Il capitano della Grecia, Theodoros Zagorakis, incredulo dopo la vittoria in semifinale agli Europei del 2004 (Laurence Griffiths/Getty Images)

Un Europeo che ancora sembra impossibile

Nel 2004 la Grecia di Otto Rehhagel sbucò fuori dal nulla e vinse il torneo contro ogni pronostico battendo due volte il Portogallo padrone di casa

Caricamento player

Nei primi mesi del 2004 c’erano già state molte sorprese nel calcio europeo. A maggio l’Arsenal aveva vinto la Premier League da imbattuto con un record rimasto ancora ineguagliato e in Germania il Werder Brema era tornato a vincere la Bundesliga dopo undici anni, interrompendo una delle tante serie del Bayern Monaco. A fine stagione, poi, il Porto allenato da un giovane José Mourinho vinse la Champions League in quella che ancora oggi rimane l’ultima grande sorpresa del torneo più ambito del calcio.

Il 12 giugno, proprio in Portogallo, cominciarono gli Europei. Era un’edizione da cui ci si aspettava molto, perché un po’ tutte le squadre partecipanti, in special modo le grandi nazionali, ci arrivavano con grandi aspettative, e questo lasciava pochi spazi ad altre eventuali sorprese. E invece quell’Europeo lo vinse la Grecia, in un modo a cui è ancora difficile credere.

C’era la Francia con Zidane ed Henry al picco delle loro carriere. Il Portogallo giocava in casa con Cristiano Ronaldo, Figo, Rui Costa e mezzo Porto campione d’Europa. Nella Spagna si intravedeva la squadra che di lì a poco avrebbe vinto tutto. L’Inghilterra di Owen, Lampard, Gerrard e Beckham si presentava con quello che sembrava già un nuovo fenomeno, Wayne Rooney. L’Italia allenata da Trapattoni era imbottita di grandi giocatori e aspettava di vedere il contributo di Antonio Cassano. La Germania era vice campione del mondo, l’Olanda doveva riscattarsi dagli Europei persi in casa, e la Repubblica Ceca non era mai stata così forte.

Anche le nazionali da cui ci si aspettava di meno erano comunque interessanti, come la Svezia di Ibrahimovic, Larsson e Ljungberg. Eppure tutte queste fallirono. Soltanto tre, e nemmeno le più quotate, si ritrovarono in semifinale. Italia, Spagna e Germania vennero eliminate ai gironi, Francia e Inghilterra ai quarti. Tra le sedici partecipanti, alla fine la spuntò quella che nessuno aveva visto arrivare.


La storia di quella Grecia era iniziata quando, nel 2001, l’allora presidente federale Vasilis Gagatsis si mise alla ricerca di un nuovo allenatore. Fino a lì il calcio greco non aveva quasi mai fatto parlare di sé al di fuori dei suoi confini. In un secolo di storia aveva partecipato a un Mondiale e a un Europeo, senza mai vincere una sola partita, e i suoi giocatori più popolari erano conosciuti soltanto in Grecia. La nazionale era «un circo itinerante», come ricorda ancora oggi Gagatsis.

Con le Olimpiadi di Atene in vista, il calcio greco tentò però di costruire qualcosa di buono. Gagatsis ridusse la selezione a due allenatori: l’italiano Nevio Scala, che negli anni Novanta aveva iniziato il ciclo di vittorie del Parma, e il tedesco Otto Rehhagel, che nel 1998 aveva vinto il campionato tedesco con il neopromosso Kaiserslautern, cosa mai riuscita a nessuno. La scelta cadde su Rehhagel per un motivo in particolare: chiedeva 400mila euro all’anno, mezzo milione in meno di Scala.

Vista adesso, vent’anni dopo, la scelta di Rehhagel aveva molto senso. Era uno degli allenatori più vincenti in Germania, ma aveva sempre allenato squadre sfavorite portandole poi alla vittoria nel giro di qualche anno puntando tutto sulla costruzione del gruppo, sulla disciplina e sulla solidità difensiva. Era burbero, faceva paura a qualche giocatore e non si faceva problemi a mandare in campo squadre brutte da vedere e piuttosto ruvide, se quello era l’unico modo per tirare fuori un buon risultato.

Rehhagel iniziò ad allenare la Grecia ancora senza contratto, con un accordo verbale. La sua prima partita fu un disastro. Il 5 settembre del 2001 perse 5-1 contro la Finlandia nelle qualificazioni ai Mondiali. La sconfitta fece circolare già qualche dubbio sul suo conto, ma a Rehhagel servì per capire in che guaio si era cacciato.

