Come ha fatto l’Islanda a uscire dalla crisi?

Il New York Times ha cercato di fare chiarezza sul caso più citato del giorno, oggi che in Grecia si vota per il referendum

Un uomo fotograto mentre lavora nel porto di Reykjavik (OLIVIER MORIN/AFP/GettyImages)
Un uomo fotograto mentre lavora nel porto di Reykjavik (OLIVIER MORIN/AFP/GettyImages)

Nel giorno del referendum in Grecia sulla bozza dell’ultima proposta dei creditori internazionali, è tornato a essere molto citato il precedente dell’Islanda, l’unico paese europeo ad aver sperimentato una crisi economica paragonabile per gravità a quella della Grecia. L’Islanda è stata tirata in ballo da entrambi gli schieramenti del referendum greco: sia da chi sostiene che i greci dovrebbero votare “No”, uscire dall’euro e stampare una propria moneta – dato che in Islanda è in corso da alcuni anni una certa ripresa economica – sia da chi sostiene che i greci dovrebbero votare “Sì” e accettare il compromesso offerto, poiché nonostante la ripresa l’Islanda ha tuttora una situazione finanziaria molto incerta. Un recente articolo del New York Times scritto dalla giornalista economica Jenny Anderson ha cercato di fare un po’ di chiarezza su cosa è successo in Islanda, di modo da poter paragonare la sua situazione a quella della Grecia con le dovute proporzioni.

Anderson, innanzitutto, fa un avvertimento molto preciso: l’Islanda e la Grecia sono due paesi dalle dimensioni e caratteristiche molto diverse:

L’Islanda è una piccola isola di 320mila abitanti, la cui politica è molto più diretta (non è così difficile, incontrare il primo ministro). La Grecia ha una popolazione di 11 milioni di abitanti, un PIL 16 volte superiore a quello islandese e una lunga storia di estremismo politico e corruzione endemica. È vero che entrambi i paesi sono saltati per aria, ma con modalità diverse. In Grecia, è stato il paese intero ad aver vissuto al di sopra delle proprie possibilità. In Islanda sono state le banche private ad aver fatto casino.

Detto questo, nel caso di vittoria del “No”, la Grecia si troverebbe di fronte a una situazione simile a quella dell’Islanda del 2008: l’incapacità di pagare un debito enorme e l’esigenza di risolvere i problemi a breve termine cavandosela con una propria moneta statale. Anche se i sostenitori del “No” negano che il referendum di oggi sia sul mantenimento o meno dell’euro in Grecia, in molti ritengono che in caso di vittoria del “No” l’adozione di una nuova moneta sarebbe quasi inevitabile.

E come ha fatto quindi l’Islanda?
La crisi in Islanda cominciò nel 2008 quando tre grosse banche private fallirono una dopo l’altra, in seguito a spericolati investimenti che avevano causato in totale 85 miliardi di dollari di debiti. Il governo islandese, naturalmente, non aveva i soldi per risolvere la situazione: fece fallire le banche e le nazionalizzò, spostando i conti dei cittadini islandesi in due banche “sane” e accollandosi i debiti delle banche private. Il debito pubblico aumentò dell’80 per cento in poche settimane. Questo choc causò un crollo nel valore della moneta nazionale – la corona islandese – e una gravissima recessione.

Il governo, per far fronte all’emergenza, chiese un prestito di 5 miliardi di dollari al Fondo Monetario Internazionale, impegnandosi ad attuare molte misure di austerità economica. Fu inoltre imposto un blocco dei capitali, per impedire che i soldi materialmente presenti sull’isola fossero trasferiti altrove sia dagli investitori stranieri che dagli stessi islandesi. Con i soldi dell’FMI, l’Islanda riuscì a non tagliare il welfare e a tenere stabili i consumi: alzò però parecchio le tasse – l’IVA salì al 25,5 per cento e diventò la più alta al mondo, l’aliquota massima dell’imposta personale sul reddito aumentò dal 35,7 al 46,2 per cento – e ne creò di nuove. Bloccò anche gli scatti e i benefit dei dipendenti pubblici. Gli stipendi degli islandesi calarono dell’11 per cento, dal 2007 al 2010. Scrive Anderson che queste misure furono possibili perché il sistema islandese si basava su un’economia “reale”, fatta di pesca e commercio di energia: cosa che ha sopperito all’«effimero periodo di impazzimento in cui il paese si credeva una potenza finanziaria mondiale». Anderson intende probabilmente dire che la situazione è un po’ diversa da quella della Grecia, che da anni soffre di problemi sistematici come un’estesa corruzione e la difficoltà di creare posti di lavoro.

Grazie alla svalutazione della moneta, inoltre, l’Islanda riuscì ad attirare nuovi turisti e cercò di riciclarsi in quel settore. Dal 2006 al 2014, il turismo ha raddoppiato il proprio giro d’affari. Pian piano, anche il resto l’economia islandese ha ripreso ad espandersi: nel 2011 il PIL è tornato a crescere del 2,9 per cento, mentre per il 2015 è prevista un’ulteriore crescita del 4,1 per cento. Il tasso di disoccupazione è al 4 per cento, ed è in calo costante dal 2011 (quando aveva raggiunto il 9 per cento). Il “costo sociale”, in questi anni, è stato però molto alto: le tasse rimangono molto elevate, gli investitori stranieri rimangono piuttosto diffidenti – condizioni che fra l’altro la Grecia, ad esempio, sperimenta già da anni – e i cittadini islandesi hanno comunque dovuto ripagare parte dei soldi che le banche private dovevano agli investitori stranieri.

Anderson conclude che in molti, in Islanda, temono il momento in cui finirà il blocco dei capitali, che in questi anni ha reso l’economia islandese piuttosto anomala e “sotto controllo”, e che il governo spera di eliminare parzialmente nel 2016; e che in molti si chiedono «come sarà la vita “dall’altro lato”, e se l’Islanda potrà davvero sopravvivere con la propria moneta».