Gian Arturo Ferrari in una foto del 2018 (ANSA/FLAVIO LO SCALZO)

Confidenze sul fare i libri

«Ferrari riesce a presentare la mastodontica macchina di Segrate, con i suoi ingranaggi di potere un po’ arrugginiti e una sua aria quasi bonacciona, come il “buono” che mette a terra all’ultimo secondo il più piccolo ma decisamente presuntuoso editore “indipendente”»

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A leggere il libro, molto bello, di Gian Arturo Ferrari, Storia confidenziale dell’editoria italiana, la prima sensazione che ho provato è stata d’invidia. Per un editore medio-piccolo come sono io, la vita professionale narrataci dall’autore e svolta quasi sempre all’interno della grande editoria si presenta come una vera cuccagna. Giovane lettore appassionato, con studi brillanti e grande ambizione, Ferrari fa una rapida e meritata scalata dentro il cuore pulsante dell’editoria italiana. Inizia la carriera come braccio destro di Paolo Boringhieri in una delle imprese indipendenti di maggior prestigio nella storia editoriale del nostro paese, costola della grande Einaudi degli anni Sessanta, con la pubblicazione dell’opera omnia di Freud e poi di Jung.

Poi entra prestissimo nelle stanze milanesi dei bottoni dove si decidono le sorti del mondo del libro (almeno quello nazionale), dove passa elegantemente da Mondadori a Rizzoli e viceversa, con l’inaudita fortuna di lavorare con (e imparare da) personalità del calibro di Sereni, Polillo, Spagnol, Bonacina, ecc. ecc., conoscere da vicino autori e celebrities che hanno fatto la storia del costume italiano, come Biagi, De Crescenzo, Citati, Scalfari, Manganelli, Bevilacqua (con il bonus di poter mescolare – e riuscirci – l’alto e il basso, la cultura d’élite e quella popolare, il bello e il meno bello). Può avvicinare addirittura gli uomini del vero potere (Agnelli, Fattori, De Benedetti, Caracciolo, Berlusconi…), ovvero quelli che di libri ne leggono pochi ma controllano il denaro che dà loro vita e pubblicità e movimento e consente loro di arrivare nelle case degli italiani. Riesce a studiare e ad assimilare (con apertura e brillantezza ammirevoli) i meccanismi con i quali i libri vengono scelti e pubblicati. Qualsiasi editore (piccolo o meno piccolo) non potrà sfuggire a una lacerante botta d’invidia quando Ferrari racconta, come un bambino che entra la prima volta in un negozio di giocattoli, la meraviglia del primo ingresso a Segrate, nel dorato regno mondadoriano, dove scopre di poter disporre di scout a New York, Londra e Parigi, che gli racconteranno i segreti e le anteprime dell’editoria mondiale, con gli autori emergenti, le cifre pagate per averli, i malumori e i propositi di tradimenti editoriali delle star della letteratura mondiale… («Qui c’è tutto – scrive l’autore – sappiamo tutto, possiamo avere tutto»).

Ma il giovane Ferrari non si siede a godersi la pacchia, bensì mette all’incasso queste esperienze già di per sé gratificanti e foriere di successi e parte alla conquista di nuove frontiere (come se Milano fosse una specie d’Inghilterra settecentesca da Barry Lyndon, un territorio di possibile ascesa sociale per i giovani più brillanti e intraprendenti). Addirittura dall’Olimpo di Segrate decide di tornare a una Rizzoli ingrigita e sulla difensiva, per avere una libertà maggiore di quella che ha all’interno della Bisanzio mondadoriana (tra superiori occhiuti e invidiosi ed editor incarogniti per il rischio di perdere il controllo sui territori di loro competenza), ma soprattutto per il gusto della sfida: attaccare il primo della classe dalla sua posizione di secondo, scalzarlo dalla vetta (e per farlo pubblica Hawking, Capanna, Galbraith, Citati).

Vede tutti quelli che contano, legge tanto (grande merito niente affatto scontato dentro il mondo editoriale), pubblica molti degli autori più importanti al mondo, inventa collane e strategie di marketing, insomma si erge a una posizione in cui può realizzare i sogni più audaci per un editore. Ma badate bene: questo non è un percorso ovvio. Sono davvero pochissimi quelli che lo hanno intrapreso, all’interno di un ambiente dove piuttosto proliferano conformismo, miopia, snobismo, assenza di curiosità e di coraggio. Se Ferrari a volte si vanta dei suoi successi, beh… c’è poco da obiettare.

