Che fine ha fatto Pato?

Davide Coppo ha raccontato su Studio la storia dell'attaccante brasiliano che qualche anno fa era uno dei più forti e promettenti del mondo

Davide Coppo ha raccontato su Studio la storia di Alexandre Pato, l’attaccante brasiliano che oggi gioca nel São Paulo e che è stato al Milan tra il 2007 e il 2013, con 117 presenze e 51 gol. A soli 24 anni, la sua carriera sembra entrata in una fase discendente: ma pochi anni fa, quando giocava nel campionato italiano, sembrava uno dei giovani attaccanti più forti e promettenti del mondo.

Un calciatore professionista ventiquattrenne di solito non è laureato, di solito non beve molto, di solito fa un lavoro che gli piace, va a letto presto per svegliarsi presto e ha una relazione con una bellissima star dello spettacolo. Di solito guadagna moltissimo, se gli va bene è nel pieno della sua carriera ed è una carriera di successo, di articoli di giornale, di milioni di euro spesi per lui, di persone che lo amano e lo odiano senza che a lui importi molto. La vita di un calciatore professionista a ventiquattro anni è agli antipodi di quella di un ventiquattrenne comune che vive secondo la norma della sua generazione, e questa è un’affermazione mediamente vera, ma nella media ci sono le sfumature, e ci sono calciatori che vivono in modo più conforme alla norma generazionale, e ventiquattrenni che se ne allontanano di più pur non facendo i calciatori. Poi c’è Alexandre Pato, che è l’antipodo più lontano che ci sia. Pato ha già fatto tutto quello che un calciatore può fare, l’ha fatto velocemente, l’ha fatto bruciando come una torcia di fosforo, squagliandosi e consumandosi con un’apparente irrazionalità tipica dei pazzi, dei lunatici e dei monomaniaci, e dopo essere stato tra i più forti della sua generazione, Pato a ventiquattro anni è finito.

Certe parole vanno declinate: dire che un calciatore “è finito” è un’affermazione che va contestualizzata nel mondo del calcio. La fine per un calciatore non è la miseria, anche se a volte lo diventa, non è la vergogna, anche se a volte arriva, non è la fuga, anche se a volte è necessaria. Un calciatore come Alexandre Pato è finito perché la sua parabola professionale sta scendendo da troppi anni e non accenna a risalire, continua a buttarsi in picchiata verso il basso, sempre più velocemente, e l’immagine che mi viene in mente è quella di un aereo che cade, a motori spenti, forse con la coda fumante, ma che ancora non riesce a vedere l’impatto, la terra o il mare o le montagne su cui si schianterà. Ho l’impressione che Pato possa cadere ancora, e ancora più in basso.

Un calciatore deve saper giocare bene, benissimo se vuole diventare uno dei migliori, ma deve anche saper fare una cosa che a volte deriva dal suo gioco, a volte arriva nonostante il suo gioco e la sua attitudine in campo: deve sapersi far amare. A settembre 2013 la rivista brasiliana Poder fissa un’intervista con il giocatore, chiaramente Pato si presenta con un’addetta stampa, non è una novità, ma il giornalista Paulo Sampaio non si aspetta richieste simili. Non è possibile, dice l’addetta, fare domande sullo stipendio del giocatore, sul suo rapporto con i Gaviões de Fiel, i torcedores o ultras del Corinthians con cui ha avuto molti contrasti recenti, sul suo matrimonio con Stephanie Brito o sulla sua relazione con Barbara Berlusconi. A molte delle domande permesse non risponde lui, ma sempre l’assistente, e risponde con cenni della testa che significano “sì” o che significano “no”. Pato parla molto poco, tra le cose che dice c’è che deve vendere una Ferrari comprata in Italia. Il giornalista Paulo Sampaio, invece, dopo l’intervista parla molto e racconta quello che ha visto e quello che non ha potuto chiedere, ed è l’ennesima pessima pubblicità per l’attaccante più costoso della storia del Corinthians.

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