Otto Rehhagel a bordo campo per la Grecia (Getty Images)

Dalla partita contro la Finlandia cominciò a sistemare quello che aveva visto di sbagliato. Iniziò escludendo chi secondo lui faceva male al gruppo, e partì con uno dei giocatori più apprezzati in Grecia, l’ex terzino dell’Inter Grigoris Georgatos, il cui atteggiamento in Nazionale non entusiasmava. Poi toccò all’allora portiere titolare,
Dimitrios Eleftheropoulos, che rifiutò una delle prime convocazioni e da lì in poi venne sostituito da Antonis Nikopolidis.

Il 6 ottobre del 2001 la mano di Rehhagel già si fece vedere in un sorprendente pareggio all’Old Trafford contro l’Inghilterra, fermata sul 2-2, che evitò la sconfitta soltanto grazie a una delle più famose punizioni di David Beckham. Il pareggio fece salire l’entusiasmo e diede carta bianca a Rehhagel per fare più o meno tutto quello che aveva in mente.

Alla sua quarta partita, una sconfitta in amichevole contro Cipro, Rehhagel chiese ad Akis Zikos, uno dei giocatori greci più amati di quel periodo, di entrare in campo a pochi minuti dal termine per sostituire un compagno infortunato, il capitano Theodoros Zagorakis. Zikos si mise a discutere ed entrò svogliato: la sua carriera internazionale con la Grecia finì quel giorno.

Ai giocatori rimasti fece capire l’importanza dell’unità, e il perché la Nazionale sarebbe dovuta diventare una priorità per tutti. Rehhagel colse nel segno. Il calcio greco era storicamente diviso tra i quattro grandi club del paese, come lo è tuttora. C’era l’Olympiakos, la squadra dei portuali del Pireo. C’era l’AEK Atene fondato dai greci rimpatriati dall’Asia minore, il Panathinaikos della ricca e influente famiglia dei Giannakoupolos, e il PAOK Salonicco, una squadra meno ricca ma dal distinto carattere balcanico.

L’allenatore tedesco lo aveva capito alla sua prima partita in Grecia, il 10 novembre 2001 ad Atene contro l’Estonia. Il pubblico di casa era visibilmente diviso tra i sostenitori di questi quattro club, ognuno dei quali fischiava i giocatori rivali anche se questi stavano giocando per la loro Nazionale. Rehhagel decise così di puntare sull’unità e chiese alla Federazione di non giocare mai negli stadi più grandi e dispersivi del paese — come il rinnovato ed enorme Stadio Olimpico di Atene — ma negli impianti più piccoli, anche lontano dalla capitale.

(Alex Livesey/Getty Images)

Fu così che la Nazionale greca iniziò il suo percorso verso gli Europei. Trovò un’unità che non aveva mai avuto ed ebbe anche fortuna nel godere di un periodo particolarmente buono per i suoi giocatori, che soltanto da pochi anni avevano iniziato a giocare regolarmente all’estero. Era il caso di Giorgos Karagounis dell’Inter, Traianos Dellas della Roma, Zisis Vryzas della Fiorentina, Angelos Charisteas del Werder Brema, Nikos Dabizas del Leicester e Demi Nikolaidis dell’Atletico Madrid. Quest’ultimi due avevano una storia tutta loro.

Nikolaidis aveva di fatto smesso di giocare per la Grecia, ma Rehhagel lo convinse a tornare e questo lo aiutò ad essere ingaggiato dall’Atletico Madrid, dove per una stagione fece coppia in attacco con un giovane Fernando Torres. Dabizas invece giocava in Inghilterra quando a un anno dagli Europei fece un incidente in macchina in cui venne sbalzato fuori dal parabrezza della sua auto, cosa che lo salvò dall’incendiò che scoppiò all’interno. Ne uscì ridotto male e con un braccio rotto in più punti, ma era stato uno dei giocatori greci più presenti fin dall’inizio: riuscì a recuperare e a presentarsi in tempo per gli Europei.

Per poter interagire meglio con la squadra, Rehhagel si affidò a Ioannis Topalidis, un assistente tecnico nato in Grecia ma cresciuto in Germania, che all’epoca in Grecia nessuno conosceva. Tra Rehhagel e Topalidis, un tipo più calmo e comprensivo, si creò a detta di molti una legame molto forte e un rapporto lavorativo descritto come perfetto. A Topalidis si aggiunse poi Angelos Charisteas, un attaccante che spesso segnava nelle partite decisive: due anni prima degli Europei era andato a giocare in Germania e aveva imparato un po’ di tedesco.

