono folli – così dice mia madre – Ti riempiranno di amore e bugie. E poi andranno a corteggiare qualcun altro, lasciandoti da sola coi tuoi desideri“).
(Gli altri pezzi: 1962: Bob Dylan, Live at the Gaslight 1962, 1963: The Freewheelin’ Bob Dylan, Brandeis University 1963, Live at Carnegie Hall 1963, 1964: The Times They Are A-Changin’, The Witmark Demos, Another Side of Bob Dylan, Concert at Philharmonic Hall, 1965: Bringing It All Back Home, No Direction Home, Highway 61 Revisited, 1966: The Cutting Edge…)
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