(Brescia e Amisano)

Il Barbiere di Siviglia alla fine del 2021

«Apparentemente, si sa, gran parte delle Opere ha uno schema narrativo tanto elementare da sembrare stucchevole: un tenore e un soprano vorrebbero amarsi ma un baritono non glielo lascia fare»

Ora vorrei raccontare che qualche giorno fa mi sono recato alla Scala con l’intento di sciogliere certe fatiche personali nel cristallino solvente della musica rossiniana, da sempre uno dei miei medicamenti preferiti. Davano infatti il Barbiere, diretto da Riccardo Chailly, con la regia di Leo Muscato. Ci sono arrivato un po’ al pelo, come sempre, pasticciando coi cappotti e coi biglietti, così da salire gli ultimi gradini prima di entrare in platea con la mente un po’ altrove – affannata, direi – il che mi ha spedito in sala nello stato d’animo ideale per accorgermi tutto d’un colpo, vorrei dire a tradimento, che in deroga alla maniacale prudenza esibita negli ultimi due anni e nel rispetto di recenti arditissimi decreti ministeriali, la sala in cui stavo entrando era praticamente piena – tecnicamente si definisce al 100% della capienza – generando un effetto che personalmente non vedevo da qualcosa come 600 giorni e che adesso mi ritrovavo sotto gli occhi come cosa di cui sapevo moltissimo ma che avevo perso di vista – mi viene da citare la liturgia cattolica, per dire – nella quale ora ritrovavo piccole sensazioni che accoglievo una ad una con gratitudine, tipo il silente duello col vicino per il possesso del bracciolo, l’infame acqua di colonia del melomane davanti, abbinata oltretutto all’inopportuna altezza dello stesso, la grata prossimità con la persona amata, insomma tutte quelle cose che a lungo avevo mitemente lasciato cadere, relegandole a ricordi, e che adesso invece mi ritrovavo a vivere, senza neanche essermi preparato un granché a causa della fretta con cui avevo accostato la serata, fretta che ora – seduto al mio posto, tra altri seduti nei loro posti, tutti premiati per la disciplinata disponibilità a esibire un green pass – improvvisamente mi ricordavo essere iniziata quando un’oretta prima ero finito con la macchina nel bel mezzo di una manifestazione in cui gente educata, benché evidentemente esasperata, rivendicava il proprio diritto a non esibire disciplinatamente il green pass, urlando tra l’altro una litania di libertà libertà libertà che naturalmente mi aveva toccato, tanto che lì per lì mi era sembrato perfino accettabile rimanere bloccato lì in mezzo e addirittura perdere il mio Barbiere amatissimo, come in un generoso gesto di solidarietà, gesto che poi in realtà non mi son trovato nella condizione di fare perché al Barbiere, come detto, ci sono poi arrivato, sebbene per un pelo, così da finire al mio posto a riflettere su quella elegante platea pienissima e grottescamente mascherata e a quell’altra che risaliva i viali di Milano nell’umido della sera, fino a farmi domande che stavano per immalinconirmi irrimediabilmente quando l’ouverture è piombata dal cielo a salvarmi, ouverture che, per inciso, Rossini aveva già usato due volte prima di metterla lì in cima al Barbiere – praticamente un venditore di auto usate.
Ma l’ho detto, non c’è niente come la sua musica, se quello di cui hai bisogno è sapere che ti hanno, contro ogni previsione, graziato.