Dall’arrivo di Rehhagel all’inizio delle qualificazioni agli Europei del 2004 passò un solo anno, eppure la squadra iniziò subito a ingranare. Nei gironi di qualificazione fu sorteggiata con Spagna e Ucraina, entrambe più quotate, ma riuscì a sorprenderle entrambe. Giocando un calcio estremamente difensivo che per colpire gli avversari si affidava a contropiedi, cross e calci piazzati per sfruttare altezze e abilità nel gioco aereo dei suoi giocatori, si qualificò da prima vincendo sei partite su otto, segnando appena un gol a partita e subendone la metà.

L’impostazione di gioco difensiva che aveva premiato nelle qualificazioni fu riproposta nella fase finale degli Europei in modo ancora più cinico. Lì capitò nuovamente in un girone difficile con i padroni di casa del Portogallo, la Spagna e la Russia, ma la storia non cambiò. Riuscì a battere nettamente il Portogallo all’esordio, fra l’incredulità di molti, approfittando degli errori dei portoghesi, che si accorsero della grande pressione che c’era su di loro. Poi pareggiò contro la Spagna e perse 2-1 contro la Russia, ma si qualificò comunque da seconda classificata grazie al gol segnato da Vryzas, che servì a eliminare la Spagna per differenza reti.

Georgios Karagounis esulta in semifinale contro la Repubblica Ceca (Ben Radford/Getty Images)

Come accadde nel 2016 per la vittoria del Leicester in Premier League, la Grecia si ritrovò nel mezzo del torneo con una squadra pienamente consapevole di quello che poteva fare o non fare in campo, e seppe approfittare dei fallimenti di quasi tutte le nazionali favorite. Ai quarti contro la Francia il gol che decise la partita fu in un certo senso premonitore: incursione sulla destra dell’onnipresente Zagorakis — poi eletto miglior giocatore del torneo, e acquistato dal Bologna — cross in area e colpo di testa di Charisteas, lasciato libero dalla difesa francese. Nella mezzora finale la Grecia non concesse un solo spazio in difesa e la fece finire così.

In semifinale contro la Repubblica Ceca di Nedved, Cech, Poborsky, Rosicky e Koller soffrì per novanta minuti e fu graziata dalle imprecisioni degli avversari. Ai supplementari però la Repubblica Ceca crollò fisicamente, la Grecia invece si svegliò portando a casa la partita in un modo già visto che non diede tempo di risposta: cross dalla destra e colpo di testa vincente di Dellas, il tutto all’ultimo secondo di gioco del primo tempo supplementare, che grazie alla regola del silver gol fece concludere la partita in quel momento.

Grecia e Portogallo si ritrovarono quindi in finale dopo aver giocato la partita inaugurale. Per la Grecia la finale si presentò inizialmente come un supplizio. Il Portogallo controllò la partita in lungo e in largo e tirò undici volte in porta, otto in più dei soli tre tiri, inoffensivi, della Grecia. Ma con il passare del tempo la pressione sui portoghesi salì, anche perché si era capito in che modo la Grecia preferiva colpire. Dopo un’ora di gioco, un cross dalla destra di Basinas trovò il solito Charisteas al centro dell’area, che grazie all’uscita avventata del portiere Ricardo segnò a porta vuota il gol del vantaggio.

Rui Costa lascia il campo dopo la finale persa in casa contro la Grecia (Shaun Botterill/Getty Images)

Nella mezzora successiva il Portogallo si riversò in attacco affidandosi soprattutto a Ronaldo, a cui però mancò sempre qualcosa per segnare. Avvicinandosi allo scadere i portoghesi divennero sempre più nervosi e inconcludenti. Al fischio finale rimasero in piedi tutti con la testa chinata, e in molti si misero a piangere. I greci crollarono a terra consapevoli che era successo qualcosa di irripetibile: la Nazionale meno quotata aveva vinto gli Europei battendo i padroni di casa, che invece si aspettavano di vincere il primo trofeo della loro storia. «Non ho mai trovato le parole per descrivere quei momenti. Al fischio finale abbracciai Seitaridis e Fyssas. Eravamo in paradiso», ha ricordato Kostas Katsouranis, in campo quella sera.

Il 6 luglio, due giorni dopo la finale, mezzo milione di greci aspettarono la squadra ad Atene, e in centomila la accolsero per i festeggiamenti allo stadio Panathinaiko, lo stesso dove poi le Olimpiadi si conclusero con la vittoria di Stefano Baldini nella maratona. Pochi giorni prima della cerimonia di apertura dei Giochi di Atene, Rehhagel fu scelto per portare la torcia olimpica attraverso il nuovo ponte di Rion Antirion, sul golfo di Corinto, diventando per tutti i greci “Re Otto”.

– Leggi anche: L’ultimo grande Brasile

Continua sul Post