La M tra il mio nome e cognome

La M. tra il mio nome e cognome ha una lunga storia, che è meglio farla breve. In Sicilia, i primogeniti si chiamano tradizionalmente come i padri. Mio padre, che era l’ultimo di 20 figlioli (ma solo 10 sopravvissero più di una settimana), fece in tempo a richiamarsi Francesco, come il primo fratello (nel frattempo morto) e come il padre, il nonno, il bisnonno… Il mio destino era così, secondo lui, segnato. Ma, quando papà, accompagnato da suo fratello Matteo (medico e sfegatato comunista), si recò all’Anagrafe fiorentina per registrarmi, il solerte impiegato comunale gli disse che nel frattempo il fascismo aveva introdotto una leggina (ovviamente tutt’allora, e tutt’ora, vigente) che vietava tassativamente di chiamare i figli come i padri (forse per sembrare così più numerosi ed evitare che si diffondesse l’uso americano del jr.). Francesco e Matteo, presi alla sprovvista, non trovarono di meglio che darmi i loro due nomi. Quando la mia povera mamma lo venne a sapere, ci mancò poco che si buttasse dalla finestra della clinica dove stava cercando di riprendersi dalle fatiche del parto (nacqui di otto mesi, con taglio cesareo, come l’uccisore di Macbeth). A Firenze, Matteo pare sia un modo più gentile per dire «matto». Lei iniziò quindi un martellante lavaggio del cervello: «Ricordati che tu ti chiami Francesco e non Matteo; se ti fai chiamare così ti daranno dello svitato!». Per compiacere la mamma (del resto anche il babbo, per quieto vivere, si era adeguato) ed evitare di esser trattato precocemente come un malato di mente, fu imposto a maestri, insegnanti e compagni di chiamarmi Francesco. Tutto filò liscio fino ai 18 anni e un giorno. Ringalluzzito dalla maggiore età firmai un documento come avevo sempre fatto. Rischiai così di finire in galera. Escogitai quindi (mal consigliato dalla mia umbra fidanzata di allora) un doppio regime: solito nome nella vita quotidiana e nome anagrafico nelle firme di assegni e documenti. Ero diventato lo zimbello dei miei amici! Ma la dea protettrice dei firmatari mi fu benevola. Fino a quando non firmai (nel 1977) il mio primo articolo, su un settimanale comunista italiano, critico verso il regime comunista polacco (☞ PSEUDONIMI). Ne venne fuori un caso di omonimia che fu smascherato da un pignolo studente di Storia contemporanea di Genova che, alla fine della lezione, pensò bene di chiedere al suo professore, mio padre, come mai fosse così misurato nel suo insegnamento ed esagitato sulla stampa. Mai visto il mio genitore così furibondo: minacciò di cacciarmi di casa e interdirmi, per vie legali, l’uso del suo nome, e persino del cognome. Grazie alla mediazione della mamma, giungemmo a un compromesso: così nacque il Francesco M. Ma, tutte le volte che un distratto redattore o tipografo si dimenticava l’emme puntata (e capitava, purtroppo, sempre quando le mie opinioni erano particolarmente divergenti da quelle di papà), erano dolori. Il legittimo proprietario del nome Francesco s’infuriava terribilmente. Presentiva forse quello che accadde qualche anno dopo: l’Enciclopedia Treccani, confondendosi, mi chiese un aggiornamento della voce Nazionalismo arabo che il mio talentuoso papà aveva compilato nel 1938. Mi guardai bene dall’accettare, anche perché l’autore di quell’erudita voce (non avendo ancora sperimentato la tragedia della guerra ed esser quindi diventato partigiano, e anche comunista) allora era un giovane e promettente intellettuale fascista e vedeva con favore «i nemici arabi dei nostri nemici» (la perfida Albione). La situazione si è ovviamente, e tristemente, risolta con la scomparsa del «vero» Francesco. Sul momento, mi ha salvato da ulteriori scosse emotive il fatto che nei necrologi ci fosse sempre scritto «prof.»: titolo di distinzione che spettava a lui e solo a lui. Rimango comunque, ancor oggi, costretto a mantenere una «doppia vita nominale»: amministrativa (Matteo Francesco) e pubblico/privata (Francesco). E la «M.» cerca di rimanere nel mezzo.

(tratto da L’ambaradan delle quisquilie, Sellerio 2013)

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