(Sam Tarling/Getty Images)

Dell’esplosione di Beirut sappiamo ancora pochissimo

Dopo un anno le indagini sono ferme, complice la politica, e i dubbi su cosa ci facesse l'esplosivo nel porto non sono stati mai risolti

È passato un anno da quando il 4 agosto del 2020 un’enorme esplosione devastò il porto di Beirut, in Libano, ma le indagini sui responsabili sono di fatto ferme, anche per volontà della politica locale. Nell’esplosione morirono più di 200 persone, altre 7mila furono ferite e diversi edifici della città subirono gravi danni, per un valore totale di circa 3 miliardi di euro.

L’esplosione avvenne a causa di un incendio in un deposito del porto in cui erano stipate quasi 3mila tonnellate di nitrato di ammonio, arrivate a Beirut nel 2013 a bordo di una nave mercantile di proprietà russa. Finora nessuna persona è stata ritenuta responsabile del fatto che una tale quantità di esplosivo fosse da anni custodita nel centro della città, e molte domande su cosa sia successo davvero rimangono ancora senza risposta.

Cosa si sa e cosa no
Ciò che sappiamo con certezza è che la nave era partita dalla Georgia diretta in Mozambico, dove avrebbe dovuto consegnare il nitrato di ammonio che era stato ordinato dalla banca nazionale locale per conto della Fábrica de Explosivos de Moçambique, che si occupa di esplosivi industriali per miniere ed edilizia, un ambito in cui il composto è largamente usato. Questo era almeno quanto dichiarato dai documenti ufficiali, ma ci sono molti dubbi che la destinazione reale del nitrato di ammonio fosse il Mozambico.

Sta di fatto che in Mozambico la nave non arrivò mai dato che l’armatore, Igor Grechushkin, un ricco uomo d’affari russo, non aveva abbastanza soldi per attraversare il Canale di Suez, e disse quindi al capitano di far fermare la nave a Beirut in attesa di raccogliere la somma necessaria per pagare il passaggio. Questo però non accadde, e la nave rimase ferma nel porto per mesi. Nel 2014 il carico della nave passò sotto il controllo delle autorità cittadine, che per motivi di sicurezza lo spostarono in un deposito del porto, in attesa di decidere come smaltirlo.

Perché in quei sei anni le autorità libanesi non abbiano smaltito il nitrato di ammonio stipato a Beirut è una delle tante domande che sono ancora senza risposta, e che le indagini stanno cercando di appurare.

Nei mesi scorsi sono trapelati documenti ufficiali che indicano come in almeno dieci occasioni le autorità doganali, militari e di sicurezza libanesi, nonché la magistratura, avessero avvertito il governo della pericolosità dell’esplosivo, senza che venisse intrapresa alcuna azione. Sia il presidente Michel Aoun che il primo ministro uscente Hassan Diab hanno inoltre affermato di essere stati messi a conoscenza del pericolo, ma di aver lasciato alle autorità portuali il compito di occuparsene.

Un’altra questione ancora aperta è quanto esplosivo ci fosse realmente nel deposito: un rapporto dell’FBI, l’agenzia investigativa della polizia federale statunitense, redatto nell’ottobre del 2020 e ottenuto solo pochi giorni fa dall’agenzia di stampa Reuters, sostiene che a esplodere non fu tutto il nitrato di ammonio stipato, ma solo 552 tonnellate, un quinto di quello che era stato trasportato dalla nave. Non si sa cosa sia successo al resto, ma secondo quanto raccontato in privato da alcuni funzionari libanesi sarebbe stato rubato prima dell’esplosione. Alcuni politici e attivisti hanno detto che il nitrato di ammonio rubato sarebbe stato contrabbandato in Siria, e usato dal governo del presidente Bashar al Assad come esplosivo nel corso della guerra civile.

C’è inoltre chi sostiene che la Siria fosse fin dal principio il paese destinatario del carico di esplosivo: secondo quanto raccontato da un’inchiesta del giornalista libanese Firas Hatoum, dietro alla spedizione ci sarebbero stati tre uomini d’affari siriani legati al governo di Assad, George Haswani e i fratelli Imad e Mudalal Khuri, che in passato erano stati sanzionati dagli Stati Uniti proprio per la loro vicinanza al presidente siriano.

Hatoum ha scoperto che la Fábrica de Explosivos de Moçambique aveva comprato l’esplosivo usando una società intermediaria, la Savaro Limited, con sede nel Regno Unito allo stesso indirizzo delle società possedute da Haswani e dai fratelli Khuri: la Savaro, secondo Hatoum, sarebbe stata quindi solo una copertura per permettere di nascondere i veri acquirenti dell’esplosivo.

Gli intralci alle indagini
Alla lentezza delle indagini si è aggiunta la crisi politica che sta proseguendo in Libano da quasi un anno.

Pochi giorni dopo l’esplosione, il primo ministro libanese Hassan Diab diede le dimissioni, ma un anno dopo non è ancora stato formato un nuovo governo e la crisi economica è sempre più profonda. L’incerta situazione politica ha avuto ripercussioni anche sulle indagini, affidate inizialmente a Fadi Sawan, un giudice poco conosciuto che in passato era stato a capo del tribunale militare. Sawan aveva incriminato Hassan Diab e tre ex ministri – Ali Hassan Khalil, ex ministro delle Finanze, e Ghazi Zaiter e Youssef Fenianos, entrambi ex ministri dei Lavori pubblici – con l’accusa di negligenza nella gestione della grande quantità di nitrato di ammonio depositato vicino al porto.

Nei confronti di Diab e dei tre ministri non era però stato avviato alcun processo e i quattro non sono mai stati interrogati, grazie all’immunità di cui godono i parlamentari libanesi. Due dei ministri indagati avevano inoltre fatto ricorso alla Corte di Cassazione per rimuovere Sawan, accusandolo di essere un giudice non neutrale, dato che la sua nomina era stata fatta dalla Corte Suprema libanese, che è composta da 7 membri scelti dal parlamento e 8 giudici, e quindi fortemente dipendente dai partiti politici. La Cassazione aveva accolto la richiesta a febbraio, sostenendo che Sawan non poteva condurre l’indagine oggettivamente poiché residente in un appartamento danneggiato dall’esplosione nel quartiere di Ashrafieh.

Inizialmente la sostituzione di Sawan aveva provocato molte proteste da parte dei familiari delle vittime, che temevano che questo potesse essere il primo passo di un insabbiamento delle indagini. Il giudice che aveva preso il suo posto, il 46enne Tarek Bitar, aveva però continuato a percorrere la pista tracciata da Sawan. A luglio ha richiesto al parlamento libanese di togliere l’immunità a diversi parlamentari e al capo della Sicurezza Nazionale, il generale Abbas Ibrahim, per poterli interrogare.

Ma la richiesta per ora non è stata accolta, e più di 20 parlamentari hanno firmato una petizione per trasferire l’indagine da Bitar direttamente alla Corte Suprema, che ha il potere di inquisire i parlamentari. Anche questa azione è stata criticata dai familiari delle vittime e da diversi attivisti, secondo cui sarebbe l’ennesimo tentativo di proteggere i parlamentari dall’inchiesta, dato che il Consiglio Supremo non ha mai inquisito alcun parlamentare in tutta la storia del Libano.

Il 14 luglio decine di persone hanno manifestato davanti alla casa del ministro dell’Interno Mohamed Fahmi per protestare contro il trasferimento dell’inchiesta alla Corte Suprema: dopo quella manifestazione, quattro dei parlamentari che avevano firmato la petizione hanno ritirato il loro sostegno.

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