(AP Photo/Mark Schiefelbein)

Laurel Hubbard, prima donna trans alle Olimpiadi

Gareggerà nel sollevamento pesi, per la Nuova Zelanda: ma i criteri utilizzati dal CIO per stabilire chi possa competere tra le donne sono molto discussi

La neozelandese Laurel Hubbard diventerà a Tokyo la prima atleta transgender a partecipare alle Olimpiadi. Hubbard gareggerà nel sollevamento pesi e ha già vinto la medaglia d’argento ai Campionati mondiali del 2017 e l’oro ai Giochi del Pacifico nel 2019. La sua partecipazione ai Giochi, oltre a essere citata e celebrata come un momento importante nelle lotte per i diritti civili, ha riacceso il dibattito sulla partecipazione delle persone trans alle competizioni sportive, e in particolare quella delle donne trans (cioè persone che si identificano come donne pur essendo nate di sesso maschile) nella stessa categoria delle donne cis (cioè donne che si identificano con lo stesso sesso assegnatogli alla nascita).

Hubbard ha 43 anni e nel 1998, quando ancora non aveva iniziato la transizione, stabilì il record junior neozelandese nella categoria degli uomini con un peso corporeo superiore ai 105 chilogrammi. Hubbard ha raccontato di aver scelto di praticare uno sport tradizionalmente maschile perché pensava che l’avrebbe aiutata a combattere la disforia di genere (ovvero il disagio sperimentato da alcune persone che non si riconoscono nel proprio sesso assegnato alla nascita) e a convincersi di essere un uomo, ma senza successo. Nel 2001, a 23 anni, interruppe l’attività sportiva: «la pressione di provare ad adattarsi in un mondo che non era pensato per le persone come me diventò troppo difficile da sopportare», ha spiegato.
Nel 2012, a 35 anni, iniziò la transizione con terapia ormonale e ricominciò la sua carriera sportiva, stavolta nelle categorie femminili. Nel 2017 arrivò al secondo posto ai campionati mondiali in California, diventando la prima persona neozelandese a vincere un argento in una competizione mondiale.


Dal 2015 i requisiti che le atlete trans devono avere per gareggiare nella categoria femminile sono diventati meno stringenti: non è più necessario sottoporsi alla rimozione chirurgica dei genitali, e l’unico requisito richiesto è mantenere i livelli di testosterone sotto una certa soglia nei 12 mesi precedenti alla competizione. Anche l’attuale approccio è comunque oggetto di discussioni e polemiche. L’acerba letteratura scientifica sul tema non ha ancora raggiunto un vero consenso sull’esistenza e sull’esatta entità del vantaggio posseduto dalle atlete trans nei confronti di quelle cis: e il livello di testosterone sembrerebbe non essere un buon indicatore per determinarlo. Lo sviluppo del corpo maschile che avviene durante la pubertà, infatti, assicura benefici a lungo termine, tra cui una maggiore massa magra, forza, densità ossea, e dimensione dei muscoli che possono essere solo marginalmente ridotti attraverso un successivo abbassamento del livello di testosterone.

Dall’altra parte, secondo alcuni esperti il fatto che il testosterone contribuisca o meno al vantaggio sportivo degli atleti è irrilevante. Come ha fatto notare Rachel McKinnon, professoressa di filosofia e ciclista trans canadese, ci sono molti altri fattori biologici che assicurano vantaggi o svantaggi agli atleti, come l’altezza, che però non vengono usati come criteri discriminanti, a differenza del livello di testosterone.

