Un'infiorescenza di cannabis essiccata (EPA/Ana Escobar, ANSA)

In Italia la cannabis per usi terapeutici è difficile da trovare

E, anche quando c'è, è molto costosa per tante delle persone a cui viene prescritta

Caricamento player

L’Italia ha un problema di carenza di cannabis. Nonostante fin dal 2006 medicinali a base di derivati della canapa possano essere prescritti dai medici per contrastare gli effetti di varie patologie, può essere difficile riuscire a ottenerli per coloro che ne hanno bisogno. In primo luogo perché non tutte le farmacie preparano e vendono questi medicinali: nel 2020 sono state meno di 400 su circa 20mila. Ma anche perché quelle stesse farmacie possono facilmente restare a corto di materia prima: sia la produzione nazionale di canapa coltivata a scopo terapeutico che le importazioni dall’estero sono limitate da regole e quote molto rigide, che impediscono di soddisfare le esigenze dei malati.

Nel 2021, secondo i dati del ministero della Salute, sono stati venduti (e si suppone consumati) un po’ meno di 1.300 chilogrammi di infiorescenze di cannabis nelle farmacie italiane. È una quantità inferiore rispetto alla stima fatta dallo stesso ministero della domanda complessiva per l’intero anno sulla base dei fabbisogni forniti dalle Regioni, che era stata stimata in 1.400 chili.

La stessa quantità appare ancora più insufficiente se paragonata ad altre stime del fabbisogno nazionale: secondo l’Organo internazionale per il controllo degli stupefacenti (INCB), l’agenzia delle Nazioni Unite incaricata di contrastare il commercio illegale delle droghe e controllare quello legale, nel 2021 l’Italia avrebbe avuto bisogno di 2.900 chili di infiorescenze di cannabis. Anche questa stima comunque è molto inferiore rispetto alla reale richiesta di cannabis, secondo i gruppi di persone a cui è prescritta e che da anni si lamentano della scarsa disponibilità della sostanza.

(Una nota lessicale: tecnicamente “cannabis” o “canapa” è il nome della pianta da cui si ottengono i principi attivi usati sia per scopi terapeutici, che per rilassarsi e provare sensazioni piacevoli, nel caso del più comune uso illegale. Dato che la cannabis ne contiene diversi, si usa la stessa parola anche per indicare l’insieme di tali sostanze o alcune di esse.)

Secondo un sondaggio realizzato recentemente dal Comitato pazienti cannabis medica, un gruppo che riunisce e rappresenta persone a cui la cannabis è stata prescritta e che è stato invitato dal sottosegretario alla Salute Andrea Costa a far parte di un “tavolo tecnico permanente” per risolvere la carenza della sostanza, il fabbisogno annuale di 287 persone è pari a 163 chili di infiorescenze. Tenendo conto che secondo il ministero i pazienti che hanno bisogno di terapie a base di cannabis sono circa 50mila, la reale domanda nazionale sarebbe quasi 30 tonnellate di infiorescenze.

Il 74 per cento delle persone coinvolte nel sondaggio del Comitato pazienti cannabis medica ha denunciato «difficoltà a reperire la terapia»; circa la metà ha dovuto ricorrere ad altre soluzioni per sopperire alla mancanza di cannabis legale, e di queste persone il 10 per cento è ricorso al mercato illegale.

Ci sono anche persone che hanno scelto di coltivare da sé la cannabis, andando incontro alla possibilità di essere denunciate e affrontare le conseguenze penali: era successo ad esempio a Walter De Benedetto, un malato di artrite reumatoide che per anni si è battuto per l’accesso alla cannabis terapeutica. De Benedetto, che è morto a maggio, era stato assolto dall’accusa di detenzione e spaccio di sostanza stupefacente perché il giudice per le indagini preliminari competente per il suo caso aveva riconosciuto che coltivava la cannabis per alleviare i propri dolori.

Per risolvere il problema della carenza di cannabis bisognerebbe aumentarne la produzione nazionale oppure le importazioni dall’estero, ma entrambe le cose non sono facili per via delle restrizioni sulle sostanze stupefacenti, di cui la cannabis fa parte.

