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  • Martedì 17 settembre 2019

Il primo capitano nero del Sudafrica di rugby

Siya Kolisi, cresciuto in un ghetto di Port Elizabeth, ha realizzato un vecchio sogno di Nelson Mandela

di Pietro Cabrio

Siya Kolisi canta l'inno sudafricano (Getty Images)
Siya Kolisi canta l'inno sudafricano (Getty Images)

La storia contemporanea del Sudafrica è stata scandita anche dal rugby, il suo sport nazionale. Nel Novecento, durante i quarant’anni della sistematica discriminazione e segregazione dei neri nota come i apartheid, la Nazionale di rugby sudafricana fu il vanto dei boeri, la minoranza bianca, ricca e segregazionista del paese. Quando invece il regime dell’apartheid venne abolito e dichiarato un crimine contro l’umanità, la stessa Nazionale divenne inaspettatamente il primo grande simbolo popolare del nuovo Sudafrica unito.

In quegli anni Nelson Mandela, primo presidente nero nella storia del paese, protesse il rugby dei boeri dal risentimento della popolazione nera e contribuì a renderlo uno sport aperto a tutti, con l’auspicio per il futuro di vedere rappresentate più etnie. La Nazionale – di cui all’epoca faceva parte un solo giocatore nero, Chester Williams, morto nel 2019 a Città del Capo – gli diede una grossa mano quando riuscì a vincere contro tanti pronostici la Coppa del Mondo organizzata in casa nel 1995.

Nelson Mandela porge la Coppa del Mondo del 1995 al capitano sudafricano François Pienaar (JEAN-PIERRE MULLER / AFP)

Negli ultimi venticinque anni la Nazionale sudafricana di rugby ha avuto un incremento dei giocatori neri e ha continuato a riflettere l’evoluzione e i problemi sociali del paese. Nel movimento è stato introdotto un sistema di quote di rappresentanza etniche che tutte le squadre nazionali, dalle giovanili in poi, sono tenute a rispettare. Il sistema delle quote, nato da pressioni di natura politica, ha sia garantito che spronato la presenza in Nazionale di molti giocatori neri: nell’ultima edizione della Coppa del Mondo, per esempio, furono obbligatorie 7 convocazioni su 31 posti disponibili.

Ma le quote hanno anche snaturato la Nazionale, da sempre una delle più competitive al mondo, costringendo di volta in volta gli allenatori a seguire uno “schema etnico” per le convocazioni, anche se il rugby in Sudafrica è ancora molto più popolare nella minoranza bianca. Le divisioni e le polemiche generate dal sistema delle quote hanno contribuito a una profonda crisi del movimento, culminata con i pessimi risultati ottenuti tra il 2015 e il 2016 (qualcuno si ricorderà le due storiche sconfitte subite contro Giappone e Italia).

Da allora sono passati altri quattro anni. Il sistema delle quote è ancora in vigore ma la stato del rugby sudafricano è decisamente cambiato. A testimoniarlo meglio di chiunque altro è Siya Kolisi, il primo capitano nero del Sudafrica in 126 anni di storia, nonché rappresentante di una nuova e promettente generazione di rugbisti neri. Nella Coppa del Mondo in Giappone, Kolisi ha guidato inoltre una squadra completamente rigenerata, in ottima salute e di nuovo tra le grandi favorite.

La storia di Kolisi è iniziata come quella di migliaia di ragazzi nati e cresciuti negli ultimi trent’anni nella baraccopoli di Zwide a Port Elizabeth, sesta città più grande del Sudafrica. Nelle baraccopoli povertà, emarginazione e violenza spingono verso la criminalità già in giovane età, come accadde a Zwide con tanti coetanei di Kolisi, costretti a rubare per fame.

Ma oltre agli sforzi di una famiglia presente, Kolisi ricevette l’aiuto fondamentale della squadra di rugby degli African Bombers, una società giovanile attiva da oltre cinquant’anni nell’area di Port Elizabeth. Dopo aver iniziato a giocare con le squadre scolastiche, Kolisi andò ai Bombers, dove trovò un luogo familiare, sicuro e stimolante per passare le giornate. Così si appassionò sempre di più al rugby, per il quale si dimostrò peraltro molto portato. Crescendo, le sue abilità gli valsero una borsa di studio alla Grey High School di Port Elizabeth, un prestigioso istituto scolastico già frequentato da alcuni famosi giocatori professionisti. Una volta arrivato negli ambienti universitari, il passaggio ai massimi livelli del rugby sudafricano fu soltanto questione di tempo.

Dopo aver giocato in tutte le nazionali giovanili, nel 2010 fu aggregato alla squadra dell’area metropolitana di Città del Capo, dalla quale fu poi selezionato per debuttare nel professionismo con la franchigia provinciale degli Stormers. Poi arrivarono le prime convocazioni con il Sudafrica, con cui oggi conta oltre quaranta presenze internazionali. Dall’anno scorso è anche il capitano. Fu nominato per un test match contro l’Inghilterra e da allora non ha più smesso di esserlo. Secondo l’allenatore Rassie Erasmus, la nomina a capitano di Kolisi, un rugbista noto per costanza e professionalità, è servita a unire la squadra e tutto l’ambiente attorno ad essa come non capitava da molto tempo.

(Getty Images)

Da primo capitano nero del Sudafrica in 126 anni, Kolisi ha mantenuto fede a tutti gli impegni richiesti dal ruolo, finendo anche a discutere apertamente del sistema delle quote. A inizio anno ne ha parlato dicendo: «Non credo che Nelson Mandela lo avrebbe sostenuto, anche se ovviamente non l’ho conosciuto per poterlo dire con certezza. Su queste cose non si possono imporre restrizioni. Se si vuole parlare di cambiamento, bisogna partire dalla base, dove il talento esiste e va alimentato con pari opportunità. Io non voglio pensare di essere stato scelto per il colore della mia pelle: questo non gioverebbe né a me né ai miei compagni».

Le opinioni sulle quote sudafricane si riflettono nei suoi impegni nelle attività sociali. Da quando è professionista è infatti uno dei finanziatori degli African Bombers, la sua prima squadra. Sostiene inoltre decine di squadre simili in tutto il paese, anche insieme alla Federazione nazionale, il cui obiettivo è arrivare ad avere una Nazionale composta al 45 per cento da giocatori neri. Il ruolo che le squadre giovanili di rugby hanno assunto nella società sudafricana negli ultimi anni sta influendo inoltre nella vita di un numero sempre maggiore di adolescenti cresciuti in situazioni disagiate, come è stato nel caso di Kolisi, la cui famiglia abita ancora a Zwide.

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