Il criterio del testosterone, inoltre, può mettere in difficoltà anche le donne cisgender. La sudafricana Caster Semenya, due volte campionessa olimpica degli 800 metri piani, è stata identificata come femmina alla nascita e si è sempre identificata come donna. Nonostante questo, possiede la coppia di cromosomi maschili XY e ha un livello di testosterone molto superiore alla media femminile: il Comitato Olimpico Internazionale le ha impedito per questo di partecipare a ogni competizione a meno che non si sottoponga a una terapia farmacologica per abbassare il proprio livello di testosterone. Semenya si è rifiutata. I suoi avvocati hanno detto che «le regole richiedono a queste donne di sottoporsi a esami fisici umilianti e invasivi, seguiti da procedure sperimentali e dannose». Il caso è stato portato davanti al Tribunale Arbitrale dello Sport ma la sentenza ha assolto la World Athletics, la federazione internazionale. Si attende una sentenza da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo, ma la decisione non arriverà in tempo per i Giochi di Tokyo: Semenya non potrà quindi gareggiare e difendere il titolo ottenuto nel 2012 a Londra e nel 2016 a Rio de Janeiro.

Oltre alla questione strettamente sportiva, la partecipazione di Hubbard ai Giochi si inserisce in un acceso e vivace dibattito internazionale sui diritti delle persone trans. È una questione particolarmente attuale soprattutto negli Stati Uniti, dove in molti stati il Partito Repubblicano ha promosso leggi che impediscono agli studenti trans delle scuole superiori di partecipare ai tornei scolastici insieme agli studenti del loro stesso genere di appartenenza.
I politici più conservatori sostengono che la partecipazione delle donne trans nelle discipline femminili – anche a livello amatoriale e studentesco – porti alla “distruzione degli sport femminili”. Alcuni stati hanno anche proibito, e in certi casi criminalizzato, l’accesso ai farmaci per il blocco della pubertà e alle terapie ormonali per le persone trans, nonostante siano l’unico modo per prevenire gli effetti parzialmente irreversibili della pubertà: gli stessi effetti che poi assicurano un vantaggio atletico alle donne trans, e che quindi le escludono dalle competizioni.

Un altro argomento diffuso è che i bambini non siano abbastanza maturi per prendere questo tipo di decisioni sulla loro vita, e quindi sia giusto vietarle. Gli attivisti e le organizzazioni per i diritti umani, tra cui la Human Rights Campaign (HRC), il più grande gruppo di pressione che si occupa di proteggere i diritti per le persone LGBT negli Stati Uniti, pensano invece che queste leggi stiano cercando di risolvere un problema che non esiste, perché gli effetti delle terapie ormonali sono reversibili. Kate Oakley, consulente di HRC, aggiunge che bandire queste terapie per gli adolescenti potrebbe avere conseguenze negative sulla loro salute mentale. I dati mostrano che le persone trans, infatti, sono già due volte più propense al suicidio rispetto al resto delle persone LGBT, e gli esperti concordano nel dire che completare la transizione (anche attraverso terapie ormonali) può aiutare a ridurre il rischio di suicidio.
Laurel Hubbard non si è mai espressa sulle conseguenze politiche della sua partecipazione alle Olimpiadi. In una delle rare interviste che ha dato, si è limitata a dire: «Non sono qui per cambiare il mondo, voglio solo essere me stessa e fare quello che faccio». Charisma Amoe-Tarrant, che è considerata la principale rivale di Hubbard alle Olimpiadi, ha accettato la sua inclusione in gara, dicendo di avere «molto rispetto per lei».


La prima ministra neozelandese Jacinda Ardern si è limitata a dire che la decisione sulla partcipazione di Hubbard non spetti al governo ma debba essere lasciata nelle mani del Comitato Olimpico. Il clima politico intorno alla questione è molto più disteso che negli Stati Uniti, in Nuova Zelanda: anche la leader dell’opposizione, la conservatrice Judith Collins ha espresso ammirazione nei confronti di Hubbard, specificando che la questione della partecipazione delle atlete trans alle Olimpiadi meriti una seria discussione pubblica ma senza «bullismo o commenti orribili su Laurel».

Questo e gli altri articoli della sezione Intorno alle Olimpiadi sono un progetto del workshop di giornalismo 2021 del Post con la Fondazione Peccioliper, pensato e completato dagli studenti del workshop.

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