A partire da due ordinanze firmate nel 2006 da Francesco Storace e Livia Turco, che si avvicendarono come ministri della Salute, alcuni medicinali contenenti THC, uno dei due principali principi attivi della cannabis, sono diventati legali.

In particolare, dal 2006 è possibile importare il Dronabinol, la versione farmaceutica del THC. Nel 2013 invece fu reso possibile importare il SativexR, un medicinale in spray prodotto dall’azienda britannica GW Pharmaceuticals: contiene sia THC che CBD, l’altro principale principio attivo della cannabis, e può essere prescritto ai malati di sclerosi multipla per ridurre gli spasmi dolorosi causati da questa patologia.

Sempre dal 2013 le farmacie italiane possono comprare e trattare direttamente infiorescenze di cannabis per realizzare preparati medicinali: dosi di prodotto essiccato adatte a essere inalate o assunte tramite decotto, oppure capsule o estratti (sostanzialmente olii), a seconda delle prescrizioni mediche. Dalla fine dell’anno scorso in teoria si può fare la stessa cosa anche utilizzando un estratto con il 15 per cento di THC importato e distribuito dall’azienda italiana Farmalabor: in questo caso ai farmacisti basta diluire il prodotto secondo le indicazioni dei medici.

In generale, fatta eccezione per il SativexR che però è prescritto solo a un limitato gruppo di malati, tutte le medicine contenenti THC che possono essere vendute dalle farmacie italiane sono preparazioni magistrali, cioè realizzate dai farmacisti stessi a partire dalle infiorescenze o dall’estratto di Farmalabor, seguendo le indicazioni fornite dai medici in termini di posologia e modalità di assunzione.

In teoria i farmacisti sarebbero liberi di acquistare tanta cannabis quanta ritengono, a patto di essere dotati di un idoneo laboratorio per le preparazioni magistrali, che solo un sesto circa delle farmacie italiane possiede. Marco Ternelli, farmacista galenista e curatore del blog Farmagalenica, ha spiegato però come di fatto gli ordini partano solo quando le farmacie ricevono prescrizioni. E la cannabis inviata è meno rispetto a quella richiesta: «Sappiamo che c’è un problema di carenza e se ne servono 200 grammi, se ne ordinano 500. Ma ne riceviamo meno: dato che negli ultimi due anni la materia prima è sempre mancata, per i fornitori non ha senso cercare di soddisfare le richieste del singolo farmacista e così ne danno poca a tutti».

La maggior parte della materia prima usata per i preparati realizzati dai farmacisti è importata dai Paesi Bassi, dove da decenni la vendita e il consumo di cannabis sono ammessi anche per scopi ricreativi, come si dice, per le persone maggiorenni all’interno dei cosiddetti “coffee shop”.

Può essere acquistata direttamente dalle aziende sanitarie locali (ASL), oppure da cinque società distributrici che poi la vendono alle farmacie: a venderla è esclusivamente il Bureau voor Medicinale Cannabis (Ufficio per la cannabis medica) del ministero della Salute, del Welfare e dello Sport olandese, in relazione alla sua disponibilità di infiorescenze per le esportazioni.

Il fatto che la cannabis di importazione sia venduta da un organismo statale garantisce che sia stata sottoposta a un certo tipo di controlli stringenti: non tutte le piante di canapa hanno lo stesso contenuto di principi attivi, dato che ne sono state selezionate tante varietà diverse, e il Bureau voor Medicinale Cannabis (che nei Paesi Bassi ha il monopolio per la produzione per scopi terapeutici) garantisce sulla qualità delle proprie.

Per quanto riguarda la produzione italiana invece le garanzie sono fornite dal ministero della Difesa, dato che tutta la canapa prodotta per scopi medici è coltivata e venduta dallo Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze (Scfm).

In questo modo le autorità sanitarie hanno forti garanzie sulla quantità di principi attivi e sulla qualità delle infiorescenze; lo stabilimento segue procedure molto rigide, da azienda farmaceutica appunto, per assicurarsi che le piante non siano attaccate da batteri durante la crescita e da muffe durante e dopo l’essiccazione. Sia la produzione olandese che quella del Scfm danno inoltre la sicurezza che la materia prima per i medicinali sia prodotta legalmente, dato che la coltivazione della cannabis continua a essere soggetta a grandi restrizioni a livello internazionale per il suo carattere di «sostanza stupefacente».

