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  • Lunedì 26 dicembre 2016

Il presidente con una storia da serie tv

Nato con un altro nome e arrivato alla Casa Bianca senza prendere un solo voto, dieci anni fa morì Gerald Ford, che ebbe una vita eccezionale

di Francesco Costa

Gerald Ford cade dalla scaletta di un aereo nel 1975. (AP Photo/Peter Bregg)
Gerald Ford cade dalla scaletta di un aereo nel 1975. (AP Photo/Peter Bregg)

Nella storia recente degli Stati Uniti d’America ci sono molti presidenti le cui vicende – per originalità, fascino e quantità di colpi di scena – non sfigurano accanto a quelle dei loro omologhi di fantasia, inventati dagli sceneggiatori dei film e delle serie tv: da John Fitzgerald Kennedy a Lyndon Johnson, da Ronald Reagan a Barack Obama, e probabilmente tocca già includere in questa lista Donald J. Trump. Uno dei presidenti dalla storia più affascinante e allo stesso tempo meno conosciuto è Gerald Ford, che morì dieci anni fa – il 26 dicembre del 2006 – ed ebbe una vicenda personale incredibile, a cominciare proprio da come ci diventò, presidente degli Stati Uniti.

Cominciamo da prima, però: Gerald Ford non si chiamava Gerald Ford.

Nato nel 1913, il suo nome era Leslie Lynch King Jr.. Suo padre, che picchiava spesso sua madre, se ne andò a due settimane dalla sua nascita, dopo una lite in cui con un coltello minacciò di uccidere lei, il figlio e la bambinaia. I genitori di Ford divorziarono ufficialmente dopo sei mesi e lei nel 1916 sposò un commerciante del Michigan, Gerald Rudoff Ford. La madre decise allora di cambiare informalmente il nome del bambino, che aveva quasi tre anni, in Gerald Rudolff Ford, Jr.: ma il padre non lo adottò mai – per quando Ford da adulto ne abbia sempre parlato benissimo – e il cambio di nome fu reso ufficiale e legale soltanto nel 1935, quando Ford aveva 21 anni. Dopo una brillante carriera da giocatore di football universitario in Michigan – era capitano della squadra del suo college – e la laurea, Ford si arruolò nella marina statunitense, combatté nella Seconda guerra mondiale, tornò in America nel 1946 e cominciò a fare politica con i Repubblicani, riuscendo a farsi eleggere alla Camera ininterrottamente dal 1949 al 1973.

Una carriera così lunga lo fece diventare un pezzo grosso nel partito, tanto che dal 1965 fu scelto come capogruppo: ma salvo che in certe serie tv, e poche altre volte nella storia recente degli Stati Uniti, una lunga carriera parlamentare alla Camera non è la strada migliore per arrivare alla Casa Bianca. Gli americani preferiscono eleggere i governatori, che hanno già esperienza amministrativa, oppure i senatori, carica di maggior lustro e che costringe a fare meno campagne elettorali: il mandato dei senatori dura sei anni, quello dei deputati soltanto due. Inoltre passare molto tempo al Congresso – già allora una delle istituzioni meno amate dagli americani – vuol dire passare molti anni invischiati in trattative su questa e quella legge, e prendere decisioni magari contraddittorie per ragioni di opportunità politica. Insomma, Ford era un parlamentare esperto, influente e conosciuto, ma non era considerato presidential material: né lui aveva mai manifestato l’intenzione di candidarsi.

Il primo colpo di scena della sua carriera politica arrivò nel 1973, quando il vicepresidente degli Stati Uniti, Spiro Agnew, si dimise in seguito a gravi accuse di corruzione e riciclaggio di denaro. Il venticinquesimo emendamento della Costituzione prevede che il nuovo vice venga scelto dal presidente, ma che debba ottenere un voto di approvazione del Congresso: l’allora presidente Richard Nixon, politicamente molto indebolito dallo scandalo, si rivolse ai leader del Congresso per chiedere consiglio e loro risposero: o Ford o niente. Ford era visto come umile abbastanza da non avere manie di protagonismo né grandi ambizioni personali, e i Repubblicani del Congresso si fidavano di lui: e quindi divenne vicepresidente degli Stati Uniti. Era il 6 dicembre 1973. Otto mesi dopo, l’8 agosto del 1974, altro colpo di scena: Richard Nixon diventò il primo presidente degli Stati Uniti a dimettersi, stavolta per via dello scandalo Watergate. Senza prendere un solo voto e senza ammazzare nessuno, Gerald Ford era diventato presidente degli Stati Uniti. Frank Underwood, spostati.

Solo che Ford non era esattamente il ritratto del politico spregiudicato e complottardo, né evidentemente poteva aver previsto e orchestrato le circostanze che lo avevano portato alla Casa Bianca: era un deputato del Midwest, dal carattere umile e poco carismatico: ma il fatto che lo riconoscesse apertamente lo rendeva gradevole, umano. «Io sono un Ford, non un Lincoln», disse dopo essere diventato vicepresidente. «I miei discorsi non saranno mai come quelli di Lincoln. Ma farò del mio meglio perché siano almeno brevi e semplici come i suoi». Dopo essere diventato presidente, riconoscendo la circostanza eccezionale, disse agli americani: «Sono perfettamente consapevole che non mi avete eletto presidente con i vostri voti. Vi chiedo di confermarmi alla presidenza con le vostre preghiere».