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Per quel che ne so, il mondo è pieno di opere di Rossini più affascinanti del Barbiere, ma devo ammettere che il primo atto del Barbiere è perfetto, nel senso che non sbaglia un colpo, non c’è un solo numero messo lì con pigrizia, o fretta, o rinuncia. No, sul serio, andate a controllare, non c’è un errore. La cosa che adoro è che tanta miracolosa perfezione (in un mondo in cui la perfezione, si sa, è solo di dio e di Federer) sia stata usata per produrre praticamente il nulla. Il Barbiere non significa nulla, non fa venire un solo pensiero intelligente, non insegna una fava, non rappresenta alcunché. C’è un sacco di musica fantastica convocata su quel palco e l’unico scopo riconoscibile a tanta potenza di fuoco è: sgasare al semaforo. Uno spreco divino, che neanche l’Olanda dei Mondiali del ’74. In certo modo era una profezia: ci sarebbero voluti due secoli per realizzare a livello globale, con l’avvento della civiltà digitale, ciò che quell’opera, senza dare nell’occhio, realizza magnificamente: l’incontro tra genialità e superficialità. Storico.
Infatti, quando Beethoven ricevette Rossini in una di quelle sue mille case a Vienna, lo riaccompagnò poi alla porta con la bellissima frase: “bravo bravo, non smetta mai di fare tanti bei Barbieri, eh?” Sbam.L’aneddoto è quasi sicuramente falso. Ma il fatto che la raccontassero così, la dice lunga.Se ti eri fatto in quattro per scrivere la Nona Sinfonia, ne sapevi di superficialità come di sesso un bambino.

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Nel frattempo sentivo come dirigeva Chailly e pensavo: chissà cosa avrebbe detto Rossini a sentire un sound così equilibrato, sobrio, elegante, composto. Per un certo verso avrebbe imparato che anche lui aveva da qualche parte, geneticamente, l’equilibrio che adorava in Mozart e di cui si credeva radicalmente incapace. Ma forse invece avrebbe sorriso, stupefatto dal vedere che qualcuno potesse prendere la sua musica così sul serio.
A me, invece, sembrava di leggere Céline dopo che qualcuno gli aveva messo un po’ a posto la sintassi, e tolto tutti i tre puntini. Un esperimento che, tra l’altro, sono anni che mi ripropongo di fare per vedere cosa succede.

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Apparentemente, si sa, gran parte delle Opere ha uno schema narrativo tanto elementare da sembrare stucchevole: un tenore e un soprano vorrebbero amarsi ma un baritono non glielo lascia fare. Sotto questa ovvia facciata, tuttavia, molte Opere coltivano invece varianti sofisticate che diventano percettibili se uno solo fa lo sforzo di rigirarle un po’. Prendiamo il Barbiere. E giriamolo così: un vecchio ama disperatamente una fanciulla e giustamente i giovani lo fregano, lo prendono per i fondelli, lo umiliano e se ne vanno. Per un attimo immaginatevi vecchi: non è una storia intollerabilmente struggente? Lo è, e infatti il melodramma, che era spettacolo pagato soprattutto dai vecchi, l’ha raccontata un monte di volte, e spesso con una ferocia fantastica. Il bello è che l’ha raccontata a tutte le altezze: si va da Don Bartolo a Don Carlos, passando per Rigoletto. Che galleria fantastica di dolori vertiginosi. Ci voglio aggiungere il vecchio caro Germont, evidentemente stregato da Violetta, la quale è evidentemente stregata da lui: uno degli amori più impossibili della Storia dell’Opera, ma anche uno dei più veri.
Tutto questo per dire che a tratti, nel Barbiere, mi accade di sentire come intollerabile il dolore di Don Bartolo, di odiare il Conte d’Almaviva con quella sua vocetta del cavolo e di ritenere “fraschetta” un termine che, applicato a quella stronza di Rosina, risulta un offensivo eufemismo.Poi mi risveglio, rigiro il tutto, e ricomincio a ridere per le inutili precauzioni di quel vecchio babbeo.