Il problema della produzione italiana è che è limitata dalle dimensioni dello stabilimento di Firenze: nonostante dal 2016, anno in cui è stata avviata, sia sempre aumentata, è tuttora ridotta. Per quest’anno è stata autorizzata la produzione di 400 chili di infiorescenze, solo un centinaio in più rispetto a quanti ne sono stati prodotti l’anno scorso. Per questo l’importazione resta indispensabile e infatti lo scorso anno era stato deciso di aumentarla: più di tanto però non si può dato che è sua volta condizionata dai limiti di produzione ed esportazione dei Paesi Bassi.

Sempre per provare a risolvere il problema della carenza di cannabis, ad aprile il ministero della Difesa ha pubblicato un bando per trovare aziende italiane candidate alla coltivazione di piante di cannabis per conto dello Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze. Lo scopo dell’iniziativa – aperta fino al 29 luglio – è trovare un modo di aumentare la produzione nazionale di cannabis, ma anche se dovessero proporsi aziende idonee, la carenza non sarà risolta in fretta perché sarà solo l’inizio di un processo che potrebbe durare qualche anno.

Andrea Costa lo aveva presentato così: «La selezione degli operatori economici si articolerà in 4 fasi: selezione qualitativa dei candidati; ispezione tecnica e giudizio di idoneità; conferma della manifestazione di interesse e trasmissione degli inviti alla procedura ristretta; avvio della sperimentazione con valutazione finale e giudizio di idoneità. Tutte le prove, i sopralluoghi, le valutazioni saranno eseguite o comunque monitorate dallo Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze, di concerto con il ministero della Salute».

In attesa che questa o altre iniziative simili risolvano la carenza di cannabis, le persone a cui la sostanza è prescritta devono poi affrontare altri problemi.

Il principale è sicuramente il costo delle terapie, per una buona parte di loro. Infatti sebbene le leggi lascino abbastanza libertà ai medici per stabilire i casi in cui prescrivere la cannabis, a patto che esista una letteratura scientifica accreditata che ne suggerisca l’uso nel contesto specifico e che terapie più convenzionali si siano rivelate inefficaci o inadeguate, solo per certe condizioni la legge nazionale prevede il rimborso a carico del Servizio sanitario nazionale.

Tali condizioni sono: il dolore associato alla sclerosi multipla e lesioni del midollo spinale; la nausea e il vomito causati da chemioterapia, radioterapia e terapie legate all’HIV; l’inappetenza delle persone affette da cachessia, anoressia, tumori o AIDS; i movimenti involontari causati dalla sindrome di Tourette; la tensione oculare dovuta al glaucoma e, dal 2018, le condizioni per cui vengono prescritte terapie del dolore in generale.

Per tutte le altre condizioni per cui un medico può prescrivere medicinali a base di cannabis – compresa l’epilessia, anche nei bambini, perché la cannabis riduce la frequenza degli attacchi convulsivi secondo alcuni studi – non sono previsti rimborsi e la spesa a carico dei malati può essere esosa, dato che si tratta di terapie croniche, cioè che vengono assunte a lungo: «Una terapia prodotta con le infiorescenze può costare fino a 340 euro al mese», spiega Marco Ternelli. «I preparati fatti con gli estratti costano meno, ma parliamo comunque di un centinaio di euro al mese».

In generale, le regole sui rimborsi e sulle condizioni per cui sono previste variano da regione a regione e in alcune non è possibile ottenere alcun rimborso perché le autorità regionali non hanno mai recepito la legge nazionale: sono Calabria, Molise e Valle d’Aosta. L’utilizzo dell’estratto di Farmalabor può aiutare a contenere i costi delle preparazioni, ma solo per le prescrizioni che richiedono una bassa concentrazione di THC, e per il momento le preparazioni realizzate con questo specifico prodotto sono rimborsate dal Servizio sanitario solo in quattro regioni: Emilia-Romagna, Lombardia, Marche e Sicilia.

Continua sul Post