Quando il giornalismo online diede una lezione a quello su carta

La storia di Stephen Glass, ex-giornalista di "New Republic", colpevole di aver inventato molti dei suoi articoli

È la storia di Stephen Glass, ex-giornalista di New Republic, colpevole di aver inventato molti dei suoi articoli

Se ci pensate la presenza di un Ordine dei Giornalisti non garantisce la qualità e l’affidabilità dei pezzi; serve piuttosto a tutelare la categoria (vedi equo compenso) e non il lettore. E questo 2015, in un certo senso, l’ha dimostrato: quante bufale, finte notizie e notizie gonfiate che sono state riprese, a volte online a volte offline, da giornali e giornalisti. Luca Sofri ne ha scritto nel suo libro per Rizzoli, Notizie che non lo erano. E in effetti un po’ tutti, in quasi tutti i settori, abbiamo fatto la nostra lista delle bufale più grosse. Sarà che i tempi di pubblicazione, sempre più brevi e immediati con lo sviluppo del digitale, impongono a giornalisti e redattori di essere il più veloci possibili per non arrivare secondi; e sarà pure che nel rilancio continuo di agenzie e notizie si perde un passaggio fondamentale, quello cioè della verifica delle fonti. Ma addossare tutta (o quasi) la colpa di questi errori ai giornali online – per il loro format, soprattutto – è fuorviante. E sbagliato.

Nel 1998 c’è stato un caso che ha dimostrato come, talvolta, il buon giornalismo non abbia né patria né forma; e che se c’è – se si riesce a fare – è solo grazie ai buoni giornalisti. È il caso di Stephen Glass che al New Republic (cartaceo) pubblicò 27 (su 41) pezzi completamente inventati. Si venne a sapere quasi per caso, quando la redazione online di Focus verificò uno dei suoi articoli più famosi e chiacchierati, Hacker Heaven. Che si rivelò falso, dall’inizio alla fine. E pensare che – in quanto cartaceo mensile – il New Republic vantava un sistema di verifica piuttosto attendibile: il pezzo girava diverse volte, tra caporedattori, redattori e stagisti. Veniva modificato prima a mano, poi su digitale, quindi di nuovo a mano e impaginato.

Stephen Glass riuscì a superare il controllo dei suoi colleghi solo perché – pare assurdo ma è così – “simpatico, giovane e divertente”. All’epoca, Glass aveva 23 anni e aveva scritto anche su altre testate come Rolling Stone.
La storia di Stephen Glass è stata raccontata piuttosto bene ne L’inventore di favole, il film di Billy Ray che vede Hayden Christensen nei panni del protagonista (quando uscì al cinema erano i tempi di Guerre Stellari, e con questa prova Christensen riuscì a dimostrare di essere un attore completo, capace: non solo – come se fosse poco, poi – il protagonista di un blockbuster). Il film di Ray è interessante da vedere (e io l’ho rifatto ieri sera, quasi per caso) soprattutto per il filo che segue la storia: a puntate, giorno per giorno, scandita dalle date. E pure perché permette di rivedere dall’interno la vita del New Republic (uno dei giornali più citati, “letto – si dice più volte – a bordo dell’Air Force One”) e quella di Focus online: come lavorano i redattori, come si procede; l’effettiva competenza dei giornalisti, e l’avanzata inarrestabile di Internet.

Una scena dell’Inventore di favole

Da quando fu scoperto Stephen Glass non ha più scritto su un giornale (tranne una volta, dopo essersi laureato in giurisprudenza: un articolo sulla legge sull’uso della marijuana del Canada per Rolling Stone). Ha scritto un libro, un romanzo, The Fabulist. Ma da allora nessuno si è più fidato di lui. Nemmeno l’ordine degli avvocati dello stato della California ha accettato la sua domanda di ingresso. E ora è un caso dibattuto dalla Corte Costituzionale.

La storia di Glass dimostra fondamentalmente due cose. La prima – che già ho accennato – è che il buon giornalismo si può fare ovunque: su carta, online o su un blog. Non serve un tesserino (mi dispiace ma è così) e non serve un “grande nome” alle spalle. E la seconda: che lo storytelling eccessivo, sfrenato, quello che cercava Glass con i suoi pezzi, che arricchiva di dettagli e di particolari, di personaggi e di ambientazioni, non è l’ingrediente chiave dell’informazione. Quello va bene per i libri, per i romanzi, per le opere di fantasia; il giornalismo è un’altra cosa.

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