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Per misurare il genio di Rossini, serve ritornare all’origine dell’Opera Buffa, alle ragioni del suo successo. Per quel che ne sappiamo, era un tipo di spettacolo iniziato quasi clandestino, sgangherato, messo negli Intervalli dell’Opera Seria per intrattenere quei forzati del divertimento che erano i frequentatori dei teatri del tempo. Mi vengono in mente i giochi che fanno nell’NBA durante gli intervalli: che se fai canestro sdraiato su un sofà a centrocampo vinci un bel po’ di dollari, quei giochi lì. La cosa dovette piacere a tal punto che l’Opera Buffa ci mise poco a diventare uno spettacolo indipendente, raffinatissimo, e ad accedere, già in Mozart, a vette spirituali che nessuno avrebbe mai immaginato: come vedere assurgere lo spritz a bevanda mondiale.
Fin dal primo momento, occorre ricordare, la Farsa, l’Opera Buffa, la commedia musicale avevano dalla loro un tratto anomalo e in fondo irresistibile: era teatro sceso sulla terra a rappresentare gli uomini nella loro vita quotidiana e nella loro miseria domestica. L’Opera Seria, cioè il teatro musicale vero, alto, nobile, rappresentava supereroi in cui la gente, solo con un processo di decifrazione, poteva riconoscere, e molto alla lontana, se stessa: un film Marvel. Nell’Opera Buffa, invece, la gente vedeva se stessa e basta: le Nozze, il capolavoro assoluto del genere, iniziano con uno che misura una stanza per scegliere i mobili Ikea. Canta proprio le misure. I numeri. (Cinque, dieci, venti, trenta, trentasei e quarantatré, per la cronaca). La cosa era resa possibile da un’inspiegabile magia linguistica, mai più replicata, in base alla quale quella gente sul palco cantava ma sembrava che non cantasse tanto il loro canto suonava naturale. Sembrava parlassero, semplicemente, ma con una eleganza e una naturalezza che poi non compariva più, purtroppo, nel nostro parlare consueto: se esci da un’opera di Da Ponte e Mozart, per qualche minuto chiunque ti rivolga la parola sembra afono e dislessico.Riassumendo: sotto la clausola del comico, il teatro metteva uno specchio davanti alla gente, perché si guardasse. Era uno specchio leggermente deformante, ma era uno specchio. La gente si vedeva e rideva.Rossini ereditò questa macchinetta perfetta e la stravolse, con gran gusto suo e del pubblico. Piegò gli specchi fino a farli diventare follemente deformanti, gonfiò la naturalezza fino a farla diventare une vegetazione tropicale, aumentò tutte le temperature e velocità, e alla fine ottenne un paesaggio che non era mai esistito prima: in esso, degli umani volavano, strappati alla terra per la troppa leggerezza, finiti pazzi per un eccesso di naturalezza, e letteralmente finiti fuori di sé dal divertimento.Non era più il mondo vero, ma non era semplicemente un mondo falso.Era la furia della realtà sfilata via dal reale e sparata nei nervi del pubblico.Una sostanza stupefacente di cui, come devo aver detto, accade a molti di fare uso.

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Non so, e mi piacerebbe sapere, quanto, e dove, il pubblico ridesse, all’epoca. Voglio dire, che fosse teatro comico è ovvio, ma poi ridevano veramente, e a che battute, e quanto forte? Immagino che piacessero le gag, i travestimenti, gli scivoloni, gli inciampi e tutte quelle innocue cose lì. Ma il linguaggio, ad esempio, quei termini tipo fraschetta, o zerbinotti, erano lessico corrente o iperboli che li facevano sganasciare? E l’Aria della calunnia, per dire, faceva ridere? Lo ignoro, ma sospetto che questo sia il problema reale di tutte le regie del Rossini comico. Sei lì per fare ridere il pubblico del 2021? E se no, allora che ci stai a fare? Nella circostanza, Leo Moscato l’ha presa in un modo che mi è parso delizioso: alla fine sono uscito senza aver riso una sola volta ma con la precisa impressione di aver passato il tempo a ridere. La magia deve essere piaciuta anche ad altri perché a chiusura di sipario molti e grati sono stati gli applausi, per lui, come per orchestrali, direttore e cantanti, con una punta di riconoscenza in più per il Figaro di Mattia Oliveri e il Bartolo di Marco Filippo Romano.
Uscito, la gente fuori sembrava sedata, oltre che afona e dislessica.

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