Ma Ferrari non si limita a raccontare le proprie gesta. Traccia anche i lineamenti di una storia dell’editoria novecentesca italiana (con pure dei cenni ai predecessori emersi con l’Unità d’Italia, Treves e Sonzogno). E ci fa vedere il peso terribile della politica (ovvero del Palazzo) sulla vita delle case editrici. L’adesione al fascismo di Mondadori – prima morbida attraverso iniziative come la pubblicazione “monumentale” di D’Annunzio, poi sempre più importante (nonostante lo spirito indipendente di Luigi Rusca con la Medusa e altre grandi iniziative editoriali) – e di Rizzoli (che come tipografo stamperà le foto ufficiali del re e del duce che adorneranno gli uffici pubblici e le scuole d’Italia). Adesioni ricambiate generosamente dallo Stato fascista. I tentativi di utilizzare l’editoria come strumento di un’egemonia culturale sul paese (prima Laterza con Croce, poi Einaudi con Gramsci): una strada, anche questa, necessariamente parallela e vicina al Palazzo (quello ministeriale ma anche quello dell’opposizione, del PCI). Più tardi questa morsa del Potere politico, capace di togliere e ridare aria a suo piacimento alle case editrici e al mondo del libro, si “arricchirà” dell’intervento dei grandi capitalisti (Agnelli, De Benedetti, Caracciolo, Berlusconi) che vorranno controllare senz’altro i giornali e le tv (più interessanti per loro), ma anche non permettere che dall’infido (per loro) mondo del libro salti fuori ogni tanto e inaspettatamente qualche autore, qualche idea, che indebolisca la loro ferrea presa sulla società.

Così il lettore, guidato nei meandri della storia editoriale dall’autore (sempre tagliente ma cortese nei giudizi) si trova addirittura, almeno in alcune circostanze, a tifare per Mondadori che è come tifare per la Juventus. In un gustoso capitolo è così raccontata la cocente e inattesa sconfitta allo Strega (1989) del divo Calasso (nella doppia veste di editore e di autore) a favore del più umile e almeno altrettanto bravo Giuseppe Pontiggia. Ferrari riesce a presentare in quel caso la mastodontica macchina di Segrate, con i suoi ingranaggi di potere un po’ arrugginiti e una sua aria quasi bonacciona, come il “buono” che mette a terra all’ultimo secondo il più piccolo ma decisamente presuntuoso editore “indipendente” (Adelphi in questo caso). E per riuscire nell’impresa l’autore non nasconde i mezzi “sporchi” utilizzati, nella fattispecie un pacchetto decisivo di voti controllati da Newton Compton (il tutto ovviamente secondo gli usi e le regole del più grande premio letterario italiano. Nessuno potrà scandalizzarsene).

Pensavo di essermi divertito nella mia carriera di editore indipendente, ma quanto mi sarebbe piaciuto partecipare ad alcuni dei gustosissimi episodi da grande editore vissuti da Ferrari!

Cos’è poi l’indipendenza? È la domanda che percorre il libro di Ferrari. Lui che non ha mai lavorato in un piccolo-medio editore (esclusa l’esperienza Boringhieri), ha costantemente in testa questa domanda. Preferisce il termine autonomia. L’indipendenza è sempre relativa. Nessuna persona né nessuna azienda è totalmente libera così come anche nelle situazioni più oppressive si può trovare spazio per azioni autonome (vedi ancora Rusca dentro la Mondadori “fascista”).

La domanda concreta è: cosa fare all’interno della maggior casa editrice italiana, dove necessariamente bisogna pubblicare libri di ogni genere e per qualsiasi pubblico, quando diventa proprietario il maggior imprenditore dell’entertainment e della comunicazione diventato addirittura presidente del Consiglio?
Ferrari ci racconta come se la sono cavata lui e i suoi colleghi attraversando Tangentopoli, la proposta di D’Alema, il rifiuto di Saramago e via dicendo.

Alla fine della lettura resta un’impressione e anche una speranza. Ovvero che, al di là delle concentrazioni, dei balletti editoriali, delle stringenti richieste del profitto e dell’economia, di una Politica capace solo di oscillare tra indifferenza verso la cultura e tentativi di controllarla, c’è ancora un futuro per il libro e per il bellissimo lavoro dell’editore (e degli “editoriali”).

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