A settembre, poco dopo il suo insediamento, Ford prese forse la decisione più complicata e controversa del suo mandato, decidendo di graziare il suo predecessore Nixon. Ford spiegò che quella crisi era conclusa, che Nixon era stato estromesso dal potere e la sua esperienza politica era definitivamente chiusa, motivo per cui sarebbe stato inutilmente lacerante per il paese affrontare anni di processi e ricorsi a un suo ex presidente. «La mia coscienza mi dice che non posso riaprire un capitolo chiuso, che il mio dovere non è solo proclamare la tranquillità tra i nostri confini ma promuoverla. La responsabilità finale è mia, e non posso affidarmi ai sondaggi per decidere cosa è giusto fare». La decisione fu molto contestata, naturalmente, ma Ford la difese fino agli ultimi anni della sua vita: nel 2001 spiegò che la grazia fu «l’unico modo per permettermi di concentrarmi al massimo sui problemi del paese, e non su quelli di Nixon». Sia Carl Bernstein che Bob Woodward, i leggendari giornalisti che con le loro inchieste portarono Nixon alle dimissioni, dissero poi di essersi convinti che la decisione di Ford fu «un atto di coraggio», e che Ford stesso dopo aver lasciato la presidenza l’aveva spiegata loro in modo convincente.

Arrivato alla Casa Bianca senza essere eletto, successore dell’unico presidente dimissionario della storia americana, senza un grande carisma, per giunta di un partito sconfitto alle elezioni di metà mandato del novembre 1974, quando si era insediato solo da tre mesi, e con l’economia del paese in grossa difficoltà a causa dell’inflazione crescente, Ford fu particolarmente sincero nel suo primo discorso sullo stato dell’Unione, nel gennaio del 1975, quando disse al Congresso laconicamente: «Lo stato dell’Unione non è buono». Questo suo atteggiamento umile e da “uomo medio”, e il candore con cui parlava spesso dei suoi limiti, si abbinarono poi ad alcune manifestazioni di simpatica goffaggine: nel 1975, per esempio scivolò dalla scaletta di un aereo a Salisburgo.

Un anno dopo ballò con la regina Elisabetta II nel corso di una cena di stato cavandosela bene, ma confessando poi di aver «fatto continuamente confusione tra “sua altezza” e “sua maestà”». E mentre la regina era ancora in pista, l’orchestra partì con “The lady is a tramp”.

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Per due volte qualcuno tentò di uccidere Ford: nel settembre del 1975 un uomo gli puntò una pistola addosso, e un agente della scorta intervenne prima che fosse premuto il grilletto; pochi mesi dopo a San Francisco una donna gli puntò una pistola addosso e gli sparò, mancandolo di pochissimo; un marine in pensione intervenne per bloccare la donna prima che sparasse ancora.

Ford decise di candidarsi alle elezioni primarie del suo partito, nel 1976. In condizioni normali i presidenti uscenti non vengono sfidati da nessuno di rilevante alle primarie, ma Ford evidentemente non era un presidente normale: lo sfidò un carismatico ex attore e governatore della California, Ronald Reagan. Le primarie furono così combattute e incerte che nessun candidato ottenne da solo la maggioranza assoluta dei delegati, e quella del 1976 viene ricordata come l’ultima “contested convention”. Ford disse che non avendo mai cercato di arrivare alla Casa Bianca, ed essendocisi trovato quasi per caso, per lui la presidenza non era mai stata «un premio da vincere bensì un dovere da espletare». I delegati scelsero lui. Dopo aver perso la candidatura, Reagan rivolse alla convention un breve, formidabile e improvvisato discorso della sconfitta: molti delegati, raccontarono poi, si resero conto di aver scelto il candidato sbagliato e capirono da che parte sarebbe andato il futuro.

A quelle elezioni presidenziali i Democratici candidarono Jimmy Carter, governatore della Georgia con un profilo da politico emergente, da outsider con un passato da imprenditore, molto religioso e fissato con la necessità di «ripulire Washington dalla corruzione». Sembrava una battaglia impari, e infatti per un po’ fu così: dopo le convention Carter aveva nei sondaggi un vantaggio nazionale di 33 punti su Ford. Solo che anche Carter non era un gran politico, come poi avrebbe dimostrato nel corso della sua presidenza, e quindi cominciò a fare degli errori: le sue proposte erano vaghe e in anni di Guerra fredda la sua inesperienza e lo scarso spessore diventarono un problema. Ford lo accusò di essere debole e inadatto a guidare gli Stati Uniti; Carter sottovalutò questi attacchi, senza difendersi con particolare forza.

Carter a un certo punto fece un altro errore di quelli che a vederlo in una serie tv ci sembrerebbe un’esagerazione degli sceneggiatori: diede un’intervista alla rivista Playboy e disse di aver desiderato in segreto donne che non erano sua moglie (mentre Ford, invece, aveva una moglie popolare e apprezzata).

