L’intelligenza del bisogno

In questi ultimi dieci anni è difficile non essersi accorti della crescente presenza di persone di origine indiana ai vertici [Continua]

In questi ultimi dieci anni è difficile non essersi accorti della crescente presenza di persone di origine indiana ai vertici in diversi settori del mondo economico, culturale e scientifico nel mondo occidentale. Qual è la formula che fa sì che molte delle poltrone più alte, dei premi più prestigiosi e dei riconoscimenti più ambiti vengano conquistati da chi è nato in India?

Prima di tutto chiariamo che questa domanda non riguarda chi è nato in Occidente da genitori emigrati, come la vicepresidente americana Kamala Harris o il nuovo Surgeon General (una sorta di Ministro della Sanità operativo) nominato dal neo-presidente americano Joe Biden, il viceammiraglio Vivek Murthy.

Entrambi sono cittadini americani nati in America che hanno forse subìto un influsso culturale indiano da parte di uno o due genitori o nonni di origini indiane, ma il cui carattere è stato coltivato nell’influsso della cultura anglo-americana, nelle scuole, licei e università. Sono cresciuti in un ambito che non è certo il “melting pot”, quel fittizio “minestrone” culturale che avrebbe dovuto miscelare tutte le culture degli immigrati, come si sosteneva in America il secolo scorso, ma piuttosto si sono formati entro i margini ristetti di un rigido “stampino per biscotti” che ritaglia fuori dall’ascesa sociale chiunque non adotti la cultura anglo-americana.

Se ti anglo-americanizzi, ce la fai, altrimenti resti fuori. Poco è rimasto della mentalità indiana nella vicepresidente Harris o nel viceammiraglio Murthy, come in tanti asiatici di seconda o terza generazione in America. Il richiamo alle origini, per queste persone, è fatto di gesti simbolici, folkloristici e culinari, che servono a raggrumare consensi nelle comunità degli emigrati.

Diverso forse il discorso del ruolo degli indiani in realtà non anglo-americane, ma per quanto riguarda Regno Unito e Stati Uniti l’anglo-americanizzazione è d’obbligo. O per nascita, come nei due casi, o per adattamento, come vedremo. È questo elemento, questa capacità di anglo-americanizzarsi, ciò che apre la strada ai posti di potere nelle multinazionali della globalizzazione.

Non ci occuperemo, qui, nemmeno dei Bollygarchi, gli oligarchi in stile Bollywood, i magnati indiani nati e rimasti in India, che costruiscono fortune da generazioni, come i Tata o gli Ambani, e nemmeno dei “Bad Boy Billionairs,” titolo di un documentario su miliardari che si sono costruiti fragili imperi dal nulla, come il guru degli schemi piramidali Saharashri; o Vijay Mallya della Kingfisher Airlines, che invitava Enrique Iglesias a cantare al suo compleanno; oppure il gioielliere delle dive Nirav Modi; o il re dei computer Ramalinga Raju, i quali vedono poi crollare le loro cattedrali, dovendo spesso fuggire dall’India.

Qui ci occupiamo invece di quegli indiani nati in India, ma che hanno trovato un successo internazionale una volta emigrati all’estero. Secondo Fortune 500 addirittura il 30 per cento dei Ceo delle multinazionali sono di origini indiane. Sono tante le domande che spuntano studiando questa dinamica…

(…continua (gratis) sulla rivista dell’agenzia per la trasformazione culturale CheFare che ha commissionato questo intervento,  a questo link )

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