A Sri Lankan Muslim woman walks on the beach in Colombo on September 26, 2013. Sri Lanka's youth population aged 10 to 19 make up some 15 percent of its 20 million people. AFP PHOTO/LAKRUWAN WANNIARACHCHI (Photo credit should read LAKRUWAN WANNIARACHCHI/AFP/Getty Images)

Le donne sono la migliore arma contro il terrorismo

Le donne e le bambine sono i primi obiettivi degli attacchi. La promozione dei loro diritti deve essere una priorità nella risposta, per la libertà di tutte e tutti [Continua]

Lo scorso febbraio Radhika Coomaraswamy e Phumzile Mlambo-Ngcuka hanno scritto un articolo intitolato “Le donne sono la migliore arma nella guerra contro il terrorismo”. La prima è ex sottosegretaria generale delle Nazioni Unite, rappresentante speciale per i bambini e i conflitti armati, la seconda dirige l’UN Women, Agenzia delle Nazioni Unite che si occupa della tutela della parità di genere e del ruolo della donna nel mondo. Il loro ragionamento (a cui ho ripensato nel giorno del primo anniversario del rapimento di 276 studentesse in Nigeria) parte da un’evidenza. I movimenti estremisti che vanno dalla Nigeria all’Iraq, dalla Siria alla Somalia, dal Myanmar al Pakistan hanno un elemento in comune: la violenza feroce contro le donne e la limitazione della libertà femminile. E non come prodotti collaterali o incidenti di percorso.

Gli Yazidi che sono sopravvissuti agli attacchi dello Stato Islamico (ISIS) hanno parlato di donne e bambine vendute al mercato, stuprate, ridotte a schiave sessuali, costrette al matrimonio e alla conversione. Le stesse storie sono state raccontate dalle ragazze nigeriane sfuggite a Boko Haram, da quelle somale liberate da al Shabaab, da quelle che vivono sotto il controllo di Ansar Dine nel nord del Mali. Il nome e il luogo possono non essere gli stessi, ma identici sono i limiti imposti alle donne – o quelli che si vorrebbero imporre – nell’accesso all’istruzione e ai servizi sanitari, alla partecipazione alla vita economica e a quella politica. E identico è il meccanismo con cui tali restrizioni vengono fatte “rispettare”: «una violenza terrificante».

A partire da qui, Radhika Coomaraswamy e Phumzile Mlambo-Ngcuka scrivono che se nel “programma” dei vari movimenti estremisti la questione femminile è questione primaria, non altrettanto accade nella risposta contro l’estremismo. La promozione della parità di genere o il suo riconoscimento non rientrano insomma tra le priorità della comunità internazionale contro questi movimenti: «La comunità internazionale deve riconoscere, esattamente come fanno gli estremisti, che l’autorità e la libertà delle donne sono a fondamento di comunità forti, stabili e che possono resistere alla radicalizzazione». Ogni passo in avanti per i diritti delle donne è un pezzo di lotta contro il fondamentalismo, ha detto la sociologa Zeinabou Hadari, che ha lavorato per oltre due decenni sulla promozione dei diritti delle donne in Niger. A questo, si aggiunga il fatto che il sapere delle donne sulla violenza maschile può essere d’aiuto nell’elaborazione di un pensiero sulla e contro la violenza del terrorismo jihadista.

«Quindici anni fa, il Consiglio di Sicurezza ha adottato la risoluzione 1325 sull’importanza della partecipazione delle donne in tutti i settori legati alla pace e alla sicurezza, tra cui la prevenzione dei conflitti, la risoluzione dei conflitti, e la costruzione della pace. Questo traguardo è il risultato di decenni di attivismo culminato in un’idea rivoluzionaria: che la pace è indissolubilmente legata alla parità tra uomini e donne».

La legittimazione delle donne è una forza potente per la crescita economica, la stabilità sociale e politica, e anche per una pace sostenibile. E non è un caso, scrivono ancora, «che nelle società e nelle comunità in cui gli indicatori di genere sono più alti, le donne siano meno vulnerabili agli impatti dell’estremismo violento».

La risposta della comunità internazionale è principalmente una risposta militare (spesso necessaria) che può fermare l’avanzata dei gruppi estremisti, ma non può sconfiggere le ideologie radicali che li muovono. I governi impegnati a combattere il terrorismo concentrano inoltre le loro risorse sulle operazioni militari, costose, e i ministeri sociali sono spesso i primi ad affrontare tagli di bilancio. Questo spostamento ha un costo molto alto sulla vita delle donne lasciandole sostanzialmente esposte: «L’incapacità di prevenire questi effetti negativi costituisce una deliberata negligenza. Essa si traduce in una ri-vittimizzazione delle donne, e in ultima analisi in maggiore povertà, maggiore disperazione e maggiore radicalizzazione». Questo significa quindi che «la lotta contro l’estremismo non deve e non può essere trattata esclusivamente, o anche prevalentemente, come un’esercitazione militare».

Sono in molte a saperlo e ad agire, anche al di fuori delle grandi organizzazioni (leggete questa storia, per esempio, che è una delle tante). E sono diverse le organizzazioni nel mondo che utilizzando il ruolo strategico delle madri e delle donne all’interno delle famiglie per costruire sistemi di allerta precoce basati sul sospetto che i mariti, i fratelli o i figli possano essere coinvolti con i gruppi estremisti. Ma è anche importante che gli impegni della comunità internazionale per lo sviluppo e il sostegno della parità di genere non rimangano solo delle belle teorie.

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