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Voleva essere un’intervista dai toni leggeri e giocosi – il cane di Monti, tipo – ma quella frase gli fece perdere parecchi consensi tra gli elettori più religiosi e mise in discussione l’immagine che lui stesso si era voluto costruire, quella di uomo retto, integerrimo e onesto. Carter insomma non era più così favorito in una gara che invece avrebbe dovuto stravincere, Ford stava rimontando ma era ancora in svantaggio: queste ragioni diverse portarono i due candidati a prendere una decisione comune e inattesa. Sfidarsi in un confronto televisivo.

Il dibattito televisivo tra Ford e Carter fu il primo da quello famosissimo tra Nixon e Kennedy del 1960, che aveva avuto conseguenze così vaste che negli anni successivi i candidati non riuscirono mai a mettersi d’accordo per farne degli altri: e lo vinse nettamente Ford, che continuò così la sua rimonta nei sondaggi. Al secondo dibattito, però, Ford commise un errore che frenò la sua risalita. A un certo punto, rispondendo a una domanda sulla Guerra fredda e l’influenza dell’Unione Sovietica nell’Europa dell’est, disse: «Non c’è nessun dominio sovietico nell’Europa dell’est e con una nuova amministrazione Ford non ci sarà mai»

Il giornalista che moderava il confronto era incredulo, perché l’Unione Sovietica esercitava eccome un dominio politico e militare sull’Europa dell’est, tanto che gli chiese di spiegare meglio cosa intendeva: e Ford citò a quel punto la Jugoslavia, che però non faceva parte nemmeno del patto di Varsavia. Quella risposta è considerata ancora oggi uno degli errori più gravi che siano mai stati fatti da un candidato durante un confronto televisivo. Per giorni non si parlò d’altro, anche perché soltanto una settimana dopo Ford ammise di essersi espresso male: e ribadì a lungo, anche negli anni successivi, che intendeva dire che nei paesi dell’Europa dell’est si tenevano comunque le elezioni politiche (Ford sapeva del ruolo dell’URSS in Europa, ovviamente, ma voleva minimizzarlo). La rimonta di Ford dopo quell’incidente rallentò moltissimo ma proseguì: si arrivò al giorno delle elezioni con Ford e Carter praticamente pari.

Quello qui sopra è il momento in cui, alle 3.30 del mattino, quando in Italia erano le 9.30, quindi molto tardi per gli standard delle elezioni presidenziali americane, le tv statunitensi annunciarono che Jimmy Carter aveva vinto le elezioni. Carter ottenne solo il 2 per cento di voti in più di Ford su base nazionale e vinse con lo scarto di grandi elettori più piccolo dal 1916, in un’elezione che invece avrebbe dovuto stravincere. Molti storici pensano ancora oggi che se la campagna elettorale fosse durata una o due settimane in più, alla fine avrebbe vinto Ford.

Ford lasciò la Casa Bianca dignitosamente, salutato dagli elogi e dai ringraziamenti che lo stesso Carter gli rivolse nel suo discorso d’insediamento «per aver guarito il nostro paese». La percezione pubblica della sua immagine migliorò immediatamente e nel giro di poco tempo Ford fu visto da tantissimi americani come una persona rispettabile e perbene, un uomo qualunque che non aveva mai cercato il potere e aveva affrontato incolpevolmente un grande sacrificio personale per il bene del paese.

Nel 1980 Ford prese in considerazione una ricandidatura contro Carter, ma alla fine decise di lasciar perdere; il vincitore delle primarie, quel Ronald Reagan che era stato sconfitto alle primarie quattro anni prima, valutò di prendere Ford come suo candidato vice ma le trattative tra loro fallirono. Negli ultimi anni della sua vita Ford fu uno dei pochi politici Repubblicani di livello nazionale a esprimersi a favore dell’introduzione di maggiori controlli sulle armi; nel 2001 disse addirittura che le coppie omosessuali dovevano essere «trattate come le altre», in un momento in cui persino moltissimi Democratici avevano reticenze su questi temi; nel 2004 giudicò un errore l’invasione dell’Iraq da parte dell’amministrazione Bush.

Gerald Ford morì il 26 dicembre del 2006, quando aveva 93 anni e 165 giorni: è ancora il presidente uscente ad aver vissuto più a lungo nella storia degli Stati Uniti. Quando ottenne questo record superando Ronald Reagan, quaranta giorni prima di morire e già in precarie condizioni di salute, diffuse un comunicato con queste poche righe:

La lunghezza della vita di una persona importa meno dell’amore della sua famiglia e dei suoi amici. Ringrazio Dio per il dono di ogni alba ma soprattutto per tutti gli anni in cui ha benedetto me, Betty e i nostri figli, insieme alla nostra famiglia e gli amici di una vita. Tra questi conto anche i tantissimi americani che negli ultimi mesi mi hanno ricordato nelle loro preghiere. La vostra gentilezza mi commuove profondamente. Che Dio benedica voi e gli Stati Uniti d’America.

Ford FamilyLa famiglia Ford nel giardino della Casa Bianca nel 1975. (AP Photo)